Come ha commentato Roger Ebert, guardare Nosferatu, il vampiro (1922) di Friedrich Wilhelm Murnau equivale a «vedere un film che sembra davvero credere nei vampiri» (Badley 2016, p. 250). Ebert, proseguendo il commento, sottolinea la particolare sensazione di secolare autenticità attribuita al conte Orlok (Max Schreck) e infusa nella spettralità delle immagini di Murnau. Attorno a Nosferatu, il vampiro si è sviluppata una piccola ma significativa filmografia che ha consolidato lo spessore mitico del film di Murnau all’interno della storia del cinema. La versione di Werner Herzog del 1979, Nosferatu, il principe della notte, ribadisce la fede del cinema nel vampiro, umanizzando il dramma della solitudine e della non-morte di Orlok/Dracula (Klaus Kinski). L’ombra del vampiro (1999), rilettura postmoderna di E. Elias Mehrige, pone la credenza nei vampiri al centro della narrazione, immaginando che, durante la realizzazione del film del 1922, il conte Orlok (Willem Dafoe) fosse un vero vampiro costretto a fingersi l’attore Max Schreck, sotto la regia di un Murnau dalle sfumature “faustiane” (John Malkovich). A partire da tale premessa, viene da chiedersi fine a che punto il Nosferatu di Robert Eggers creda nella figura del vampiro.
Il regista newyorchese riscrive uno dei miti più incisivi del cinema seguendo le proprie coordinate stilistiche e basandosi su una scrittura quasi filologica che, soprattutto nella seconda parte del film, attraversa tanto la sceneggiatura di Henrik Galeen quanto il romanzo Dracula (1897) di Bram Stoker. Tuttavia, questa aderenza tra i due testi è più superficiale che sostanziale: se di Murnau si rilancia un sommario di scene iconiche (come l’ombra della mano nodosa del vampiro sulla veduta dall’alto di Wisborg), del romanzo di Stoker si prova a riprendere l’intreccio tra i personaggi maschili, senza però evitare alcuni buchi narrativi che ne indeboliscono la struttura complessiva. Questa incertezza narrativa viene comunque compensata da una costruzione visiva che propone una precisa dialettica tra ordine e caos, tra ghiaccio e fuoco, capace di consegnare delle inquadrature sferzanti e memorabili.
Alla pulizia e simmetria dello spirito Biedermeier della Germania della prima metà dell’Ottocento si oppongono l’irruenza scomposta di corpi spasmodici – in particolare quello di Ellen (Lily-Rose Depp) – e un gioco di attrazione-repulsione verso la materialità viscerale dei fluidi corporei: sangue, saliva, lacrime, rantoli soffocanti. Analogamente, alle inquadrature intrise di un goticismo calligrafico e possente dai toni gravemente lividi ed elettrici, si contrappongono scene dominate da una luce infuocata, come l’ingresso di Thomas Hutter (Nicholas Hoult) nella locanda degli zingari e, successivamente, nella sala dove viene accolto da Orlok (Bill Skarsgård). In entrambe le scene, le luci intradiegetiche (camini, candele) esplodono in un calore allucinatorio che scioglie momentaneamente la glacialità bluastra che permea il viaggio di Hutter verso la Transilvania e la solennità funerea del castello del conte.
Tuttavia, ampliando lo sguardo, ciò che sembra mancare al film è un approfondimento della rete tematica che caratterizza il mito del vampiro cinematografico. La primordialità del vampirismo – l’irruzione di un arcaico liminale che dissolve i confini tra ragione e superstizione, tra scienza e folklore, tra eros e thanatos – per quanto offra un inventario di temi e motivi idealmente in linea con la poetica espressiva e simbolica di Eggers – si pensi a The Witch (2015) – non emerge con determinazione. Quando il regista tenta di recuperare la vena folklorica del vampirismo – ad esempio, nella scena in cui Hutter assiste all’uccisione di un vampiro – si scivola nel didascalismo, con sottolineature superflue.
Il film sembra così organizzarsi attorno a una collezione di citazioni che spaziano da Murnau a Herzog – in particolare, l’arrivo della peste a Wisborg con centinaia di topi – fino al Dracula (1992) di Francis Ford Coppola, da cui trae ispirazione per l’erotizzazione del legame tra Ellen e Orlok. È proprio nella liaison tra i due che il film tenta di fissare il proprio baricentro. Ellen incarna le posture gotiche del film, indicando nella malinconia che le soffoca l’anima e negli spasmi che le disarticolano il corpo un sovvertimento dell’ordine morale delle cose, capace di contagiare indiscriminatamente la borghesia di Wisborg (rappresentata dagli Harding). D’altra parte, il mostruoso incarnato da Orlok tenta di scalfire l’iconografia del “Nosferatu” di Murnau, abbracciando una bestialità demonica più vicina alla descrizione di Stoker – certi tratti rimandano poi all’effige di Vlad Tepes, il voivoda della Valacchia da cui derivano le fantasie su Dracula.
Questa scelta si dimostra certamente interessante, tale anche da confermare l’impulso recente nel cinema vampirico di virare verso una carnalità mefitica e bestiale – solco recentemente battuto dal film Demeter, il risveglio di Dracula (2023) di André Øvredal (Surace 2024) – ma che nel film appare disperdersi in un gioco prolungato di attese, slittamenti e sfocature, che ne sfibrano definitivamente la potenza iconografica. Si ha pertanto l’impressione che la condizione mostruosa del “nuovo” Nosferatu rimanga incastrata in un’intuizione formale ancora grezza se non proprio incompleta. Il focus tematico del divoramento reciproco tra i due amanti – che confonde il ruolo di vittima e carnefice – non riesce a generare una componente drammatica come accade in Herzog o Coppola, ma si traduce in una meccanica sconessa del desiderio, risolta attraverso un accumulo di urla, rantoli, sangue e altri elementi spettacolari. Il risultato è una bellissima estetizzazione a cui corrisponde, tuttavia, un paradossale svuotamento della tensione emotiva e metaforica.
Alla luce di queste riflessioni, non sembra che Eggers aspiri a proporre una visione personale del mito del vampiro, né a utilizzarlo per avviare una riflessione sulla natura stessa del cinema – come hanno fatto Murnau, Herzog e Mehrige (Lino 2024). Piuttosto, sembra spinto dalla legittimazione di uno stile, di una sfumatura “prestige” dell’horror contemporaneo, risolta con mezzi che oscillano tra la ridondanza e un eccesso corporeo incapace di tradursi in un vero impulso carnale. Il film si muove lungo una galleria di maschere e posture dell’horror – da Murnau a Herzog, Coppola e persino Friedkin, richiamando gli spasmi di Reagan nell’Esorcista (1973) – accumulando senza sedimentare impurità e tensioni di un’attrazione la cui maledizione arcaica appare però ai limiti dell’arbitrario. E l’inquadratura finale, che fissa i corpi intrecciati degli amanti ormai defunti, intrecciando in maniera statuaria il corpo grinzoso e sanguinolento di Orlok con quello virgineo e diafano di Ellen, consegna una suggestione visiva di grande potenza epidermica ma priva di una vera profondità tematica.
Infine, per tornare alla domanda iniziale, il “nuovo” Nosferatu sembra non credere abbastanza nei vampiri. Sembra piuttosto lavorare alla cornice gotica che può fissarne le azioni e l’iconografia, valorizzata da un raffinato lavoro di cesello delle ambientazioni (sia esterne sia interne), di ispessimento di alcune tensioni e nell’uso della sensualità come strumento allegorico per provare ad argomentare l’elusione delle aspettative sociali sul genere sessuale. Il “mostro” appare, infatti, più una proiezione di un desiderio primordiale di Ellen che un’entità con la propria storia culturale destinata a una maledizione eterna da scontare tra i vivi. Come recitava Orlok/Dracula davanti a un esterrefatto Jonathan Harker nella versione di Herzog: “Potete immaginare di resistere per secoli sperimentando ogni giorno le stese cose futili?”. Forse questo “nuovo” Orlok appare più interessato a scontornarsi dai suoi predecessori a rifiutarne le trame di una solitudine “profonda migliaia di notti” (per citare ancora il vampiro di Herzog), riesumando gli ingombranti spettri del passato cinematografico unicamente attraverso la citazione, la variazione e l’intensificazione formale, senza tuttavia tradurne il mito in una visione contemporanea profonda.
Riferimenti bibliografici
L. Badley, Cinema as Snuff: From Pre-Cinema to Shadow of the Vampire, in N. Jackson, S. Kimber, J. Walker, J. Watson, Snuff: Real Death and Screen Media, Bloomsbury, New York-London 2016.
M. Lino, Le maschere di Nosferatu. Murnau, Herzog, Mehrige, in M. Lino, C. Susca, Vampiri nel tempo. Letteratura, cinema, televisione, musica, Dots edizioni, Bari 2024.
B. Surace, Dracula ha ancora mordente? Tre declinazioni del vampiro nel cinema contemporaneo, in M. Lino, C. Susca, Vampiri nel tempo. Letteratura, cinema, televisione, musica, Dots edizioni, Bari 2024.
Nosferatu. Regia: Robert Eggers; sceneggiatura: Robert Eggers; fotografia: Jarin Blaschke; montaggio: Louise Ford; musiche: Robin Carolan; interpreti: Lily-Rose Depp, Nicholas Hoult, Bill Skarsgård, Aaron Taylor-Johnson, Willem Dafoe, Emma Corrin, Ralph Ineson, Simon McBurney, Gregory Gudgeon; produzione Focus Features, Studio 8, Maiden Voyage Pictures, Birch Hill Road Entertainment; distribuzione: Universal Pictures; origine: Stati Uniti; durata: 133’; anno: 2024.