Il primo ricordo di Basel Adra, giovane video-attivista palestinese, è quello dell’arresto del padre, quando lui aveva cinque anni. Svegliato dalla luce dei soldati dell’esercito di difesa israeliano (IDF), venuti a prendere il genitore a casa durante la notte. A sette anni, invece, la prima protesta di cui si ricorda, seduto sul prato davanti ad una casa che stava venendo demolita. Con l’adolescenza, Basel, attraverso la rete e il suo profilo Instagram, decide di raccontare i soprusi e le violenze subite, per mano dell’esercito israeliano, dalla comunità di Masafer Yatta, un territorio che comprende una ventina di villaggi, situato vicino a Hebron, in Cisgiordania. Nonostante gli accordi di Oslo del 1993 avessero previsto che la zona C, di cui fa parte il territorio in questione, sarebbe dovuta diventare territorio dello stato palestinese entro cinque anni, Masafer Yatta è ancora controllato militarmente dall’IDF. No Other Land (2024) raccoglie le riprese effettuate da Basel a partire dall’estate del 2019, scene di quotidiana occupazione e dominazione coloniale nel territorio e la tenace resistenza messa in atto da parte della popolazione palestinese. Ad accompagnare il giovane troviamo un suo coetaneo, Yuval Abraham, un giornalista israeliano di Be’er Sheva che, oltre ad affiancarlo nelle riprese, scrive articoli sulla situazione in Cisgiordania. Questa dinamica elimina il dualismo che vede esclusivamente due schieramenti opposti, una lettura generalista e spesso superficiale dal momento che in più casi si sono manifestate forme di solidarietà e di attivismo da parte anche di cittadini israeliani contro la politica coloniale del proprio paese, a partire dall’organizzazione dei veterani israeliani Breaking the Silence. Inoltre, il rapporto che si instaura tra i due, nonostante le iniziali ritrosie sia da parte di Basel sia di altri palestinesi nell’accettare Yuval, che spesso viene preso in giro e ironicamente identificato come una spia, permette di avviare un dialogo sulla situazione tra due persone che vivono condizioni diametralmente opposte. Se Yuval in quanto israeliano può spostarsi liberamente, Basel è costretto a rimanere in Cisgiordania, con la preoccupazione di poter essere arrestato da un momento all’altro, in quanto cittadino palestinese.

Il film, nel suo arco cronologico, dal 2019 al 2023, mostra il meccanismo strutturale dell’occupazione che consiste prima di tutto nell’invasione e nell’appropriazione dello spazio privato, perquisizioni nelle case durante la notte, abbattimento di abitazioni, espropria­zione di terreni, blocco dell’accesso alle cisterne dell’acqua, azioni legali e permesse che diventano parte di un vero e proprio piano regolatore. Il documentario pone l’attenzione su quella che Žižek ha definito objective violence, una violenza molto spesso invisibile perché insita all’interno di determina­te dinamiche di potere coloniale, «la violenza inerente a questo normale stato delle cose», differente alla violenza soggettiva che mostra, invece, «una perturbazione dello stato normale e pacifico» (Žižek 2008, p. 2). Oltre a scene di occupazione quotidiana, il film inserisce episodi che inevitabilmente scuotono lo spettatore, come il ferimento di Harun Abu Aram, un giovane che non vuole lasciare che i soldati portino via il generatore di corrente alla famiglia, colpito da un proiettile e reso tetraplegico. La madre, Shamia, dopo che la sua abitazione viene rasa al suolo, è costretta, così come molti altri, ad andare a vivere in alcune grotte naturali presenti sul territorio. Una serie di giornalisti internazionali fa visita a Harun Abu Aram, insistendo nel vederlo e filmarlo a tutti i costi.  Il giovane invece è fortemente contrario, non vuole essere commiserato, così come non vuole essere rappresentato come mero strumento sensazionalistico. La sua storia non è servita a cambiare la situazione ed è stanco di doverla continuamente riproporre. Dopo due anni morirà per le ferite inferte. Contestualizzate all’interno di un racconto cronologico, e non esclusivamente introdotte come immagini shock atte a colpire emotivamente e in maniera patemica lo spettatore, alcune scene particolarmente crude vengono viste appunto non come atti di violenza soggettiva, un’escalation momentanea atta a squarciare il velo di normalità, ma momenti drammaticamente prevedibili inseriti all’interno della normale regolarità delle cose. La lavorazione del film, come viene sottolineato nel finale, si conclude proprio nell’Ottobre del 2023. Da quel momento la situazione degenera anche in Cisgiordania e non solamente nella Striscia di Gaza. Gli attacchi da parte dei coloni, coadiuvati dall’esercito, divengono regolari e quotidiani tanto da obbligare la comunità di Masafer Yatta ad abbandonare le proprie case. Tra le ultime scene che vengono mostrate, assistiamo al ferimento del cugino di Basel, che viene colpito da un colpo di fucile sparato da un colono, il tredici Ottobre 2023. Il film, prendendo in esame un arco temporale definito, mostra il perpetrarsi dei meccanismi che regolano le dinamiche di occupazione. Questo racconto chiaramente si estende in avanti, con le immagini che continuano a venir realizzate e condivise a partire dal 7 Ottobre, da decine di video-attivisti, così come indietro, dal momento che nel documentario vengono inserite scene di manifestazioni, proteste, scontri e violazioni dei diritti umanitari realizzate dal padre di Basel così come da altri uomini e donne nel corso degli anni.

Più che l’impatto del singolo film, candidato all’Oscar come Miglior Documentario e già premiato alla Berlinale 2024, quindi capace di raggiungere potenzialmente un pubblico molto vasto, è importante pensare a come queste immagini vadano a inserirsi all’interno di un archivio in continua espansione, un ecosistema, che documenta nel corso degli anni il mec­canismo strutturale e sistemico dell’occupazione e della vio­lazione dei diritti umanitari da parte dell’esercito israeliano nei confronti della comunità palestinese. Nuove forme di attivismo e di contro-potere, come definisce Jihoon Kim, che parla di expanded documentary activism, proponendo il concetto di hybrid docmedia ecosystem, prendendo in esame la produzione e circolazione dei video amatoriali raffiguranti proteste, scontri, manifestazioni e conflitti vari. Il film si inserisce all’interno della pratica radicale nel cinema documentario, espressione culturale e artistica necessariamente politica nel momento in cui dà voce ad una popolazione che storicamente e sistematicamen­te è stata oppressa, proponendo «un’alternativa visiva, un’arti­colazione visiva, un’incarnazione visibile dell’esistenza pale­stinese negli anni successivi al 1948», come afferma Edward Said parlando del cinema palestinese (Said 2006, p. 3). Ri­dotti a corpi da osservare, controllare e ispezionare, soggetti ad un regime scopico di occupazione, la pratica documenta­ria come forma di attivismo rende visibile l’invisibilità a cui è confinata la popolazione palestinese, quello che Hochberg chiama “visible invisibility” (Hochberg 2015, p. 9).

Riferimenti bibliografici
G. Hochberg, Visual Occupations. Violence and Visibility in a Conflict Zone, Duke University Press, Durham 2015.
J. Kim, Documentary’s Expanded Fields: New Media and the Twenty-First-Century Documentary, Oxford University Press, Oxford 2022.
E. Said, Preface, in H. Dabashi, a cura di, Dreams of a Nation: On Palestinian Cinema, Verso, London 2006.
S. Žižek, Violence: Six sideways reflections, Picador, New York 2008.

No Other Land. Regia: Yuval Abraham, Basel Adra, Rachel Szor e Hamdan Ballal; sceneggiatura: Yuval Abraham, Basel Adra, Rachel Szor e Hamdan Ballal; fotografia: Rachel Szor; interpreti: Basel Adra, Yuval Abraham, Nasser Adra, Shamiya Abu Aram; produzione: Yabayay Media, Antipode Films; distribuzione: Wanted Cinema; origine: Palestina, Norvegia; durata: 95′; anno: 2024.

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