“La civetta di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo”. La filosofia, incarnato appunto dall’uccello sacro alla dea della sapienza, arriva solo “quando una figura della vita è invecchiata”. La “figura” già al crepuscolo è quella del tanto strombazzato Antropocene. In effetti, se una cosa ci ha insegnato la pandemia Covid-19 è che l’Antropocene, la fase della vita del pianeta Terra segnata dall’ingombrante e puzzolente impronta della specie Homo sapiens, è già finito. È finita perché il virus SARS-CoV-2, senza nemmeno rendersene conto, ha dimostrato platealmente che non controlliamo nulla del mondo naturale, ma soprattutto ha dimostrato in modo definitivo che anche se tutta l’umanità si ferma la vita sul pianeta continua indisturbata, le onde del mare non smettono di rincorrersi, le nuvole a muoversi nel cielo, gli animali a vivere e riprodursi. La filosofia, come sapere dell’Antropocene precocemente tramontato, certifica che la specie umana ha scoperto definitivamente che non è la forma di vita dominante sul pianeta. L’ha sempre saputo, in fondo, ma essere umano non vuol dire altro che la continua rimozione di questo stesso sapere. Il virus ce l’ha ricordato con forza, e nonostante la nostra fretta (comprensibilissima, peraltro) a tornare alla “vita di prima”, questa volta sarà difficile continuare a fingere di non saperlo.
La filosofia, tuttavia, non rappresenta soltanto la sera della vita, la saggezza e ironia della vecchiaia. In effetti solo i vecchi, come nemmeno i bambini, possono permettersi di attraversare impavidi la follia dei pensieri più inattuali e fastidiosi. In questo senso la filosofia, e su questo Hegel sarebbe stato d’accordo, è anche quel pensiero “negativo” in grado di non indietreggiare di fronte all’inimmaginabile. James Lovelock è uno scienziato che sta per compiere 101 anni, e quindi è sufficientemente giovane per pensare un pensiero che i mesi da cui veniamo hanno reso evidente: la fine della natura.
Giusto qualche esempio. Il distanziamento sociale, cioè la certificazione che il peggior nemico degli esseri umani è un altro corpo, la vita di un altro corpo, in particolare umano. Riepiloghiamo, per i distratti: la vita è pericolosa, la “nuova” vita che verrà dovrà essere sempre disinfettata e a distanza. La DAD (didattica a distanza), che segna la fine della scuola come da millenni l’abbiamo conosciuta, come luogo di contato fisico, prima che mentale, fra i corpi. Il vaccino che tutti aspettiamo con ansia, un organismo ibrido e artificiale che inietteremo nei nostri corpi per difenderci da un’altra forma di vita. Lo smart working, che non vuol dire altro che siamo diventati appendici carnali dei computer.
Lo sappiamo tutti che da questi passaggi non si torna indietro, semplicemente perché una volta che sia stato scoperto come il nuovo sia funzionale e piacevole non se ne può fare più a meno (come sanno tutti quelli che dicevano che non sapevano che farsene dello smartphone). La natura è finita nel senso che non c’è più niente di “naturale” nelle nostre esistenze, e sempre più sarà così, perché lo “vuole” lo sviluppo economico e soprattutto lo vogliono gli umani che hanno scoperto in massa di non sopportare gli altri esseri umani. La misantropia è la virtù cardinale della COVID-19.
Nel suo ultimo libro, Novacene. L’età dell’iperintelligenza (Bollati Boringhieri, 2020), James Lovelock, che è lo scienziato della celebre e controversa ipotesi di Gaia, cioè dell’idea antichissima secondo cui la terra nel suo insieme sarebbe un unico organismo vivente, superata la soglia del secolo di vita si accorge però che questa idea va aggiornata, per almeno due ragioni. La prima ha a che fare proprio con Gaia. Se si prende sul serio questa ipotesi, e l’ambientalismo dovrebbe averlo fatto fin dalla sua prima formulazione, ne segue che quello che succede sulla terra, compreso il global warming, non dipende esclusivamente dagli esseri umani, che come diceva molto tempo prima di Lovelock il filosofo Tommaso Campanella, non sono affatto i “padroni” del mondo: «Il mondo è un animal grande e perfetto / statua di Dio, che Dio lauda e simiglia: / noi siam vermi imperfetti e vil famiglia, / ch’intra il suo ventre abbiam vita e ricetto». Noialtri umani siamo “vermi imperfetti” che vivono dentro il gran “ventre” del mondo. Anche l’Antropocene, in sostanza, è una manifestazione di Gaia:
Dobbiamo poi abbandonare l’idea, gravata da interpretazioni politiche e psicologiche, secondo cui l’Antropocene è un grave crimine commesso contro la natura […]. Però la verità è che, nonostante venga associato alle macchine, l’Antropocene è un effetto della presenza della vita sulla Terra, un prodotto dell’evoluzione, un’espressione della natura. L’evoluzione per selezione naturale viene spesso sintetizzata così: «L’organismo che lascia più discendenti è quello che la natura ha selezionato» (Lovelock 2020, p. 71).
Lovelock mette in luce così l’impensato “eccezionalismo” umanistico che riempie di sé tutte le lamentele moralistiche sull’umano come unico responsabile di quello che succede sul pianeta terra. Certo che Homo sapiens ci mette del suo, ma noi siamo figli di Gaia, questo non va mai dimenticato. L’intelligenza e la tecnica umane sono “naturali” per definizione, anche quando sembrano allontanarsi da una idea ingenua e reazionaria di “natura”.
Seconda conseguenza. Sulla terra, osserva Lovelock, è nata una nuova forma di “vita”, quella delle macchine intelligenti, quella dei cyborgs. Anche in questo caso si tratta di prendere sul serio l’ipotesi di Gaia. Se Homo sapiens non è che una manifestazione di Gaia, così l’intelligenza artificiale è “figlia” degli esseri umani. Ma questo vuol dire che è “naturale” quanto lo siamo noi, o il virus SARS-CoV-2 o un terremoto che uccide decine di migliaia di esseri umani. Il punto è, e qui si vede che solo un uomo anziano può avere questa freschezza di pensiero, l’intelligenza artificiale sta sopravanzando l’intelligenza umana, proprio come abbiamo fatto noi umani rispetto all’intelligenza di una carota o di uno scimpanzé. Siamo sempre dentro la natura, sempre dentro il perimetro di Gaia.
Il nostro regno, in quanto unici conoscitori del cosmo, sta rapidamente giungendo al termine. Tuttavia non dovremmo preoccuparci. La rivoluzione appena iniziata potrebbe essere intesa come la continuazione del processo grazie al quale la Terra nutre chi è in grado di comprendere, gli esseri che permetteranno al cosmo di conoscere se stesso. L’aspetto rivoluzionario in questo momento è il fatto che ad essere in grado di comprendere nel futuro non saranno gli umani ma i cyborgs […]. Queste entità sapranno progettare e costruire sé stesse, a partire dai sistemi di intelligenza artificiale già messi a punto da noi. Così in breve tempo diventeranno migliaia di volte e poi decine di milioni di volte più intelligenti di noi (ivi, p. 37).
Questo vuol dire che la “natura è finita”. È finita nel senso romantico e illusorio secondo cui la “salvezza” dell’umanità consisterebbe in un fantomatico “ritorno” alla natura. Secondo Lovelock Homo sapiens è naturale quanto una margherita, e sono altrettanto naturali i “prodotti” dell’attività umana, primo fra tutti i cyborgs e l’Intelligenza Artificiale. A questo punto entra in campo l’ipotesi del Novacene, la nuova era della “superintelligenza” digitale che si sta liberando dell’intelligenza umana, perché non è abbastanza intelligente per seguire la rapidissima evoluzione di quella artificiale:
il Novacene, come l’Antropocene, ha a che fare con la progettazione (engineering). Il passaggio cruciale che ha dato inizio al Novacene è stato, credo, il bisogno di usare i computer per progettare e costruire altri computer, proprio come AlphaZero [un programma che gioca all’antichissimo gioco strategico cinese Go] ha insegnato a sé stesso come giocare a Go. Questo è un processo che deriva da necessità progettuali. […] Era inevitabile […] i costruttori sarebbero stati obbligati a usare i loro computer per riuscire a progettare e realizzare i chip (ivi, p. 83).
Siamo all’ultimo passaggio di questo libro, che sicuramente scontenterà sia gli integralisti dell’ambientalismo sia i teorici del primato umano; Lovelock immagina un futuro neanche troppo lontano in cui Gaia “affiderà” la salvezza del pianeta (cioè di sé stessa) alla superintelligenza delle macchine: «Novacene a quel punto sarà capace di modificare l’ambiente per soddisfare le proprie necessità chimiche e fisiche. Ma, e questo è il cuore della questione, una parte significativa dell’ambiente sarà costituita dalla vita come è ora» (ivi, p. 85).
La terra sopravviverà, ma non sarà più la terra dell’animale umano. A quel punto, come i “vermi” di Campanella, vivremo in un corpo che non controlliamo (in realtà non lo abbiamo mai controllato, lo sappiamo, ma a lungo abbiamo creduto a questo delirio antropocentrico): «È possibile che il Novacene diventi una delle epoche più pacifiche della storia della Terra. Ma di certo gli esseri umani si troveranno per la prima volta a dover condividere il pianeta con altri esseri più intelligenti di loro» (ivi, p. 111). Ecco cos’è il Novacene, la prima vera epoca post-umana. Ci voleva un virus, per farcelo capire.
Riferimenti bibliografici
G.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Rusconi, Milano 1998.
J. Lovelock, Gaia, Bollati Boringhieri, Torino 1979.
James Lovelock, Novacene. L’età dell’iperintelligenza, Bollati Boringhieri, Torino 2020.