Trovarsi di fronte a un film come Occupied City significa da subito fare i conti con un progetto imponente, diffuso, immersivo: sono quattro ore e mezza in cui si passa in rassegna la città di Amsterdam, via per via, angolo per angolo, piazza per piazza. Un atlante, un lento movimento, un dispositivo testimoniale in cui lo spettatore è chiamato a seguire un preciso itinerario, tanto ipnotico quanto respingente, in cui, elencando e catalogando, si mappano angoli della città dal 2020 in poi mentre, in voice over, si ripercorrono memorie e storie della città dal 1940 al 1945: quella occupata dalla Germania nazista, assoggettata alle sue leggi, regole e orari, e in particolare alla repressione antisemita, dalle ghettizzazioni alle deportazioni.

Mettere in fila per Steve McQueen – e per l’olandese Bianca Stigter, moglie del regista, che ha condotto la ricerca confluita nel libro da cui è tratto il film – serve a mettere la città in condizione di visibilità. Un sintagma (descrittivo), un catalogo (si veda anche Bestiari, erbari, lapidari) che però lavora, al contrario, sulla riflessa condizione di invisibilità, bucando la mappa, aprendola, riscrivendola.

Ripartendo dalle teorie costruttiviste della geografia culturale secondo cui, proprio in questa condizione del visibile, emerge il potere della carta di codificare il mondo a sua immagine, figlia di un gruppo dominante (Cosgrove 1990), Occupied City può avvalersi delle teorie post-rappresentazionali. Queste, al contrario delle prime, mirano non tanto a superare la mappa, quanto a infrangerla, smascherando e riassegnando le rappresentazioni egemoniche con un approccio di rottura che opera sia in chiave decostruttiva che ricostruttiva, generando nuovi immaginari. Emerge così una «riscoperta del potere non solo come assoggettamento (potere su) ma anche come potenziale (potere di), che permette di ridisegnare e di ripensare in modo diverso lo spazio cartografico» (Lo Presti 2019, p. 102).

Più che una mappa, Occupied City è un’operazione di mapping che scardina, smaschera e riposiziona. Bianca Stigter, nel suo libro illustrato Atlas of an Occupied City: Amsterdam 1940-1945, ripercorre le tracce visibili e invisibili della guerra e dell’occupazione, la deportazione di ebrei che ha visto una delle più alte percentuali di morti, mappando nuovamente la città con un altro sguardo, con un intento archeologico. Così fa anche il film di Steve McQueen.

Sono angoli della città, annunciati oltre che enunciati, “71 Ruysdaelstraat”, “123 Apollolaan”, “26 Vegastraat”, osservati a distanza. Ogni sequenza è l’inizio di un posizionamento: una via, una piazza, un appartamento, un’infrastruttura. È il catalogo, un’enciclopedia, il sintagma che spazializza, con un ordine preciso, un itinerario. E mentre percorriamo l’andamento quotidiano della vita di una città occidentale degli anni venti – prima, durante e dopo la pandemia – al piano visivo contemporaneo viene sovrapposto quello orale storico.

Nel film di Steve McQueen il portato memoriale è infatti esclusivamente circoscritto alla parte sonora, restituendo così un’opera che gioca su una complessa convivenza tra immagini e parole. Se è vero che la voce narrante esordisce sempre geolocalizzando, è anche vero che la maggior parte dei luoghi funzionano come micce per far riemergere una storia che nel racconto orale si dipana nel tempo per poi “rischiare” di concludere ogni vicenda – a volte più privata, altre più collettiva, come le storie di singole famiglie ebraiche a partire da singoli appartamenti o quelle della piscina comunale sempre più progressivamente inaccessibile – con un lapidario demolished.

È l’esibizione di un asincronismo della memoria nel quale la lunga temporalità quasi esasperante dell’esperienza urbana si contrapporne alla memoria di quei luoghi esclusivamente narrata oralmente che qui, nella maggior parte dei casi, non trova una corrispondenza visiva. Aprendo così a uno svariato numero di ipotesi interpretative: stiamo facendo esperienza di una città che nasconde le sue memorie? O una città che è andata oltre e ha vinto una certa battaglia di libertà e democrazia? Abbiamo demolito queste violenze dalla nostra vita? O semplicemente non ce ne stiamo ricordando? Questa sovrapposizione fa emergere qualcosa che abbiamo purtroppo dimenticato? O qualcosa che abbiamo fortunatamente superato?

Le due entità che sembrano non incontrarsi mai, a volte trovano dei punti di ingiunzione, riescono a essere messe in condizione di significare. In alcuni angoli di città sono presenti monumenti che dialogano sincronicamente con la storia orale, in altri invece in modo quasi oppositivo. Cosa significa raccontare per immagini la città di Amsterdam in procinto di affrontare la pandemia da Covid-19 – con i suoi lockdown, mascherine, proteste no-vax e vaccinazioni – con un racconto orale della città di Amsterdam sotto l’invasione tedesca? Cosa significa raccontare il coprifuoco tedesco della seconda guerra mondiale mostrando il coprifuoco contemporaneo dell’emergenza sanitaria? Oppure raccontare folle di nazisti a Dam Square con immagini di proteste per l’ambiente?

Più che il rischio di creare un senso ambiguo, emerge l’intenzione di creare un dispositivo preciso che metta insieme la mappa e la memoria. Occupied City sembra più un’interfaccia. Il che ci chiederebbe «una postura anti-interpretativa che è incentrata più sul fare e il farsi delle rappresentazioni che sul dire e il dirsi delle stesse» (Lo Presti 2019, p. 119). In effetti, nel finale, l’arrivo al capolinea segna la conclusione di un movimento, ma le immagini di un bar mitzvah segnano l’inizio di un discorso. Sono ancora la mappa e la memoria ad essere asincrone, lo spazio visivo e il discorso orale che, però, ora, nel presente, si fa immagine.

Riferimenti bibliografici
D. E. Cosgrove, Realtà sociali e paesaggio simbolico, Unicopli, Milano 1990.
L. Lo Presti, Cartografie (in)esauste. Rappresentazioni, visualità, estetiche nella teoria critica delle cartografie contemporanee, Franco Angeli, Milano 2019.
B. Stigter, Atlas of an Occupied City: Amsterdam 1940-1945, Uitgeverij Atlas Contact, Amsterdam 2019.

Occupied City. Regia: Steve McQueen; fotografia: Lennert Hillege; montaggio: Xander Nijsten; musiche: Oliver Coates; produzione: Lammas Park, Family Affair Films, Film4 Productions, A24, Regency Enterprises; distribuzione: A24, September Film, Modern Films; origine: Gran Bretagna, Paesi Bassi, Stati Uniti d’America; durata: 262′; anno: 2023.

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