Gli anni novanta sono stati salvati dall’Inghilterra. Dopo i roaring Eighties i motori economici dell’Occidente andavano giù di giri, tra il ’90 e il ’93 l’AIDS uccise Keith Haring, Freddy Mercury e Nureev, gl’incontri erotici si fecero prudenti come gite domenicali, il proibizionismo divenne dogma. Ci stavano le migliori premesse per una decade inutile e sciapa. Poi, di botto, arrivarono una ninfa bionda – Kate Moss –, i matti della Young British Art e Tony Blair che ce la mise tutta per far capire alla sinistra europea che il riformismo è più vitale del marxismo da college. Cool Britannia. Fu un’onda capace di sollevare il mondo e la cresta di quell’onda erano gli Oasis, i protagonisti del concerto rock più sensazionale di sempre, a Knebworth le notti del 10 e dell’11 agosto del 1996. Avevano pubblicato soltanto due album – Definitely Maybee e (What’s the Story) Morning Glory? – ma erano già leggenda. A cercare di accaparrarsi i biglietti fu il 5% della popolazione, ce la fecero in 250.000. La felicità non appartiene quasi mai al presente ma al ricordo. Le cose importanti, mentre accadono, ci lasciano indifferenti. Il concerto di Knebworth è una delle poche eccezioni. Il film-documentario appena uscito al cinema (Oasis Knebworth 1996, di Jake Scott) mostra un intero Paese in ebollizione, l’attesa spasmodica per prendere l’auto o il treno e andare in un prato dello Hertfordshire dove – come Noel Gallagher non si stanca di ripetere al microfono – “stiamo facendo la storia, qui, adesso”.

Oasis è un nome parodistico per una band di Manchester, la più nebbiosa e inquinata delle città. Ma non tutto il male viene per nuocere: gli edifici avvolti nei fumi delle ciminiere danno l’impressione che lo spazio è il residuo di un’esplosione stellare e le cose sono caught beneath the landslide / In a champagne supernova in the sky, «prese dentro la frana / in una supernova di champagne nel cielo». Il tempo non scorre ma scroscia e fa precipitare le ore, and it’s never go be the same, / ’cause the years are falling by like the rain, «non sarà più la stessa cosa, perché gli anni cadono come la pioggia». Alla fine dell’ultima notte si era messo a piovere per davvero. L’acqua materializzava il torrente di chitarre con cui era iniziata Columbia, la prima canzone del concerto, una burrasca di accordi dissonanti che quasi diventa rumore bianco, una breccia del caos dentro il suono. Tra una pioggia e l’altra si disegnò la mappa stellare degli Oasis, una cosmologia nuova e spezzata.

Ci si sono messi in molti e d’impegno per definire il wall of sound degli Oasis, ma le parole più precise rimangono quelle di Noel: è il suono di un aeroplano che decolla, le turbine di un jet che raggiunge altezze vertiginose. Liam sul palco è un’arma balistica, le ginocchia leggermente piegate, le braccia incrociate dietro la schiena, il mento sollevato per raggiungere il microfono messo all’altezza della fronte, spara pallottole a espansione: stringe le mascelle per trasformare la vocale dell’ultima sillaba in /i:/ apre un poco le labbra per farla diventare /ɑ:/ le richiude ed emette una /n/ fatta col naso e coi denti, un timbro vibrante e metallico.

Una cosmologia rispettabile deve collegare il cielo alla terra, restituire uno spazio integro e collegato per mezzo di colonne e templi, le architetture del mondo, ma gli Oasis sono su un’astronave e da là dentro vedono soltanto il cielo e astri liquidi che deflagrano. Le cose della terra – amorazzi e lavoro – sono prosaiche e il problema è che le prendiamo troppo sul serio: I live my life for the stars that shine / people say, It’s just a waste of time, «vivo la mia vita per le stelle che brillano anche se la gente dice che sto sprecando tempo». Se un ragazzo incontra una ragazza non è per andare a spasso e sbaciucchiarsi ma per fare come Orione e Artemide: Now that you’re mine / We’ll find a way / Of chasing the sun / Let me be the one that shines with you, «ora che sei mia, troveremo il modo di dare la caccia al sole, lascia che io sia l’unico che brilla con te». Il fuoco dello shine (in realtà shiiiyyyne) ha valore, il resto non conta. E se proprio non lo troviamo, possiamo farci un sole artificiale: “Sigarette e alcol per tutti voi!”, urla Liam dal palco, prima di attaccare: You could wait for a lifetime / To spend your days in the sunshine / You might as well do the white line, «potresti aspettare una vita intera per passare i giorni nella luce del sole oppure farti una riga».

È umanamente possibile sostenere la velocità supersonica che attraversa una luce dopo l’altra, dipingere bianco su bianco dimenticandosi dei colori? Some might say that sunshine follows thunder / Go and tell it to the man who cannot shine, «qualcuno potrebbe dire che la luce del sole segue il tuono, vallo a dire all’uomo che non sa brillare». Di solito le sentinelle del cielo sono una consolazione per chi abita il mondo sublunare con i suoi accidenti e imprevisti. Il movimento certo e regolare degli astri fa dimenticare le storture della terra. Ma un cielo fatto soltanto di scie luminose e senza costellazioni, lo possiamo ancora guardare oppure ci farà paura? Che razza di cielo è questo?

Nelle canzoni del concerto ci sono le occasioni mancate (We live in the shadows and we / Had the chance and threw it away), le vite sprecate (Please don’t put your life in the hands / Of a rock and roll band / Who’ll throw it all away), sembra non sia rimasto niente cui aggrapparsi ma non è così: it is my imagination, «è la mia immaginazione», è rimasto il potere della mente, l’unica cosa più veloce della luce, in un istante è ovunque, e argina il torrente del suono e del tempo. La radiazione entropica delle cose e delle esistenze è compensata dalla concentrazione dello spirito: Need a little time to rest your mind.

Shine ha bisogno di mind. L’incendio divampa, ma dentro un occhio, I only wanna see the light / That shines behind your eyes, e l’occhio è l’organo della mente, the eye of your mind. Questo è l’aspetto orientale degli Oasis, la certezza che la frana del mondo non può sbalzare la mente dal trono perché la frana è un’invenzione della mente, la supernova che esplode è un sogno che faccio a letto (So I start a revolution from my bed), ecco perché riusciamo a guardarla senza accecarci. Il canto degli Oasis non è un precipizio che annichila, è un impero astratto e fatto di solitudine. Liam sul palco non era soltanto l’arma balistica e la passeggiata a metà tra il cowboy e Charlie Chaplin, ma anche le fermate catatoniche, quando abbandona il microfono e allarga le braccia con addosso il maglione bianco di due taglie più grande, spaventapasseri angelico, senza muovere un muscolo davanti alla marea del pubblico. E con quello sguardo che hanno gli dèi e i ragazzi inglesi, azzurro e impenetrabile.

A Kneboworth gli Oasis cantarono tutte le loro canzoni tranne una, che il regista ha scelto per i titoli di coda e più delle altre dice qualcosa sul loro segreto: la natura onirica delle stelle, l’estensione cosmica della mente. Non la cantarono forse perché non volevano che quel segreto prendesse corpo nella voce di centinaia di migliaia di fan e preferirono abbandonarlo alla nostra immaginazione. Prova di understatement e ultima testimonianza del genio britannico, fatto di violenza e intimismo, fuoco e tenerezza, delirio e inerzia. Così, anche se non siamo stati al concerto, nella propria testa ognuno di noi può diventare una stella del rock.

In my mind my dreams are real
Now you concerned about the way I feel
Tonight I’m a rock’n’roll star

Oasis Knebworth 1996. Regia: Jake Scott; montaggio: Struan Clay; interpreti: Liam Gallagher, Noel Gallagher, Paul “Bonehead” Arthurs, Alan White, Paul “Guigsy” McGuigan, Beth Banks, Ian Bittle, Matt Underwood; produzione: Black Dog Films, Kosmic Kyte, Sony Music; origine: Regno Unito; durata: 110′; anno: 2021.

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