Shoah (Lanzmann, 1985).

L’uomo è l’indistruttibile che può essere infinitamente distrutto.
Maurice Blanchot

Il 19 maggio di quest’anno Claude Lanzmann partecipa alla cerimonia di chiusura del 71° Festival di Cannes: alcune foto lo ritraggono sul red carpet, appoggiato ad un bastone da un lato e sorretto dall’ultima moglie Dominique Petithory dall’altro; indossa uno smoking e una sciarpa rossa e ha un volto visibilmente sofferente. Meno di due mesi dopo quest’immagine, Lanzmann è morto; come in ogni foto, si legge la condanna a morte di ogni essere umano. Per tale ragione è meglio essere iconoclasti, per non trasformare ogni immagine nella dilaniante attesa di una sentenza. Sicuramente Lanzmann, iconoclasta per eccellenza e feroce fustigatore della società dello spettacolo, non avrebbe amato questo accostamento.

La verità della sua straordinaria parabola artistica e umana è stata affidata alla stampa nel volume autobiografico dal criptico titolo Le Lièvre de Patagonie (Gallimard 2009) e dalla monumentale opera che segna un vero punto di rottura nella rappresentazione dell’Olocausto, Shoah (1985), un film-monstre in grado di modificare il lessico storico (prima di quest’opera nessuno si riferiva allo sterminio ebraico con questo termine, che richiama un nichilistico e disperato progetto di distruzione totale) e di costruire un dibattito pluriennale nato sulle pagine della storica rivista “Les Temps Modernes” (di cui è stato longevo direttore, dopo Sartre e De Beauvoir, dal 1986 sino ad oggi)  e poi sviluppatosi globalmente su due fronti opposti, gli iconoclasti e gli iconofili.

Lanzmann si avvicina al cinema nel 1972, realizzando Pourquoi Israël, titolo ambiguo, allo stesso tempo un’invocazione e una domanda rivolta principalmente agli oltre centomila ebrei russi che all’inizio degli anni ’70 abbandonano la madre patria per cercare proprio nella Terra Promessa una risposta ai loro interrogativi e al loro represso desiderio di rivalsa sociale e storica;  sionista razionale e mai fanatico (anche se occorre attendere oltre un’ora e mezza di proiezione prima che venga pronunciato il nome “palestinese”), Lanzmann ricerca in Israele una risposta alle lacerazioni prodotte dall’Olocausto, una terra-rifugio, unico sbocco di sopravvivenza per gli ebrei della diaspora; dal momento che la Shoah, come aveva già intuito Hannah Arendt, non è necessariamente un capitolo unico nella storia della (dis)umanità. L’intellettuale francese ritornerà in Israele nel 1994 realizzando Tsahal (il titolo è la contrazione di Tzevat Haganah LeYsra’el, ovvero l’esercito israeliano fondato nel 1948), amara riflessione su come la violenza non faccia altro se non generare altra violenza, opera realizzata poco prima dell’assassinio di Rabin, ma che preconizza la svolta drammatica che Israele prenderà di lì a poco.

Lanzmann non è un cinefilo, non si forma sulle pagine dei “Cahiers du Cinéma” e non partecipa ai dibattiti agguerriti dei Giovani Turchi. L’intellettuale francese arriva al cinema trasportato dalla necessità della testimonianza, dalla razionalizzazione della tragedia e dalla volontà di dare forma, volto, sguardo all’irrappresentabile; soprattutto Lanzmann arriva al cinema per testimoniare contro il cinema stesso. Il cinema è l’unica arte che permette di entrare in contatto con lo sguardo dell’altro, di visualizzarlo. Il cinema attiva un cortocircuito tra osservatore e osservato, rimandando ad uno l’immagine dell’altro: per un cinema basato sulla testimonianza, come quello di Lanzmann, questo cortocircuito è fondamentale. Il valore della testimonianza risalta appieno nel momento in cui ci si trova di fronte al testimone, con il suo volto, il suo sguardo, il suo pensiero e la sua memoria; un testimone con il quale non viene permessa alcuna forma di identificazione, perché negli occhi della persona che mi guarda vedrò sempre un altro e mai l’immagine di me stesso.

Da questo punto di vista, il cinema di Lanzmann va categoricamente contro una delle basi dell’esperienza cinematografica che è appunto quella dell’identificazione. Le immagini del regista francese devono produrre dis-identificazione, senso di alterità, irriducibilità dell’esperienza del testimone; in tal senso Shoah dialoga proficuamente con le teorie di Giorgio Agamben (1998). L’intervista è il fulcro di tutto il suo cinema (da Pourquoi Israësino al suo ultimo Les quatre soeurs, ennesimo recupero dello sterminato materiale non montato di Shoah). Le interviste non diventano mai alibi per la creazione di un nascondiglio, Lanzmann entra sempre in gioco nel suo rapporto con il testimone, lo bracca (affascinanti le cacce ai nazisti in Shoah), lo seduce, lo inganna e lo abbraccia, mostrandosi insieme a lui, scavalcando il campo ed uscendo dalla posizione di sicurezza sempre riservata all’intervistatore, a chi fa le domande.

In Lanzmann non c’è mai un atteggiamento di superiorità, ma si rivela in lui, costantemente, un desiderio di conoscenza e una condivisione di una colpevolezza originaria, che è quella di appartenere alla schiera dei sopravvissuti e quindi solo per questa ragione, di essere ontologicamente colpevoli. La dialettica interno/esterno, che si pone come il punto di approccio di Lanzmann alla tematica della Shoah, rappresenta il fil rouge di tutta l’opera; a vivere l’esteriorità come trauma originario non è soltanto l’autore, testimone indiretto degli avvenimenti, ma anche i sopravvissuti, coloro che si sono salvati, perché rimasti al di là delle camere a gas, al di là della sottile barriera che separava allora la vita dalla morte. A partire dalla dialettica interiorità/esteriorità si sviluppa la scelta più radicale del cinema di Lanzmann, ovvero il rifiuto programmatico di qualsiasi immagine d’archivio, immagini senza immaginazione, che producono nello spettatore soltanto un ottundimento dei sensi e l’erronea percezione di aver acquisito le informazioni necessarie ad esaurire l’enormità dell’evento, che invece è intrinsecamente inesauribile e quindi profondamente irrappresentabile.

L’intellettuale francese lungo il suo lungo percorso di animatore culturale e di detentore della memoria storica della Shoah avrà ripetutamente modo di scagliarsi contro ogni processo di normalizzazione dello sterminio attraverso le forme dell’intrattenimento classico: ogni narrazione della Shoah è intrinsecamente immorale, da Kapò (Pontecorvo, 1960) a Schindler’s List (Spielberg, 1994) sino all’obbrobrio de La vita è bella (Benigni, 1997), banalizzazione irriverente. L’immagine colpisce e la parola afferma: il valore scioccante del documento si frappone tra la testimonianza attiva del sopravvissuto e la testimonianza passiva dello spettatore, venendo a creare una barriera comunicativa, che spezza la catena dell’empatia, del contatto. La testimonianza invece di guadagnare forza, si indebolisce e diventa subalterna all’immagine.

Lanzmann combatte contro l’immagine-passata che tenta di scalzare la parola-presente, anche quando questa immagine non ha la forza perturbante dell’icona concentrazionaria e si riferisce a tematiche più “accessibili”, come nel caso dei lavori dedicati alla realtà israeliana. L’immagine ingoia i ricordi e li sostituisce; dopo aver visto non si può ricordare altro che la visione. Spesso l’iconoclastia di Lanzmann è stata messa polemicamente a confronto con l’iconofilia di Jean-Luc Godard. Godard ha dichiarato più volte di attendere con ansia la scoperta di immagini relative alle camere a gas, immagini in grado di riscattare il cinema dall’impossibilità/incapacità di dare visibilità all’orrore. Dal canto suo Lanzmann, ha risposto, provocatoriamente, ma non troppo, che se nell’arco dei numerosi anni di preparazione di Shoah si fosse imbattuto in un filmato girato da un SS all’interno di una camera a gas, l’avrebbe senza esitazione distrutto. Visione critica, riflessione, rifiuto del voyeurismo: ecco la lezione più importante che Claude Lanzmann ci lascia oggi.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
H. Arendt,
La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964.

M. Henochsberg, Loin d’Auschwitz, Roberto Benigni, bouffon malin, in “Les Temps Modernes”, n. 608, 2000.
C. Lanzmann, Le Lièvre de Patagonie, Gallimard, 2009 (tr.it. id., La lepre della Patagonia, Rizzoli, Milano 2010).

Share