Well the highway is alive tonight
But nobody's kidding nobody about where it goes
I'm sitting down here in the campfire light
Searching for the ghost of Tom Joad

Bruce Springsteen

“Fern fa parte di una tradizione americana, quella dei pionieri”. È la sorella della protagonista a pronunciare una battuta rivelatrice di Nomadland. Dopo il crollo economico di una città aziendale nel Nevada rurale, dove viveva e lavorava, e dopo la morte del marito, Fern (Frances McDormand) carica i bagagli nel suo van e si mette sulla strada. Un movimento che per Fern non risponde a un’esigenza economica come per altri che incontrerà sul suo cammino (dopotutto una casa lei ce l’ha) ma al tentativo di sanare una ferita, di ritrovare se stessa.

Si mette sulla strada come prima di lei avevano fatto i profughi americani che, abbandonata la loro terra, hanno vagato senza meta in cerca di un impiego qualsiasi, costretti a dormire in auto, nei ripari di fortuna o nei campi di accoglienza costruiti dal servizio civile americano. Sono gli uomini e le donne che le fotografie della Federal Security Administration nel periodo della Grande Depressione ci hanno mostrato, quelle di Walker Evans e Dorothea Lange (alla cui iconografia in un momento del film si fa chiaramente richiamo). Sono i personaggi raccontati da Faulkner, Caldwell e soprattutto quelli del biblico esodo della famiglia Joad, costretta ad abbandonare la propria fattoria nell’Oklahoma a bordo di un autocarro per tentare di insediarsi in California, in Furore di Steinbeck. Nel vagabondare di Fern c’è l’eco di tutto questo.

Ma c’è naturalmente l’eco del cinema, e di quello western in primo luogo: lo si ritrova nei paesaggi desertici dell’Arizona, nelle scene in cui la comunità si ritrova attorno a un fuoco per raccontare le proprie esperienze. Comunità ed individuo, il binomio che il cinema americano ha sempre raccontato. Ma c’è il western anche nella sequenza in cui, nella parte finale, ritroviamo Fern nella cittadina da cui era partita, nella sua casa ormai abbandonata, e la macchina da presa ce la restituisce reincorniciata dall’antro della porta, come nella scena iniziale (e finale) di Sentieri selvaggi, film alla cui struttura nomadica Nomadland non può non richiamarsi.

Nel film di Chloé Zhao c’è in definitiva l’eco del mito, che ha trovato, e continua a trovare, nel cinema americano il suo luogo privilegiato di sopravvivenza. Un cinema capace di impadronirsi, trasfigurandoli, di immagini, storie, strutture narrative depositate nel nostro immaginario e nello stesso tempo il luogo in cui nuovi miti e nuove divinità prendono forma. Immagini cariche di significati che parlano della “nostalgia del paradiso perduto”, che rinviano a spazi e tempi diversi e ormai inaccessibili che milioni di persone continuano a immaginare e ritrovano, sotto altre forme, nel cuore della civiltà industriale.

Una potenza del mito che in Nomandland si incarna principalmente nell’orizzontalità del paesaggio dell’Ovest americano che Fern attraversa. Un paesaggio fatto per lo più di rocce e sole, a cui fa da contraltare quello industriale della cittadina del Nevada abbandonata all’inizio e a cui ritorna per un momento nel finale ma anche, o soprattutto, quello dei capannoni di Amazon dove la protagonista lavora stagionalmente.

Ora, se l’epos appartiene al paesaggio, l’intreccio privilegia invece una drammaturgia del quotidiano, che procede per piccoli accadimenti (come nelle scene delle funzioni fisiologiche di Fern), indebolendo anche le potenzialità melodrammatiche insite nella relazione con il personaggio di Dave, che resta appunto incompiuta. È questa, se vogliamo, quella che potremmo definire la matrice “neorealista” del film, che naturalmente va al di là dell’utilizzo (accanto alla McDormand) di attori non professionisti (di veri nomadi) e che va al di là anche del riferimento a Umberto D. (presente nella storia raccontata da una nomade che, dopo aver deciso di suicidarsi, cambia idea per non abbandonare il suo cane), ma riguarda la sua struttura aperta, romanzesca, realizzata attraverso un decentramento dell’azione e la centralità assegnata allo sguardo di Fern.

Da questo punto di vista il piano-sequenza all’interno del campeggio con la macchina da presa che segue la protagonista mentre attraversa lo spazio con il suo sguardo è esemplare. Ed è in questo scarto rispetto alla produzione americana mainstream basata sull’azione e sulla trasformazione della situazione, la forza e l’originalità del film e del suo personaggio. Qui nessuna azione (che non sia minima) e nessuna trasformazione, ma il racconto di un presente che resta incompiuto, in divenire, in perenne movimento. Proprio come Fern.

Nomadland. Regia: Chloé Zhao; sceneggiatura: Chloé Zhao, dal libro di Jessica Bruder; montaggio: Chloé Zhao; fotografia: Joshua James Richards; musica: Ludovico Einaudi; interpreti: Frances McDormand, David Strathairn, Linda May, Swankie; produzione: Highwayman Films (Chloé Zhao), Hear/Say Productions (Frances McDormand), Cor Cordium Production (Peter Spears), Mollye Asher, Dan Janvey; origine: Usa; durata: 108’.

Share