Succede spesso che, discutendo dell’ultimo sforzo registico di un autore ormai consolidato, si rischi di sfociare in una operazione polarizzante dal sapore partitico: un rigurgito di abnegazione per la quale il film in questione o assume le vesti di un oggetto sacrale da temere reverenzialmente o diventa la pietra tombale sotto cui sotterrare qualsiasi continuità col passato.

A maggior ragione se il regista in questione è M. Night Shyamalan, autore di numerosi film che, nel tempo, non solo si sono rivelati degli acclamati successi commerciali ma hanno addirittura dimostrato la loro intrinseca capacità di assurgere a veri e propri cult. Old – per queste ragioni – è il prodotto perfetto per rappresentare il territorio di contesa fra coloro che reputano il regista de Il sesto senso (1999), Unbreakable – Il predestinato (2000) e Signs (2002) (giusto per citare alcuni dei titoli più celebri) ancora in grado di interpretare le potenzialità del medium e quelli che lo considerano – per uno sfortunato scherzo del destino – un cadavere ambulante in via di scadenza, alla stregua dei personaggi che popolano la trama di quest’ultimo suo lavoro. La strategia migliore per affrancarsi dalle logiche distorcenti del fanatismo cinefilo è rivolgersi a Shyamalan invertendone la diacronia biografica, fino ad inserire Old in un esperimento mentale per considerarlo una sorta di opera prima. Che volto avrebbe assunto Old di Shyamalan ancor prima che Shyamalan diventasse Shyamalan? E soprattutto: sarebbe mai stato in grado di produrre tutto quell’universo mitologico che anni dopo i suoi film più amati avrebbero contribuito a disegnare?

Nel caso si consideri Old il capostipite fittizio dei futuri successi, emerge subito una frattura nella coerenza filmografica derivante dall’abbandono dell’originalità della scrittura, in favore di un adattamento sui generis posizionato perifericamente rispetto ai risultati autoriali che Shyamalan ha fatto conoscere al grande pubblico. Il fulcro narrativo, infatti, è tratto da una breve graphic novel intitolata Sandcastle, di Pierre Oscar Levy e Frederik Peeters, e si affida alle vignette proprio nella costruzione di quello speciale dispositivo drammaturgico che, nel corso della sua carriera, avrebbe concorso ad incoronarlo «re della suspense moderna»: la cosiddetta “chiamata all’avventura”, l’incidente scatenante in grado di mettere in moto la trama. Non veniamo più immersi in quel peculiare bacino immaginifico che negli anni ci ha abituato a vivere scene di invasioni aliene, vegetazioni misantrope e contatti ultraterreni, ma gli eventi ci catapultano su una misteriosa spiaggia che, nonostante mantenga gli stilemi del mystery horror, perde i connotati squisitamente hitchcockiani tanto cari al “marchio” Shyamalan, arrivando a sposare una dimensione più farsesca.

Una coppia di coniugi si reca insieme ai figli in un lussuoso resort tropicale con l’intento di passare una felice vacanza e scongiurare un divorzio sempre più imminente. Quando il direttore dell’albergo consiglia loro di visitare una baia incontaminata all’interno di una riserva naturale lì vicina, la vicenda inizia a degenerare. Presto la famiglia, e con loro un gruppo di altri turisti, scoprono che la spiaggia di cui sono ospiti li sta facendo invecchiare ad una velocità fuori dal comune. Inizialmente il gruppo cerca di affrontare il problema con razionalità ma, quando si accorge di non poter fuggire poiché intrappolato da una forza invisibile, la consapevolezza di vedersi passare la vita davanti nell’arco di una giornata conduce molti di loro a gesti avventati e folli.

L’opera di traduzione filmica rimane ridotta ai minimi termini soprattutto in relazione alla temporalità del racconto che scandisce il ritmo narrativo, aderendo al linguaggio fumettistico delineato a monte e sortendo, così, l’effetto collaterale di un repentino innalzamento del livello di ironia della storia. Dal momento che in Sandcastle gli avvenimenti si susseguono senza un’eccessiva manipolazione della fabula, Old si trova costretto a giustificare le reazioni psicologiche dei personaggi e svariati snodi logico-deduttivi in lassi di tempo estremamente brevi.

Ma se le caratteristiche genetiche della graphic novel permettono di rispondere ad un problema di questo tipo forzando, in eccesso, il meccanismo della sospensione dell’incredulità – cioè la richiesta implicita di accettare alcune incongruenze in un’opera di fantasia sopra le righe –, il film di Shyamalan è chiamato a destreggiarsi entro i canoni di un realismo quantomeno plausibile; la motivazione è doppia: sia per consonanza stilistica rispetto al resto dei lavori svolti, sia a causa del finale alternativo aggiunto alla risoluzione dell’intreccio, del tutto assente nel romanzo a fumetti dei due autori svizzeri. Quest’ultimo lascia inevase la maggior parte delle domande, optando per un taglio filosofico improntato ad una riflessione metafisica di stampo esistenziale, mentre il finale originale di Old inietta una discreta dose di interpretabilità dentro gli interrogativi ancora aperti, riportando, per così dire, la storia sulla terra.

Nonostante questo processo conclusivo di trascrizione visiva abbia il grande pregio di offrire una sceneggiatura comprensibile a tutti – e questo è un pregio del quale solo un talento di Hollywood può fare sfoggio in maniera così disinvolta – tale mossa si rivela un’arma a doppio taglio per la tenuta drammaturgica del film, poiché rende evidenti i limiti linguistici nell’utilizzo sconsiderato dell’incredulità sospesa. Solidificando le fondamenta di plausibilità della storia il resto degli ingredienti utilizzati per articolare la vicenda assume il colorito della caricatura, dal momento che vede sottrarsi davanti a sé la valvola di sfogo della comicità. Laddove ci si aspetterebbe una traslazione nello stile del racconto, oltrepassando la linea verso un horror alla Sam Raimi in cui i cliché di genere, pregni di ironia, diventano l’aspetto originale della comunicazione, questa evoluzione viene invece disattesa. E così iniziano a riecheggiare tutte le stonature del caso: la psicologia distorta dei personaggi, incapaci di reagire agli eventi con i giusti tempi e con la giusta carica emotiva; l’assurdità nel motivare i nessi consequenziali delle scene più concitate; la perdita di mordente nella struttura tematica dei contenuti proposti. Shyamalan, abile funambolo sospeso fra realtà e immaginazione, in Old sembra aver perso l’equilibrio in favore di una versione grottesca di se stesso, senza più quella raffinatezza grammaticale che in altri contesti avrebbe conferito la giusta cifra anche ai passaggi narrativi stilisticamente più spinosi.

Se questo fosse il biglietto da visita per posizionarsi all’interno del mercato americano del mystery horror, un autore emergente così ritratto non avrebbe vita facile al giorno d’oggi. La società di produzione e distribuzione A24 ha fatto scuola nell’interpretare le esigenze cinematografiche del pubblico contemporaneo e negli ultimi anni ha dimostrato come la nicchia dell’horror “d’autore” fosse pronta ad una rapida espansione. Dopo più di un decennio di dominio da parte di sottogeneri legati al soprannaturale e al demoniaco – figli del clima culturale di fine millennio che sullo schermo ha preso il nome di horror-of-the-demonic – nei quali il meccanismo immedesimativo del jumpscare è divenuto il vettore principale dello spavento, mai prima d’ora si è arrivati alla necessità di un cambio di rotta verso esperienze più impegnative e complesse. E non si tratta di singoli casi isolati come i fortunati The Witch (Egger, 2016) e ScappaGet Out (Peele, 2017), ma di una tendenza diffusa che ha piantato le sue radici fino a portare in auge interessanti commistioni fra suspense, folklore, mitologia e dramma sociale.

Shyamalan prima di Shyamalan esce da questa nuova tendenza proprio nel momento della sua massima affermazione, conferendo un tono paradossale al percorso registico intrapreso in precedenza. Buona parte dei film prodotti da questo slittamento di genere sembra contenere al suo interno gli sviluppi di certe suggestioni già presenti in nuce nelle punte di diamante che lo hanno consacrato al grande pubblico: si pensi, ad esempio, alle somiglianze fra The Village (2004) e The Lady in the Water (2006) con le ultime proposte in materia di thriller esoterico. Oggi, tuttavia, il regista americano sceglie di celarsi dietro l’anacronismo per non rendersi riconoscibile; di percorrere, consapevolmente o no, una strada alternativa rispetto ad un periodo che, probabilmente, deve a lui il suo successo più che a qualsiasi altro autore hollywoodiano del XXI secolo.

La perdita di identità è una conseguenza diretta dell’estraniazione mediatica verso forme visuali che non hanno ricevuto la giusta dose di digestione linguistica e Sandcastle, assorbito come fosse una sorta di storyboard pre-confezionato, non si limita a deformare le soluzioni letterarie e registiche ma arriva ad intaccare perfino lo smalto fotografico delle immagini. La tecnica di ripresa rimane vittima di un racconto che fatica a seguire la giusta dinamica narrativa e, nel tentativo di rappresentare con autenticità sequenze fin troppo dense di progressione climatica, prova ad amalgamare scompostamente movimenti di macchina molto diversi fra loro senza un’apparente giustificazione autoriale. Il problema principale è dato dall’alternanza repentina fra carrellate, steadycam e camere a mano, spesso così brevi, veloci e sporche da confondersi fra di loro nella stessa scena; scena che rimane, così, incapace di fornire allo spettatore i giusti strumenti di acquisizione della prospettiva visiva. Allo stesso modo, le inquadrature non sembrano seguire le regole formali della composizione, poiché il bilanciamento degli elementi del profilmico viene perso via via che ci si avvicina al climax della storia. Solo in rari casi questa licenza grammaticale è utilizzata in funzione dell’esposizione delle informazioni – in special modo quando la rivelazione madre del film, l’invecchiamento precoce, viene caricata di suspense ad inizio trama mediante un inquadramento parziale dei focus informativi –; ma quando il ritmo del racconto e la concitazione del montaggio iniziano a salire tale espediente perde sempre più efficacia, fino a contribuire alla crescita dello smarrimento generale.

L’insieme delle criticità raccolte perderebbe di significato se i contenuti morali fossero i veri protagonisti della storia, come avviene invece nel romanzo a fumetti. Sandcastle è un ricettacolo di avvenimenti sensazionali finalizzati a sostenere che, in fondo, la durata della vita non è molto diversa dalla durata di un giorno quando il tempo è dilatato o compresso dal modo con cui l’uomo colora di individualità le sue giornate. Tale punto di vista viene perso nel film in virtù dell’esplicazione puntuale di un presente alternativo fantascientifico senza troppi fronzoli, il quale si trova però sguarnito dell’infrastruttura formale adatta a soddisfarne l’esigenza. Se dovessimo riconoscere Shyamalan attraverso Old probabilmente faticheremmo a ritrovare la sua impronta: non tanto per una questione di eccessiva diluizione autoriale ma perché, davanti a se stesso, nemmeno lui riuscirebbe – o, ancora meglio, vorrebbe – distinguere più la mano che un tempo è riuscita a portarlo alla ribalta.

Old. Regia: M. Night Shyamalan; soggetto: dalla graphic novel di Pierre-Oscar Levy e Frederick Peeters; sceneggiatura: M. Night Shyamalan; fotografia: Mike Gioulakis; montaggio: Brett M. Reed; scenografia: Naaman Marshall; musiche: Trevor Gureckis; costumi: Caroline Duncan; interpreti: Gael García Bernal, Vicky Krieps, Rufus Sewell, Ken Leung, Nikki Amuka-Bird, Abbey Lee, Kathleen Chalfant, Aaron Pierre, Alex Wolff, Luca Faustino Rodriguez, Emun Elliott, Eliza Scanlen, Mikaya Fisher, Kyle Bailey, Thomasin McKenzie, Alexa Swinton, Embeth Davidtz, Gustaf Hammarsten, Daniel Ison, Jeffrey Holsman, M. Night Shyamalan; produzione: M. Night Shyamalan, Marc Bienstock, Ashwin Rajan, Steven Schneider, Blinding Edge Pictures; distribuzione: Universal Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 108′; anno: 2021.

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