Il concetto di immaginario secondo Abruzzese va inteso non come semplice memoria virtuale delle collettività umane, fatta di tassonomie testuali, ma piuttosto come una macchina poietica, che muta a seconda delle relazioni fra uomini e fra uomini e cose, all’interno di complessi sistemi tecnologici preposti alla comunicazione. Fra questi ultimi, il cinema, grazie alla sua capacità di convogliare in sé le nuove tecniche di creazione e diffusione dell’immagine, riesce a riarticolare agevolmente tropi visivi e narrativi nel «postimmaginario della situazione odierna» (Frezza 2013, p. 146). Tale processo è visibile in vasti settori del cinema popolare, come l’horror e i suoi derivati. Lo slasher, ad esempio, nato all’interno di produzioni low budget, è stato gradualmente sussunto dalle majors, fino a divenirne uno dei prodotti più diffusi, oltre che uno dei primi a essere inglobato nelle strategie distributive di piattaforme come Netflix. Il suo riposizionamento produttivo ha corrisposto a un cambiamento di statuto estetico e culturale. Nel corso del tempo, le continue variazioni di un canone – un gruppo di giovani massacrati da un killer mascherato, destinato a sua volta a esser sconfitto da una final girl – hanno traslato le immagini sgranate in 16mm di piccoli mondi d’exploitation, in un universo simbolico a 35mm, che identifica negli Stati Uniti, soprattutto nelle loro zone rurali, lo spazio dove si consuma uno scontro fra violente pulsioni di morte e spinta sociale civilizzatrice. La riconfigurazione di questa tradizione narrativa all’interno del nuovo assetto relazionale fra uomo e immaginario, dato dall’inserimento nelle piattaforme digitali, risemantizza la funzione ideologica delle macchina poietica del genere e ne determina un cambio di paradigma. A tal proposito è interessante mettere a confronto due opere come Non aprite quella porta di Tobe Hooper, approdato nei cinema americani nel 1974 e il suo requel omonimo, di David Blue Garcia, distribuito su Netflix.

Con Non aprite quella porta, Hooper assimila all’interno di una specifica iconografia dell’angoscia, fatta di campi bruciati dal sole, resti animali e generale disfacimento, le ansie generate nel pubblico coevo dal rapporto con una quotidianità sinistra, segnata dall’inflazione. La storia dei giovani hippie, bloccati nella campagna texana, alla mercé del mostruoso Leatherface e della sua famiglia di ex-macellai cannibali, testimonia il declino irreversibile di una civiltà occidentale preda della crisi energetica (l’assenza di benzina scaraventa le vittime nello spazio simbolico della violenza) e dello sfaldamento delle strutture sociali tradizionali (la famiglia cannibale di soli uomini è metafora del patriarcato oppressivo). Questa apocalisse materialista, priva di escaton, è mostrata attraverso punti di vista che rifiutano la fissità del quadro e seguono prospettive non lineari. Le inquadrature rimandano, infatti, alla mobilità di una visione sporca e incerta, che coglie quel che può di una realtà frammentata, esattamente come accade nei reportage di guerra. È la costruzione di una finzione che rimandi alle modalità di messa in scena del reale da parte del genere documentaristico, quello che Hooper vuole ottenere.

Proprio questa modalità canonizzata nello slasher da Hooper, si è dipanata nella storia dell’horror. Sul finire del ventesimo secolo, essa si è ibridata con la tematizzazione diegetica dei dispositivi di ripresa e ha contribuito alla nascita del mockumentary horror. Filone che inserisce il genere nel quadro epistemologico della svolta postmoderna, in cui la distanza fra oggetto e soggetto della rappresentazione è ormai crollata e, con essa, l’illusione rappresentativa a fondamento dell’ordine della modernità. Nel cinema contemporaneo esiste però una tendenza estetica opposta che rientra in un processo più diffuso di reazione alla rottura fra immaginario e reale, da parte del sistema culturale. Si tratta di una risposta che, in sostanza, spinge per un ritorno a delle strutture narrative forti, in grado di ripristinare un sistema visivo/simbolico rassicurante. Un sistema che fa della nostalgia la categoria interpretativa di un presente di cui si sono perse le coordinate epistemiche. Nell’horror, la prima fase di tale tendenza si è esaurita con la pratica dei remake. La fase successiva sembra essere quella dei requel (rebooted sequel), cioè film che si pongono come una continuazione apocrifa di ciascun capostipite delle saghe slasher più note, così da poterne sfruttare gli elementi simbolici più riconoscibili in un nuovo contesto socioculturale. Non aprite quella porta (2022) si inserisce in questo trend.

Sin dai primi frame, il film di Garcia chiarisce la propria posizione di reperto nostalgico. Si apre infatti con un filmato televisivo che racconta la storia dell’originale. Un testo cardine dell’horror moderno diventa un oggetto (culturale) totemico, da cui attivare un processo nostalgico postmoderno. Non per riprodurre la modalità di messa in scena dell’originale, bensì per recuperare quel linguaggio di genere che il film di Hooper aveva contribuito a scardinare, così da riadattarlo ai canoni estetici delle narrazioni contemporanee. Sono presenti dunque tutti gli elementi già standardizzati in altri requel, da Halloween (Green, 2018) a Scream (Bettinelli-Olpin e Gillet, 2022): immagini DSLR dalla color correction elaborata, montaggio frenetico, colonna sonora tipizzata, scena gore con luci al neon, riferimenti al periodo storico in cui l’originale venne girato, sottotesto politico esibito e rappresentazione didascalica della diffusione di riprese dal cellulare. È la regia, invece, a compiere l’operazione nostalgica, per mezzo di un sistematico recupero di stilemi tradizionali fortemente codificati: dutch angle, dolly zoom e soprattutto costruzione dello spazio attraverso carrellate orizzontali e verticali, in grado di oltrepassare pareti e ostacoli naturali, delineano uno sguardo onnisciente della macchina da presa simile a quello adottato da Whale in Frankenstein (1931).

Questo mix di modernità e tradizione, presente in altri prodotti analoghi distribuiti da Netflix, come Fear Street (2021) di Janiak, rientra in una strategia comunicativa della piattaforma che ha come obiettivo quello di creare dei prodotti culturali, il cui immaginario è sospeso fra passato e futuro, così da delineare un sistema simbolico fluido, dove rimangono solamente i significanti di un genere/simulacro, mentre i significati possono essere rimodulati di volta in volta per il tipo di pubblico cui il singolo testo si rivolge. Risulta allora più chiara la scelta di Garcia di caratterizzare le vittime del film come giovani della generazione Z, impegnati in un utopico tentativo di costruire il safe space definitivo, acquistando un intero paesino nel cuore del Texas. Il regista consapevole che il sistema estetico promosso da Netflix si caratterizza come una «nostalgia che è fondamentalmente inclusiva, piuttosto che esclusiva» (Freeman 2019, p. 92) per quanto riguarda paradigmi sociali, etnici e di genere, ma non economici, si diverte a creare un sistema narrativo che, sfruttando il valore simbolico del film di Hooper, riadatta l’archetipico del killer slasher al postimmaginario contemporaneo, cambiandone il segno politico. Il cannibale con maschera in pelle umana, Leatherface, non è più il frutto estremo della reificazione capitalista dei corpi, all’interno del sistema di valori tradizionali. Diviene invece l’incarnazione della rivalsa di quel sistema, che si trova depredato del proprio luogo d’elezione da un tardocapitalismo gentrificatore e spietato, nascosto sotto la maschera del progressismo sociale. Alla stessa maniera in cui – verrebbe da concludere – l’immaginario slasher si trova privato del proprio luogo d’elezione, la sala cinematografica, per essere traslato entro i confini del postimmaginario politically correct delle strategie economiche della piattaforma digitale.

Riferimenti bibliografici
A. Abruzzese, Il crepuscolo dei barbari, Bevivino, Milano-Roma 2011.
N. Carrol, The Philosophy of Horror or Paradoxes of the Heart, Routledge, New York-London 1990.
H. Freeman, Shifting Nostalgic Boundaries: Archetypes and Queer Representation in Stranger Things, GLOW and One Day at a Time,in Netflix Nostalgia. Streaming the past on demand, a cura di K. Pallister, Lexington Books, London 2019.
G. Frezza, Dissolvenze. Mutazioni del cinema, Tunué, Latina 2013.
S. Hantke, American Horror Film, University Press of Mississipi, Jackson 2012.
T. Magistrale, Abject terrors: surveying the modern and postmodern horror film, Lang, New York 2005.
A.J. Navarro, L’impero del terrore. Il cinema horror statunitense post 11 settembre, Bietti, Milano 2019.
K.R. Phillips, Projected Fears: Horror Films and American Culture, Praeger, Westport (Connecticut) 2005.
G. Taurino, Crossing Eras: Exploring Nostalgic Reconfigurations in Media Franchises, in Netflix Nostalgia. Streaming the past on demand, a cura di K. Pallister, Lexington Books, London 2019.

Non aprite quella porta. Regia: David Blue Garcia; sceneggiatura: Chris Thomas Devlin; fotografia:  Ricardo Diaz; montaggio: Christopher S. Capp; musiche: Colin Stetson; interpreti: Elsie Fisher, Sarah Yarkin, Mark Burnham, Jacob Latimore, Moe Dunford; produzione: Legendary Pictures, Bad Hombre, Exurbia Films; distribuzione: Netflix; origine: USA; durata: 83′; anno: 2022.

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