Un cucciolo di tigre viene adagiato sul tavolino di una macchina a raggi X: la luce indica il punto esatto in cui il cucciolo deve essere posizionato per poter procedere all’esame radiologico, ma la giovane tigre lotta contro le mani che provano a tenerlo fermo. Il suo immaturo – ma già potente – ruggito accompagna lo scorrere dei primi minuti del film, mentre sullo schermo ecco comparire l’immagine del suo corpicino. Altre radiografie si susseguono, così come altri animali (cani, un gatto) prenderanno posto sulla luminosa X del macchinario: mirare, puntare, click.
Siamo in una clinica veterinaria di Milano, e quelli appena descritti sono i primissimi minuti di Bestiari, erbari, lapidari, l’ultimo lavoro di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi. Un film che sembra dichiarare le sue intenzioni sin dal titolo: assumere la forma dei compendi medievali – gli erbari, i bestiari, i lapidari appunto – per realizzare un documentario “enciclopedia”, un film-libro. Così come già in Guerra e Pace (2020), infatti, anche Bestiari, erbari, lapidari presenta una struttura in capitoli, ognuno dei quali solo apparentemente autoconclusivo – sensazione acuita dall’utilizzo di un linguaggio visivo differente, di una messa in forma diversa per ognuno dei capitoli – ma che, tuttavia, intrattiene un legame non solo con le altre parti del film, ma si pone in continuità con tutta la ricerca cinematografica di D’Anolfi e Parenti. Sebbene, insomma, siamo ben lontani dal poema visivo di Spira Mirabilis (2016) o dalla forma-flusso che caratterizza lavori come L’infinita fabbrica del Duomo (2015), nel film presentato Fuori Concorso all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia risuonano alcuni degli elementi che hanno caratterizzato fin qui il cinema dei due registi: il ricorso all’archivio inteso non come stoccaggio di documenti ma come dispositivo attraverso cui interrogare il senso delle immagini oggi; la forza elementale della natura e la reciprocità con i gesti dell’uomo; la costante tensione dei due registi di indagare, insomma, non solo l’immagine della materia – terra, acqua, aria, fuoco – ma anche la materialità dell’immagine stessa, la sua temporalità porosa e stratificata.
Ma procediamo con ordine. Usciamo dalla clinica veterinaria per muoverci verso gli archivi che i due registi hanno interrogato nel corso del lungo periodo di lavorazione del film – quattro anni. Ed ecco che la superficie dello schermo diventa il luogo d’iscrizione di una animalità che il cinema ha indagato sin dalle sue prime sperimentazioni – dalle registrazioni realizzate da Eadweard Muybridge al “fucile fotografico” di Etienne-Jules Marey. C’è, insomma, uno stretto legame tra il cinema e gli animali, così come ci indicano i due studiosi – Sophia Gräfe e Francesco Pitassio – chiamati a guidarci nella visione dei materiali d’archivio. E tuttavia, il cinema non si è limitato a osservare il movimento degli animali: il cinema, così come indica il sottotitolo di questo primo capitolo, ha contribuito a creare nuove gabbie. Nell’osservare le immagini di battute di caccia, così come le spedizioni al Polo Sud di Roald Amundsen, immediata è, infatti, l’associazione tra la macchina da presa e il fucile – mirare, puntare, shoot – mentre di fronte allo sguardo degli animali in gabbia utilizzati tanto come “attrazione” negli zoo o al circo, così come nei laboratori come cavie, è difficile non pensare allo sguardo del bufalo descritto da Rosa Luxemburg, a quell’espressione, cioè «di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta» e con il quale Luxemburg sentiva di condividere la stessa impotenza di prigioniero senza colpa, di chi è sottomesso al giogo del potere. E tuttavia, è nel continuo movimento nel tempo – passato, presente – e nello spazio – gli archivi, la clinica veterinaria – è nel montaggio di immagini eterogenee, insomma, che sembra pre-figurarsi un tragico e paradossale destino: alla sempre maggiore produzione di immagini si contrappone una costante diminuzione delle specie animali. Sopravvivenza nelle immagini.
Il secondo capitolo è dedicato alla vita delle piante. Girato nel corso di un intero anno all’interno dell’orto botanico di Padova, il più antico al mondo, “Erbari” si caratterizza immediatamente per un totale cambio di registro: il montaggio non segue più il ritmo concitato, caotico degli animali nelle gabbie, ma sembra intercettare la lentezza del mondo vegetale, la sua temporalità ciclica. In questo senso, i due registi sembrano seguire le riflessioni che, nel corso degli ultimi anni, hanno intrecciato scienze naturali e scienze umane: non solo il botanico Stefano Mancuso – alla cui voce fuori campo è affidato il compito di guidarci in questo mondo “alieno” – ma anche il filosofo Emanuele Coccia – secondo cui le piante non hanno bisogno della mediazione di altri viventi, ma esigono solo il mondo nella sua più radicale elementarità – così come le più recenti riflessioni sulla mediazione arborea del teorico dei media Richard Grusin. C’è tuttavia un punto che sembra rimanere sospeso. Come ri-posizionare lo sguardo davanti al potenziale creativo della natura stessa? È davvero possibile pensare ancora al cinema solo come una macchina “per far vedere”, in una presunta imparzialità della mdp tanto davanti alle forme della violenza animale quanto alla capacità delle piante di essere forma originaria e non soltanto un modello per l’arte? Ciò che permane, insomma, è la sensazione che i due registi non riescano ad allontanarsi da una prospettiva antropocentrica: così, la narrazione rimane inevitabilmente viziata da una postura che vede l’uomo al centro della relazione tra le parti in gioco, dal gesto umano che finisce per negare alla natura una possibile reciprocità all’interno dei processi compositivi.
“Lapidari” chiude questa ri-costruzione enciclopedica con un ulteriore cambio di messa in forma: girato in parte in una fabbrica di cemento, “Lapidari” si avvicina, infatti, al già citato L’infinita fabbrica del Duomo, ma soprattutto allo sguardo “sotterraneo” di Blu (2018). E ancora: se nei primi due capitoli lo spettatore viene guidato da una “voce umana”, “Lapidari” è invece attraversato dal suono delle macchine, dalle esplosioni, dai ritmi del lavoro. Il terzo capitolo del film, insomma, non segue più la traccia indicata dagli studi medievali – in questo caso la rappresentazione delle pietre e delle loro proprietà magiche – ma guarda a quello che potremmo definire un “quinto elemento”: il cemento. Allo stesso tempo, la fabbrica diventa l’organismo pulsante che non smette di produrre ciò che, simbolicamente, è deputato alla costruzione. In questo andamento potenzialmente infinito, tuttavia, le immagini d’archivio impongono una battuta d’arresto, problematizzano una temporalità lineare, proiettata naturalmente verso il futuro. Sarebbe certo facile, infatti, rintracciare, nel montaggio che lega insieme le immagini della fabbrica di cemento a quelle della distruzione, il progredire di un movimento continuo che conduce verso una ricostruzione possibile. Ma affinché questo processo non divenga una storia “naturale” – e naturalizzata – sembrano dirci ancora le immagini, è necessario che proprio questo lavoro incessante di rigenerazione, questo ineluttabile processo di ricostruzione sia preceduto da un atto di elaborazione della catastrofe. Nel continuo sovrapporsi di distruzione e costruzione, in questa formazione di tempo geologico sedimentato, insomma, è necessario introdurre il discontinuo della frattura che D’Anolfi e Parenti sembrano individuare nel progetto dell’artista Gunter Demnig, le Pietre d’Inciampo: i piccoli cubi di cemento ricoperti da una lastra di ottone puntellano il tessuto urbano, lo aprono e, ugualmente, problematizzano il tempo presente facendosi agenti di memoria.
Bestiari, erbari, lapidari è un film complesso, che si sottrae ad ogni possibilità di sintesi. Nel continuo intrecciarsi di linee narrative, tuttavia, ciò che emerge è il tentativo dei due registi ri-pensare ancora una volta l’interazione tra uomo, animale, vegetale, gli elementi, lo spazio, il tempo; di scavare, insomma, nello spazio tra l’immagine e la materia, così come nella loro corrispondenza, attraverso la pratica cinematografica. Emerge, insomma, la capacità del cinema di D’Anolfi e Parenti di farsi sismografo, di intercettare le criticità del presente per farne oggetto della propria riflessione. Il cinema, in fondo, non è mai semplicemente una macchina per far vedere.
Riferimenti bibliografici
R. Luxemburg, Un po’ di compassione, Adelphi, Milano 2007.
Bestiari, Erbari, Lapidari. Regia, sceneggiatura, montaggio: Massimo d’Anolfi, Martina Parenti; fotografia: Massimo D’Anolfi; musiche: Massimo Mariani; produzione: Montmorency Film, Lomotion, Luce Cinecittà, Rai Cinema, con il contributo del Ministero della Cultura, SRF Schweizer Radio Und Fernsehen / SRG SSR, con il sostegno di Eurimages, Regione Lombardia 2021-2027, CNC, Berner Filmförderung, Burgergemeinde Bern, Eye Filmmuseum, Cinémathèque Suisse; distribuzione: Luce Cinecittà; origine: Italia, Svizzera; durata: 206’; anno: 2024.