Un massaggiatore passa da una casa all’altra, da un cliente all’altro, attraversando un quartiere di irreali villette a schiera tutte uguali, alla periferia di Varsavia. In quelle case c’è solitudine e dolore, malesseri che contrassegnano un benessere economico ormai diffuso. Donne trascurate dai mariti o che li trascurano, che civettano con il massaggiatore, ex militari attaccabrighe ecc. Altre donne, vedove, che chiamano allarmate Zhenia, il ragazzo ucraino, per far massaggiare cani sofferenti.
Il grottesco che attraversa le situazioni rappresentate (con risonanze con un grande scrittore polacco come Gombrowicz) smaschera la verità dolente di una situazione dove il benessere economico cela un profondo malessere esistenziale. Che in quanto tale è sempre indefinito, e si riversa su oggetti sbagliati.
Un uomo seriamente malato si sente sollevato dai massaggi di questo “straniero” che non parla polacco. Ma è con la moglie di lui che c’è l’intesa maggiore. In questo transitare muto da una casa all’altra, il massaggiatore Zhenia, anche lui segnato da enigmatica e profonda solitudine (frequenta peep-show), diventa non tanto uno specchio dei problemi dei suoi clienti (che non vengono mai portati a coscienza) quanto un attivatore di aspettative ed eventuali possibili vie d’uscita.
Zhenia lavora sui corpi ma ha a che fare con le anime. Attraversa gli ambienti in forma silenziosa, con gesti lenti e ieratici: la sua presenza ha un tratto fantasmatico ed irreale. Il film passa da situazioni più esplicitamente grottesche, come un brindisi in mutande con la padrona dei tre cani davanti ad una finestra (scatenando le gelosie di un’altra cliente che lo vede), a quelle più intensamente drammatiche come quando si presenta dall’uomo malato e gli viene detto che è morto. L’intesa muta con la vedova si tramuterà in un incontro d’amore.
Il tratto irreale e fantasmatico che attraversa il film trova una catalizzazione importante nel finale. La giovane vedova gli chiederà di sostituire il marito in una piccola recita scolastica per dare sollievo al figlio. Si tratta di uno spettacolo di magia. Zhenia, in costume, entrerà in una grande cassa e come in un ben riuscito spettacolo di attrazione magica da lì scomparirà, non lo vedremo più.
Nel finale, tra quelle case isolate, giungeranno alla porta di una cliente del massaggiatore due uomini in divisa, che rappresentano l’ufficio immigrazione. Chiedono di Zhenia, mostrando un disegno, che diviene contrassegno di un personaggio reale e non di una mera apparizione: è su questa ambivalenza che viaggia tutto il film. La donna negherà di conoscerlo, ma poi uscirà per strada, correndo agitata, chiedendo ai due se per caso hanno visto in giro un uomo.
A quel punto, anche se fin dall’inizio si dice che “non nevicherà più” per i cambiamenti climatici, inizierà a nevicare. Ma quella neve non avrà alcun contrassegno epifanico (come nel Joyce di The Dubliners). La rivelazione è un’altra, quella che rimanda uomini e relazioni ad una solitudine senza riscatto, che un personaggio fantasmatico come Zhenya porta alla luce.
L’originalità notevole del film, il succedersi e il tornare seriale delle case e delle diverse situazioni che Zhenya attraversa, nel finale rischia un po’ di perdersi in una “letteralizzazione” simbolica troppo marcata del personaggio e della narrazione.
Non cadrà più la neve. Regia: Małgorzata Szumowska, Michał Englert; fotografia: Michał Englert; montaggio: Jaroslaw Kaminski, Agata Cierniak; scenografia: Jagna Janicka; interpreti: Alec Utgoff, Maja Ostaszewska, Agata Kulesza, Weronika Rosati, Katarzyna Figura, Andrzej Chyra, Łukasz Simlat; produzione: Lava Films (Agnieszka Wasiak, Mariusz Włodarski, Małgorzata Szumowska, Michał Englert), Match Factory Productions (Viola Fügen, Michael Weber), Kino Świat, Mazowia Warsaw Film Fund, Di Factory, Bayerischer Rundfunk; origine: Polonia, Germania; durata: 115′.