Ci si muove tra confini, tra territori, acquitrini e terre secche. Ci si muove tra rovine materiali e rovine immateriali, tra vite uccise e altre vite segnate da traumi. Tra segni di gesti adulti – cacce, vigilanze, gesti di cura, di disperazione – e disegni infantili di memorie e di orrori, racconti di morte, di abiezione. Ci si muove tra bordi di terre e bordi di lingue, tra suoni vivi, trame di corpi ancora vivi. O sopravvissuti.
Il notturno musicale era una forma libera settecentesca, non necessariamente evocativa della notte, un brano per pianoforte solista pensato per una esecuzione notturna. Un film in sala è un’esecuzione nel buio artificiale di un ambiente, nella notte temporanea di uno spazio, in quel luogo dove il film e il cinema si incarnano nell’esperienza di chi guarda. Rosi filma, riprende il suono, firma la regia, firma la forma libera di un viaggio, l’esecuzione di una cartografia orizzontale tra i bordi e i co-bordi del Medioriente recente, nell’orizzonte mobile di una terra di rette e mappe inventate nel Novecento al crollo dell’impero ottomano. Reinventata dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale, destinata ad essere, ancora oggi, la mappa e il luogo reale delle convulsioni più estreme dalle politiche delle grandi potenze, dei potentati locali, di Al Qaeda, Isis, il risiko permanente di oriente e occidente, la proiezione e la ferita sanguinante delle cartografie politiche del secolo trascorso, dei tratti e dei trattati.
Che cosa ci racconta Rosi? Filma i bordi – i borderscape – filmando attese di soldati, check point mobili e immobili, autoblindo e bunker, pattuglie e avamposti, dettagli di volti e silhouette. E la guerra? Dov’è la guerra? In che corpi si incarna? In quali inerti di mattoni spappolati e serramenti divelti si nasconde la traccia organica di ciò che è stato vita? Cosa ci occultano le macerie? Biografie di oggetti o di soggetti? Frammenti di stoviglie e lacerti di pelle che fu umana? Cosa ci occultano i racconti più crudi che ascoltiamo, i fatti-parole filmati?
Confini incerti, mai denotati dal film, segnati dalle lingue dei parlanti, dai suoni delle lingue mediorientali, dalle cadenze diversamente musicali, come nei registri salmodianti del dolore di una madre filmata nella cella dove il figlio fu torturato e ucciso, o nei toni della recita di alcuni pazienti di un ospedale psichiatrico. O nel suono della paura nei messaggi vocali di una ragazza prigioniera dell’Isis, diventati la memoria digitale di una vita sospesa, o forse cessata. Riesumati dal gesto tattile della madre, dal dolore tattile di quell’ascolto al cellulare. Una vita grafica di bytes su di uno schermo.
Confini incerti dove Rosi trascorre filmando, formando una flagrante post-geografia dei luoghi, l’idea di un cinema che documenta e interpreta appunto luoghi, non li intercetta ma li partecipa, abbandonando la volontà di potenza della mappa, l’ingenuità della geo-referenza. Rosselliniano come non mai, Notturno è un Paisà 2020, impossibilitato a tracciare un viaggio verso un luogo o un destino, destinato invece alla messa in scena di una deriva controllata, formalizzata nei totali, nel campo lungo, rintracciata nei corpi agiti dalla storia e agenti nella cronaca, nell’ordinario quotidiano della sopravvivenza. Rosselliniano nella messa in scena didascalica e terribile di memorie infantili sollecitate da un’insegnante, raccontate nello spazio di una classe dove i banchi singoli, come in un torneo di cavalieri, formano diverse figure, posano diversamente, insieme ai corpi dei bimbi, alle parole, formando un circolo di ascolto, una tavola rotonda di sopravvissuti.
Contrappasso dei prigionieri ex ISIS, forse aguzzini, o misere figure di soldati, manovalanza della paura e del sopruso, che, come macchie di Rorschach agli occhi di chi guarda, possono diventare tutto e nulla, possono dirci di orrore e indifferenza, mentre vagano nello spazio recintato, confinato da muri e filo spinato, confinati da soldati armati e filmati nel cortile di un carcere, ridotti infine a un moto browniano di corpi reclusi, prima di figurare una teoria di condannati in tuta, una macchia rosso arancione.
Notturno è rosselliniano, ancora, nella messa in scena di un teatro di pazienti impegnati nelle prove di una recita in un ospedale psichiatrico, in quel teatrino il cui fondo scena è lo schermo dove, in campo lungo, immagini del Medioriente recente ri-mediano per noi storia e cronaca e storia, dove il corpo fatto attore dei pazienti recita se stesso nel rimedio e nella terapia della Storia ri-vissuta, ri-vista. Mentre un libro di immagini in movimento, intravisto da lontano, agisce per noi come rumore complesso di fondo, diversamente dalle immagini simili che vogliono invece farsi mondo in Le livre d’image di Godard, dove il montaggio fa, per così dire aggio, tassa il senso, e semina disagio.
Se un film come Sacro Gra si presentava come un’una unità espansa di luogo, disegnando una geografia di tempi e storie, producendola come coro di azioni e reazioni di personaggi, se in Fuocoammare l’isola di Lampedusa si faceva comunque luogo, confine, talvolta salvezza delle derive di navi e corpi migranti, Notturno non si fa geografia né mappa. Attraversa tempo e spazio nella drammaturgia-epifania di corpi che il montaggio di Jacopo Quadri produce qui come azione e restituisce come situazione.
Situati dal film, i corpi sono storie incarnate, i luoghi sono materia formata, storia naturale e materiale filmata, atto sensibile. La natura, così come l’umano, non si dà qui come personaggio, non assume il ruolo di una drammaturgia che il montaggio assicura e conforma. Drammatizza piuttosto la deriva-viaggio di un regista apolide, la deriva tra lingue e dramma, tra trame e traumi. Deriva controllata nella scelta formale del campo, nella tensione del campo visivo, nella presa in carico dell’inquadratura come luogo di tensione, come spazio-intervallo tra lenti e mondo, tra l’evidenza drammatica e manifesta dell’Arriflex, scelta come camera, e la singolarità discreta dei close up dei bambini, nel finale, o nei primi piani dei pazienti nell’ultima scena della recita ospedaliera. Tra chi filma e ciò che via via è filmabile.
Nel finale di Francesco giullare di Dio i fraticelli roteavano a turno su se stessi: la caduta indicava loro la direzione della fede da annunciare, la diaspora felice della parola cristiana e dell’avvenire, un progetto di tempo. Il finale antidrammatico di Notturno produce invece la vertigine di un mulinello del senso: qualcosa precipita verso una fine, mentre le storie, e la Storia, sembrano tramare l’orizzontalità di una carta, di una geometria delle tracce, da cui le vite faticano plasticamente ad emergere. Notturno, di questo mondo, rimanda alcuni echi, riportandoci ad oriente, dove il sole sorge, riportandoci alla luce diurna e notturna dell’oriente più prossimo, alla luce rosselliniana del diurno, alle luci artificiali dei notturni. Allo splendore del vero come esito e pazienza, alla sfida dell’azione di Roberto Rossellini e della forma di Michelangelo Antonioni.
Notturno. Regia: Gianfranco Rosi; fotografia: Gianfranco Rosi; montaggio: Jacopo Quadri; suono: Gianfranco Rosi; produzione: Stemal Entertainment, 21Uno Film; origine: Italia, Francia, Germania; durata: 100′ .