Il cinema ha sempre tratto ispirazione, oltre che dalla realtà e da se stesso, anche da altre discipline, basti pensare alla letteratura. Tra le fonti di ispirazione – con un ruolo forse più marginale – rientra indubbiamente la filosofia. Il famosissimo Matrix (1999) o il meno fortunato Il tredicesimo piano (1999) possono essere considerati due tra i numerosi esempi di cinema che trae ispirazione dalla filosofia – oltre che dal romanzo Simulacron 3 (1964). Il tredicesimo piano inizia addirittura con una citazione cartesiana: “I think therefore I am”. Ma se la filosofia rientra tra le fonti di ispirazione del cinema, più problematico appare il lato opposto della questione: può il cinema offrire materiale di riflessione alla filosofia? In altri termini, se il cinema filosofico esiste, è possibile anche una filosofia del cinema?
A queste e ad altre domande risponde il lavoro di Paolo Stellino Nietzsche sullo schermo. Saggi di filosofia del cinema. Il titolo è indicativo del doppio intento sotteso al testo: da un lato, si tratta di un lavoro filosofico il cui oggetto di ricerca è individuabile in alcuni filosofemi della produzione nietzschiana; dall’altro, si tratta di un tentativo di «superare il pregiudizio secondo il quale il cinema sarebbe un mero mezzo di intrattenimento che nulla può apportare a chi si occupa di filosofia» (Stellino 2025, p. 21).
Il primo saggio cerca di rispondere alla domanda se sia possibile fare filosofia attraverso il cinema, ma tale domanda presuppone che si sappia cosa sia esattamente la filosofia e quali siano le sue forme legittime. Una tale conoscenza preliminare si dimostra però impossibile da ottenere: è filosofia tanto un dialogo platonico, quanto un saggio aristotelico, un poema parmenideo, una lettera epicurea, un aforisma nietzschiano e così via. Data l’impossibilità di rispondere a questa domanda, ne consegue l’altrettanta impossibilità di rispondere alla questione se sia possibile fare filosofia attraverso il cinema.
Consapevole di questa doppia impossibilità, Stellino offre al lettore sei casi esemplari in cui un film può dare molto allo studioso nietzschiano: F for Fake. Verità e menzogna (1973) di Orson Welles; Rashōmon (1950) di Akira Kurosawa; Paese del silenzio e dell’oscurità (1971) di Werner Herzog; Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock; Parasite (2019) di Bong Joon-ho; Il cavallo di Torino (2011) di Béla Tarr.
Un filo rosso lega tutti i saggi: l’interpretazione di ogni filosofema nietzschiano coniugato in chiave etica, anche quelli apparentemente più lontani e tradizionalmente limitati ad ambiti teoretici o estetologici. Tuttavia il testo è ricco di suggestioni e godibile non soltanto per lo studioso nietzschiano, né soltanto per l’eticista, al contrario presenta grande interesse anche per il teorico del cinema, utilizzando un linguaggio che, sebbene sia caratterizzato da estrema precisione concettuale, non risulta tuttavia escludente e, anzi, si caratterizza per la pregevole chiarezza e una lodevole assenza di retorica, divenendo così in grado di coinvolgere anche il non addetto ai lavori o il semplice appassionato della settima arte.
Il primo film, F for Fake (1973), è fatto reagire con Su verità e menzogna in senso extramorale (1873) di Nietzsche, riletti, entrambi, alla luce di Cinema 2. L’immagine-tempo (1985) di Deleuze. Il saggio è rappresentativo un po’ dell’intero volume: la filosofia nietzschiana aiuta a comprendere la produzione di Welles in quanto fonte di ispirazione, ma, allo stesso tempo, F for Fake offre una chiave di lettura originale per rileggere e interpretare Nietzsche. Infine, entrambi, una volta fatti reagire tra loro, possono offrire una interpretazione metacinematografica della settima arte e, in essa, rinvenire una metafora della vita: «Se il falsario imita o copia e l’esperto giudica, solo l’artista crea» (ivi, p. 73).
Il cinema, come il teatro, la letteratura o l’arte in genere, è falso per definizione, tuttavia, nella falsità della rappresentazione artistica si nasconde spesso più verità di quanta non se ne possa trovare nella realtà: «Il regista è un artista che plasma il reale falsificandolo, proprio come fa, secondo Nietzsche, ogni essere umano nel momento in cui si rapporta al mondo esterno» (ivi, p. 77). Se cinema, arte e vita, sono creatori di verità attraverso menzogne e illusioni, ciò non significa che la verità non esista, ma si tratta invece di passare da una nozione forte a una debole di verità. In un movimento paradossale, ma ergonomico rispetto al reale, si potrebbe dire che la verità assoluta è falsa, mentre la falsificazione della realtà è più vera della presunta verità eterna. Inoltre è eticamente più onesta l’ammissione di falsificazione rispetto al preteso quanto illusorio possesso della verità vagheggiato da moralisti, preti e sacerdoti della scienza.
Rashōmon, in continuità con F for Fake, prende in considerazione il prospettivismo nietzschiano, interpretato anch’esso in chiave primariamente etica oltre che epistemologica. Il prospettivismo non significa relativismo o assenza di fatti, ma soltanto il riconoscimento di una pluralità di interpretazioni dello stesso fatto: «Il punto di partenza del film è un fatto innegabile: il corpo di un uomo è stato ritrovato nella foresta» (ivi, p. 111). La verità morale, dunque, alla stregua della verità giuridica: una ricostruzione coerente e approssimata, riconosciuta intersoggettivamente, ma mai verità assoluta, né oggettiva o universale. In Rashōmon, infatti, «le varie descrizioni e interpretazioni di come si è arrivati a tale fatto divergono sostanzialmente e sistematicamente (l’uomo è stato ucciso o si è suicidato? L’arma che ha inflitto la ferita mortale è una spada o uno stiletto? La donna ha subito violenza carnale o si è concessa liberamente al bandito?)» (ibidem).
Il terzo film, Paese del silenzio e dell’oscurità, è la messa in atto delle questioni affrontate nei primi due: la prospettiva irrimediabilmente soggettiva delle persone non vedenti e non udenti, non significa la rinuncia al tentativo di comprensione dell’alterità, anzi, al contrario, comprendere l’alterità è possibile soltanto partendo dalla consapevolezza dell’alterità stessa. Paese del silenzio e dell’oscurità, dunque, come il prospettivismo nietzschiano, è interpretabile come «un inno accorato alla scoperta dell’alterità del nostro prossimo» (ivi, p. 150).
Nodo alla gola è forse, insieme a Il cavallo di Torino, il film più nietzschiano dell’intera serie in questione, un film che costituisce «un’occasione per riflettere su alcune delle questioni più spinose sollevate dal pensiero di Nietzsche» (ivi, p. 154), ovvero quanto le teorie nietzschiane, sebbene travisate e manipolate dal nazismo, prestino il fianco a un tal genere di manipolazioni e siano quindi intrinsecamente pericolose, nonostante, se interpretate filologicamente, come avviene in Stellino, siano lontanissime da tali esiti infausti.
Parasite, funge da rappresentazione plastica di uno dei temi maggiormente indagati da Nietzsche: il risentimento. Si potrebbe dire che Parasite metta in scena la teoria nietzschiana del risentimento coniugata tanto alle fonti nietzschiane, come Dostoevskij, quanto agli sviluppi successivi, come la riflessione di Max Scheler. Parasite si presenta dunque, al pari degli altri film, come un capolavoro in grado di offrire una trasposizione in immagini di concetti astratti altrimenti difficilmente rappresentabili.
Il cavallo di Torino è un concentrato di tutte le tematiche prese in esame, più altro ancora: inizia con una falsificazione, ovvero l’episodio del cavallo; prosegue con la messa in scena di una prospettiva altra, quella del cavallo e del cocchiere e di sua figlia; mette di fronte all’inevitabilità della morte; declina il tutto attraverso circolarità evocative dell’eterno ritorno e vuoti evocativi del nichilismo e della morte di dio; evoca la trasvalutazione dei valori nell’unico monologo.
In conclusione, il libro di Stellino non offre una risposta alla domanda se sia legittimo fare filosofia attraverso il cinema, ma offre sei esempi concreti in cui il grande cinema, de facto, è stato in grado di fare filosofia più di quanto non sia riuscita a fare molta filosofia accademica, non solo rappresentando aspetti della filosofia nietzschiana, ma offrendo addirittura chiavi di lettura originali e contribuendo tanto alla sua comprensione e al suo chiarimento, quanto a una penetrazione concettuale e a una visione prospettica della stessa.
Paolo Stellino, Nietzsche sullo schermo, Meltemi Editore, Milano 2025.