Sarà che nei giorni precedenti avevo finito di leggere uno strepitoso romanzo di John Shirley in cui la personificazione di San Francisco inforcava gli occhiali e si metteva a seminare il panico tra i notabili della zona, ma non appena ho cominciato a sfogliare Napoli. Contro il panorama di Giovanna Silva e Lucia Tozzi mi sono detto che forse anche io stavo entrando in contatto con l’overmind, la città intesa come sintesi autonoma e intelligente di tutte le percezioni inconsce che si ribellano alla distruzione della civiltà urbana. Qua, però, a Napoli, la ribellione prendeva una piega molto diversa rispetto al putiferio cyberpunk di cavi, condutture idriche, semafori, ascensori, sistemi digitali e segnali radiotelevisivi che si animavano senza pietà nelle pagine del romanzo: una piega quasi opposta. Nessuna manovra di attacco, diciamo così, più Sun Tzu che il generale von Clausewitz, un parziale ed efficace disallineamento del target rispetto all’offensiva dei suoi avidi aggressori.

Ma siamo a Napoli, appunto, dove l’errore più imperdonabile sarebbe quello di abbandonare il senso di questo disallineamento al luogo comune, associandolo all’arretratezza. Non solo perché nel tempo disallineato diventa molto personale stabilire quali siano i reali progressi e quali i ritardi, ma anche alla luce di quanto sottolinea Lucia Tozzi nel testo, laddove ad armare l’overmind della città contro la presunta linea di avanzamento del tempo non provvedono i suoi tratti più vernacolari, ma quelli di maggiore e più esplicita modernità. Con il vernacolo, anzi, lo sfruttamento in chiave turistica ed estrattiva della città intrattiene un rapporto sempre armonioso, che rinvia sicuramente al magistero postmoderno di Las Vegas ma tradisce anche la medesima economia del desiderio che un giorno si sarebbe dovuta affermare tra i settori delle grandi fiere europee destinati all’esposizione dei corpi, le usanze, gli abiti e gli utensili dei cosiddetti popoli primitivi.

Il vernacolare della pizza e  jamme ‘ncoppa jamme jà, certo, ma pure quello di un South Bronx globalizzato che ora può assumere la forma instagrammabile e sublime (perché osservata pur sempre da una distanza di sicurezza) della serie Gomorra, confermando la profetica intuizione di Siegfried Kracauer secondo il quale la moda dei bassifondi, nella primavera del 1931 e quindi in seguito alla circolazione di altre immagini, quelle di M – Il mostro di Düsseldorf, avrebbe cominciato a prosperare un po’ ovunque.

Al contrario, se oggi la città fisica può ancora opporre qualche resistenza alle dinamiche più contemporanee della predazione è solo grazie all’anacronismo di un piano regolatore che nel 2004 ha rilanciato le prerogative moderne della committenza pubblica, vale a dire assumendo una posizione antinomica rispetto all’eterno presente con il quale Guy Debord avrebbe poi identificato il lavoro delle immagini. Una committenza alla quale si deve in ampia misura il patrimonio di “case, scuole, parchi, stazioni, piazze, centri sportivi, strade, uffici pubblici, monumenti, risalenti in piccola parte al welfare paternalista di inizio secolo, poi all’epoca fascista, e in larghissima parte ai famosi Trenta Gloriosi del Dopoguerra – che anzi a Napoli, per via del terremoto dell’Irpinia, sono diventati Quaranta”. Ed è proprio in rapporto al nodo storico e concettuale nel quale sembrano imbattersi le ricostruzioni di Lucia Tozzi che Jacques Rancière ha proposto una volta di pensionare l’aggettivo “anacronistico” per sostituirlo con quello meno connotato di “anacronico”, che del tempo disallineato o fuori di sesto consentirebbe di cogliere le gravidanze illegittime, non ancora riconosciute ma effettive con le quali il passato continua a insidiare la tendenza alla perpetuazione delle gerarchie vigenti.

Anacronie, allora, intermittenze fantasmatiche ma operative di un’altra modernità che secondo Martin Mittelmeier avrebbero già determinato gli esiti dell’incontro tra Napoli e una cerchia molto selezionata di intelligenze come quella costituita da Theodor Adorno, Walter Benjamin e Asja Lacis, lo stesso Kracauer e Alfred Sohn-Rethel. In particolare, a distanza di un secolo da quella loro vicenda, il referto con il quale sembrano entrare maggiormente in risonanza le pagine di Giovanna Silva e Lucia Tozzi si direbbe quello prodotto nel 1926 da Sohn-Rethel con La filosofia del rotto. Lì, infatti, mentre sta già lavorando al programma per una critica dell’economia politica della conoscenza che lo terrà impegnato fino alla pubblicazione nel 1970 di Lavoro intellettuale e lavoro manuale, Sohn-Rethel fornisce una definizione della “tecnica napoletana” alla quale non risulterà del tutto forzato attribuire il compito di indicare una possibile alternativa rispetto ai processi di astrazione reale che ancora oggi, per esempio, si traducono nella sussunzione della vita in città alle forme storicamente determinate della gentrificazione, delle piattaforme informatiche e della rendita.

Un’alternativa poco incoraggiante, a prima vista, dal momento che nel definire la tecnica napoletana Sohn-Rethel ha in mente una serie di casi abbastanza disperati nella prospettiva di un corpo a corpo con la dinamica storica del capitale: tecnica nel senso di una vecchia motocicletta che ora viene impiegata per montare la panna, oppure del motore di un motoscafo in corsa che avendo raggiunto una temperatura folle può finalmente servire a preparare il caffè. Se non fosse che alle spalle di queste pratiche decisamente arrangiate, Sohn-Rethel sembra intravvedere e promuovere una soluzione di ordine antropologico ai problemi che soltanto venti anni dopo si sarebbero imposti nei termini più rigorosi della dialettica dell’illuminismo. Perché la tecnica è napoletana solo quando interviene nella cogenza di un bisogno, di un guasto o della rottura di qualcosa ai quali può finalmente corrispondere la necessità di rimettere le mani tra i meccanismi di un apparato tecnico e tecnologico che in assenza di avarie rimarrebbe occulto. Così, qualificandosi in opposizione al rovesciamento della ragione strumentale nel mito o in quanto limite corporeo al prodigioso dispiegamento dell’astrazione reale, la tecnica napoletana non allude più all’esistenza di un accesso laterale e sterrato alla modernità, ma spezzando l’incantesimo degli automatismi sembra la sola a potersi dichiarare propriamente moderna.

Mi pare che stia qua, allora, la possibile correlazione tra la Napoli di Alfred Sohn-Rethel e quella resa dalle fotografie di Giovanna Silva, alle quali Lucia Tozzi consegna opportunamente il compito di decostruire le retoriche della coolness e del “fare”: un altro incantesimo. Della città sembrano infatti sopravvivere soltanto dei pezzi, delle strutture in cemento armato (perlopiù) che una volta si devono essere inserite nel panorama tradizionale con la spudorata ambizione di fare il proprio tempo, ma un tempo che nel secondo dopoguerra al quale risultano spesso riconducibili è stato pure quello della modernità intesa come edilizia popolare, lotta per l’emancipazione, movimento operaio e accesso alla casa. E ora se ne stanno lì, questi rottami del moderno, a compromettere l’immagine di una città alla quale la loro conformazione e il piano regolatore che ne preserva l’anacronia impediscono di risolversi in una più lucrosa veduta d’insieme.

Davvero decisiva in questo senso risulta un’indicazione di Lucia Tozzi, allora, secondo la quale Giovanna Silva ci starebbe restituendo una città inquadrata “per sineddoche”: parti, appunto, ma di un tutto ancora inedito che in realtà non ebbe mai luogo e che oggi si potrà determinare soltanto nella contingenza del dissesto e dei bisogni, vale a dire del conflitto. Per invertire la tendenza alla presunta contemporaneità del fare, insomma, che ricorda molto da vicino la storia del tipo che non possedendo alcun talento si era fatto stampare sui biglietti da visita la qualifica di “Contemporaneo”, la città potrà ancora ricorrere all’ideale del rotto, come lo definisce Sohn-Rethel, a un disallineamento costitutivo che a questo punto si potrebbe lasciar interpretare dal “gesto tipico dei napoletani” con il quale si dice che una volta, sul treno per Cambridge, Piero Sraffa avesse illustrato a Ludwig Wittgenstein quali fossero le ragioni di una corporeità irriducibile a ogni forma logica, cioè astratta. Un’overmind d’eccezione, volendo, che ci consente di trarre un’ultima indicazione dal romanzo di John Shirley dal quale siamo partiti e nelle cui pagine conclusive, finalmente, i tumulti cyberpunk delle varie città statunitensi cominciano a tramare insieme.

Giovanna Silva, Lucia Tozzi, Napoli. Contro il panorama, Nottetempo, Milano 2022.

*L’immagine in evidenza è un dettaglio della copertina del libro.

Tags     città, luogo, Napoli
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