Il cinema sudcoreano del nuovo millennio è spesso innervato da una violenza espressa nei termini della vendetta, tale per cui le relazioni tra i personaggi ruotano attorno a un passato brutale e non risolto che reclama l’esercizio di una giustizia individuale. Questa propensione – una caratteristica di genere al confine con la moda culturale – è dovuta soprattutto al successo globale della cosiddetta “trilogia della vendetta” di Park Chan-wook, aperta nel 2002 da Sympathy for Mr. Vengeance e proseguita poi con il cult Old Boy (2003) e Lady vendetta (2005). Eppure, a ben guardare, se è la vendetta (per lo più cruenta) a riscrivere i codici dei rapporti interpersonali, essa non opera da agente bensì da reagente: letta e interpretata in relazione al corpo sociale, la vendetta è la risposta individuale a un sistema capitalistico che collettivamente aliena e reifica e impone il regno del feticcio, trasformando le relazioni tra gli uomini e le donne in scambi, le loro volontà in valore economico, i loro corpi in merce. Il protagonista sordomuto di Sympathy for Mr. Vengeance necessita di un rene nuovo per la sorella minore, ma sarà proprio lui a perderlo, ingannato da una banda di ladri di organi per la quale egli è solo un contenitore di beni rari, una cassaforte da svaligiare.

Anche No Other Choice è un film che descrive azioni e relazioni dei personaggi in termini di violenza, eppure i venti e più anni che separano i due film segnano un solco narrativo cui corrisponde uno scarto nel sistema economico di riferimento (e nella natura dei rapporti interpersonali ch’esso informa e rende possibili). Se la vendetta è espressione fenotipica di un’alienazione che è propria del capitalismo tradizionale, il sistema neoliberista contemporaneo è ugualmente innervato di violenza, ma ad essa corrisponde un diverso stato dell’uomo: la crisi dell’io, nella sua frammentazione identitaria.

Tratto da un bel romanzo di Donald Westlake, già adattato per il cinema da Costa-Gravas con Cacciatori di teste (2005), No Other Choice è un film a lungo coltivato da Park, annunciato nelle intenzioni nel 2009 e considerato dal suo autore un “lifetime project”. L’affinità, del resto, è evidente, tra il cinema del regista coreano e la spirale di grottesca violenza in cui precipita il protagonista di Westlake, impegnato a eliminare concorrenti di lavoro per garantirsi una nuova assunzione dopo un licenziamento improvviso. Ma se l’adattamento di Costa-Gravas lambisce il territorio del thriller, mantenendo una fredda distanza tra sé e il protagonista assassino (e sottolineando la pervasività del consumo capitalistico attraverso un uso costante di pubblicità incentrate sulla sessualizzazione della merce), la versione di Park gioca apertamente la carta del grottesco, della giostra ironica di imprevisti e situazioni sopra le righe, facendo tesoro della propria attitudine al barocco, al sovraccarico dei segni.

Nelle vittime individuate da You Man-soo – ex dirigente di un’industria cartacea impegnata in massicci licenziamenti in seguito all’acquisizione da parte di una multinazionale americana –, l’uomo trova una serie di doppi, altrettanti ex dirigenti le cui vite sono talmente simili alla sua da confondersi tra loro, in una sequenza di echi e sovrapposizioni volta a sottolineare due cose: che la missione intrapresa da Man-soo lo porta a eliminare, sequenzialmente, parti di sé, e che ciascuna di esse sfugge al controllo perché così è per l’io al tempo della gig economy, della volatilità neoliberista propria della globalizzazione contemporanea. Privato del lavoro e costretto a uno stato di disoccupazione che non sembra aver fine, Man-soo è nello stato di un bicchiere di vetro in frantumi, tenuto malamente assieme da giri di scotch carta: apparentemente la forma è quella, la sagoma tiene, ma ogni cosa scricchiola e scivola di posto, i pezzi si smussano e perdono aderenza, e l’essenza si perde una goccia alla volta, nella violenza della guerra tra poveri.

Siamo ben lontani dal nichilismo amaro che abita la trilogia della vendetta, che sia essenziale come Sympathy for Mr. Vengeance o artefatto come Old Boy: qui, al contrario, dominano discontinuità tonale ed eccesso narrativo, in un caos ironico magistralmente controllato che fa dell’incomunicabilità e della frammentazione dell’identità le sue chiavi di volta. No Other Choice è infatti un fuoco di fila di soluzioni registiche, un susseguirsi di trovate, evidenze, finanche forzature che Park erige al fine di restituire in forma cinematografica lo stato di crisi in cui precipita il suo personaggio – e il sistema familiare che su di lui poggia.

Con le forme della commedia nera, No Other Choice è il ritratto profondamente caustico di uno stato di vulnerabilità perenne, la fotografia di un gioco a perdere in cui in palio non c’è più il posto di lavoro, ma l’umanità. Anche e soprattutto perché di noi, il lavoro, impara rapidamente a fare a meno, come dimostra il lucido finale del film, che aggiorna la versione originale al tempo industriale dell’intelligenza artificiale.

No Other Choice. Regia: Park Chan-wook; soggetto: The Ax di Donald E. Westlake; sceneggiatura: Park Chan-wook, Don McKellar, Lee Kyoung-mi, Lee Ja-hye; fotografia: Kim Woo-hyung; montaggio: Kim Sang-bum; interpreti: Lee Byung-hun, Son Ye-jin, Park Hee-soon, Lee Sung-min, Yeom Hye-ran, Cha Seung-won, Yoo Yeon-seok; produzione: Moho Film, KG Production, CJ Entertainment; distribuzione: Lucky Red; origine: Corea del Sud, Francia; durata: 139′; anno: 2025.

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