Concepire un intero saggio su un’opera d’arte, considerata nella sua singolarità. Concepire l’opera stessa – o una serie di opere – in quanto porta d’accesso a questioni di carattere individuale, sociale e politico che, quantomeno in un primo momento, sembrano eccederla. A partire dagli anni ottanta del secolo scorso, Mieke Bal ha contribuito alla messa a punto di un approccio alle arti e alle immagini in quanto forme di testimonianza e di scarto rispetto all’orizzonte storico e culturale in cui si inseriscono. La recente pubblicazione del volume bilingue, italiano e inglese, Oltre l’abituale. Louise Bourgeois come costruttrice, narratrice, teorica (2024), che segue la traduzione italiana di Narratologia in pratica (2024), entrambi editi da Postmedia Books, offre dunque l’occasione per condividere alcuni appunti di lettura e tornare a riflettere su questioni riguardanti il rapporto tra l’esperienza artistica e la pratica analitica e critica.
La ricerca di Bal su Louise Bourgeois non è qualcosa di occasionale, né si lega al progressivo intensificarsi dell’interesse nei confronti dell’artista nel corso degli ultimi anni. A partire dalla fine del secolo scorso – con l’articolo Narrative Inside-Out, e poi con Beckoning Bernini, scritto in occasione della mostra di Bourgeois al Reina Sofía, con il libro Louise Bourgeois: Architecture of Art-Writing e, dunque, con l’articolo Scale as Political Tool, in occasione della mostra del 2016 – Bal non ha mai smesso di interrogarsi sull’opera di Burgeois. Gli otto capitoli di Oltre l’abituale costituiscono in tal senso il montaggio di diversi frammenti provenienti da queste pubblicazioni, unendo riflessioni già sviluppate a nuove ipotesi sulle serie artistiche Cells e Spiders.
Dalla prima all’ultima pagina, Bal valorizza il ricorso a due termini tutt’altro che di facile utilizzo nel contesto contemporaneo: il primo è arte, il secondo è opera. Le ragioni di tale scelta potrebbero sembrare scontate: Louise Bourgeois è stata una delle più importanti artiste degli ultimi decenni, autrice di molte straordinarie opere quotate decine di milioni di dollari. Tuttavia, Bal ci spinge da subito oltre la tautologia secondo la quale un artista è un artista è un artista… All’interno della sua argomentazione, l’espressione “opera d’arte” non è altro che il corrispettivo – la variante divulgativa o corrente – di quello che propone di chiamare “oggetto teorico”. Qui, Bal si rifà a un concetto sviluppato nell’ambito della storia e teoria dell’arte francese e, più precisamente, da Hubert Damisch. Concepire un’opera d’arte in quanto oggetto teorico significa prendere atto del fatto che essa stessa è portatrice di un pensiero, non meno delle discipline e delle studiose e studiosi che vi si applicano; significa dunque accettare di andare incontro alla sua intelligenza, sempre pronta a metterci sotto scacco, in una forma di interazione o dialogo – dobbiamo forse scrivere “chat”? – che si articola attraverso diverse modalità e linguaggi espressivi.
Si tratta di un rapporto che può risultare estenuante, fatto di epifanie, obliterazioni, spostamenti: l’identificazione di nuovi interessanti aspetti, la formulazione di ipotesi e i ritorni sui propri passi. Di fronte all’impressionante serie di ragni realizzati da Burgeois, Bal esplicita dunque la necessità di superare il concetto di “caso studio” e sottolinea il carattere dinamico, costruttivo, di qualsiasi atto interpretativo e critico. Tanto chi visita una mostra quanto chi studia le opere che la compongono, non fa che cercare un riparo al loro interno, sostanziando (provvisoriamente) alcuni degli architravi che le strutturano o che vi sono accennati. Proprio in questo senso sembra possibile comprendere alcune frasi per così dire evocative di Bal, come quando scrive «Per tutta la durata di questo scritto, Spider è stata la mia casa» (2024, p. 103). Si tratta di dichiarazioni che non esprimono soltanto un attaccamento emotivo all’opera in questione, ma suggeriscono l’idea che l’opera stessa, in quanto oggetto teorico, non sia mai statica o chiusa, configurandosi come luogo del possibile abitare.
Tra i nodi teorici del libro si trova dunque il rapporto tra descrizione e narrazione, uno dei temi ricorrenti nella ricerca di Bal. La studiosa sottolinea innanzitutto il fatto che «descrivere semplicemente l’opera sembra molto più in linea con la disciplina visiva (visual discipline) che raccontare o sollecitare storie su di essa» (ivi, p. 111). A tal proposito, nel settimo capitolo, l’autrice condivide gli appunti presi durante la sua prima visita a una mostra di Bourgeois. L’obiettivo non è tanto quello di elevare quelle semplici note al rango di pubblicazione scientifica, quanto di utilizzarle come punto di partenza per una riflessione tanto metodologica quanto teorica. Partire dai tentativi di descrizione di fronte all’opera d’arte, o all’interno del suo perimetro, significa innanzitutto cercare di smarcarsi da quegli approcci disciplinari che identificano il suo significato o la sua “causa” in qualcosa che la precede, come può esserlo un’altra opera, una tipologia rappresentativa o una vicenda personale dell’artista.
In ogni tentativo di descrizione, ci dice Bal, persiste il carattere produttivo dell’incertezza. Persiste, ad esempio, la possibilità di riconoscere il carattere al contempo astratto e figurativo dei grandi ragni di Bourgeois, senza lasciarsi sopraffare dalla loro riconoscibilità iconica e dal peso simbolico che questa tende a imporre su tutto il resto. Partire dai propri appunti, ovvero dallo smarrimento che esprimono, ma anche dai continui tentativi di identificare un percorso di senso, significa dunque superare l’opposizione tra descrizione e narrazione. Una volta varcata la soglia e sottoposti all’ombra di Spider, identificate le uova che porta con sé e che incombono, osservato il sistema di gabbie, al contempo contenute e contenitori, e gli oggetti talvolta presenti; una volta rilevati e descritti tutti gli altri elementi che compongono la qualità straordinaria delle opere di Bourgeois, chi osserva si trova sospeso tra accumulo e sintesi, tra una tendenza paratattica e la funzione sintattica che l’opera d’arte stessa tende a suggerire. In altre parole, davanti e dentro Spider, si tratta di riconcepire l’esperienza artistica come un processo, assegnando a chi osserva un ruolo non ancillare, ma attivo, e attribuendo all’ora dell’esperienza – il “Jetztzeit” benjaminiano, espressamente richiamato da Bal – una specifica importanza. «È grazie alla partecipazione di chi guarda che ogni descrizione si fonde con la narrazione del processo che la rende possibile» (ivi, p. 121).
Un ultimo aspetto che vorrei mettere in evidenza riguarda il ruolo da assegnare alla vita dell’artista nell’interpretazione delle sue opere. Studiando il lavoro di Bourgeois, Bal è pienamente consapevole della presenza, esplicita e implicita, di rimandi autobiografici: dal rapporto con la madre, che culmina nell’enorme ragno Maman (1999), alle implicazioni psicoanalitiche che affiorano nei dettagli dei suoi lavori. Si tratta di aspetti continuamente sottolineati all’interno del dibattito critico. Pur restando legata al principio dell’intentio operis, Bal sembra ammettere l’esigenza di riconoscere il rapporto tra la biografia dell’artista e la vita delle opere. Come scrive nell’ottavo capitolo, «Non fraintendetemi: anch’io trovo importante il passato di Bourgeois. Immagino la giovane ragazza che lavorava nell’officina, il solo odore deve aver infuso nel suo corpo tutti gli stati d’animo che la storicità, i tempi andati, producono in ogni persona che cresce e sogna» (ivi, p. 135). A tal proposito, il punto di maggiore interesse coincide con il secondo capitolo, dove Bal propone di ripensare il concetto di “autobiografia” con la nozione di “auto-topografia”. Traendo spunto dal fatto che la serie Spiders e Cells chiedono di essere percorse e attraversate, Bal concepisce tali sculture come ambienti di frammentazione e riconfigurazione delle esperienze, nei quali la vita dell’artista e quelle di chi visita le opere si incontrano e si intrecciano. Contro una concezione proprietaria dell’arte e dei suoi significati – come se fossero custoditi presso chi l’ha creata e occasionalmente svelati mediante interviste e dichiarazioni pubbliche –, Bal ci invita a riflettere sul carattere “interattivo” dell’esperienza artistica, dove chi osserva non fa altro che dare realtà, con i suoi percorsi, a una memoria potenziale che riguarda tanto il passato quanto il futuro, tanto la sfera individuale quanto quella collettiva.
Oltre l’abituale. Louise Bourgeois come costruttrice, narratrice, teorica rende accessibile in italiano una piccola parte del pluridecennale, imponente, lavoro di Mieke Bal che spazia dall’arte moderna a quella contemporanea, dalla letteratura al cinema, dalla fotografia alla museologia. Si tratta di un libro che è come una scheggia, dove alcuni nodi teorici restano chiaramente identificabili. Su tutti, l’idea che accettare il confronto con quanto ancora chiamiamo opera d’arte non sia un atto nostalgico, ma un gesto carico di implicazioni di vario tipo. Bal utilizza più volte l’espressione “arte politica” riferendosi al lavoro di Louise Bourgeois e mettendo in discussione la tendenza a esaurire il politico nell’attivismo (ivi, p. 43). Si tratta di un distinguo che non deve essere interpretato come espressione di una posizione di retroguardia: da Double Exposures (1996) a Quoting Caravaggio (1999), da The Artemisia Files (2005) fino a Art and Visibility in Migratory Culture (2011), i libri di Bal affrontano tematiche immediatamente riconoscibili come “politiche”, come le questioni di genere, la funzione delle immagini nello scenario postcoloniale, il rapporto tra arte e migrazione. Piuttosto, di fronte all’imponenza e alla qualità dei dettagli che caratterizzano le sculture aracniformi di Bourgeois, Bal ci invita a riconoscere il potenziale della pratica artistica: la sua capacità di intercettare, disarticolare e costringere visitatrici e visitatori a riconfigurare quell’infinità di stimoli percettivi, sensoriali e iconografici che investono tanto la sfera psicologica individuale quanto il tessuto dei discorsi sociali.
Andare per mostre, andare al cinema o cercare altrimenti di incontrare e costruire “oggetti teorici” significa dunque continuare a riflettere sulle condizioni e i confini della spettatorialità. Tenere viva l’intelligenza artistica significa accettare l’inesauribilità di ciò che è localizzato e singolare – come un’opera – e il suo potenziale teorico e critico. Significa dunque riconoscere la nostra posizione, su quella soglia incerta tra l’interno e l’esterno, tra i modi in cui l’opera si configura e il modo in cui intercetta, riorganizza e rigenera tutto ciò che le sta intorno.
Mieke Bal, Oltre l’abituale. Louise Bourgeois come costruttrice, narratrice, teorica, Postmedia Books, Milano 2024.