La mostra che la Tate Modern di Londra dedica a Nam June Paik (fino al 9 febbraio 2020) è una straordinaria occasione per riflettere sul problema dell’origine dell’immagine contemporanea, a partire da un’esperienza fisica, sensoriale e, al tempo stesso, proiettata verso una dimensione propria dell’immagine, che è il suo essere fantasmatica, immateriale. Immergersi nel percorso che presenta oltre 200 opere realizzate nel corso della lunga attività dell’artista coreano significa tenere insieme questi due aspetti, questi due elementi; soprattutto, significa pensarli come uno dei punti di origine dello statuto contemporaneo dell’immagine. È il concetto stesso di “esposizione” a permettere questa doppia esperienza.

La mostra della Tate è molte cose contemporaneamente: anzitutto essa è una presentazione di “opere”, oggetti materiali, che inglobano o producono immagini, esse stesse sospese tra materialità e immaterialità. Proprio per questo la mostra non segue un percorso cronologico: ogni sala è organizzata tematicamente, raggruppando opere o installazioni secondo un criterio di vicinanza, di connessione tra forme e concetti. Ne è un esempio una delle prime sale, dove è esposto One Candle, versione 2004 di un progetto che risale al 1975, in cui un monitor televisivo di cui rimane solo l’involucro presenta al suo interno una candela accesa.

È l’immagine animata allo stato puro, come ricordava Ejzenštejn, quando, ne La natura non indifferente, parlava del fuoco come prima, ipnotica immagine in movimento. La candela è un oggetto reale, così come la fiamma che si sprigiona. Eppure essa è all’interno del monitor, quasi costretta a fare i conti con il suo essere comunque immagine. L’opera è attiva dunque, perché costantemente produce immagini e al tempo stesso rimane un oggetto materico. Questa duplicazione si riflette in altre opere dell’artista, come Three Eggs (1975-1982), dove un uovo (vero), viene inquadrato da una telecamera di un sistema a circuito chiuso, proiettata su un monitor a lato, mentre un altro monitor, anch’esso solo un involucro come in One Candle, presenta al suo interno un altro uovo. Il circuito chiuso è a sua volta un produttore potenzialmente infinito di immagini, ma al tempo stesso è anche aperto al suo rovescio, la dimensione materiale dell’oggetto rappresentato.

Da questo punto di vista, Nam June Paik rilegge in forma contemporanea gli elementi portanti della filosofia buddista e in particolare il concetto di zen, che più e più volte ricorre nelle sue opere. Se, come ricorda un filosofo in-between come Byung-Chul Han in Filosofia del Buddismo zen, il concetto di sostanza nel buddismo (sûnyatâ, vuoto) rappresenta un movimento di espropriazione e non di appropriazione (come il concetto occidentale di substancia); esso è anzitutto uno spazio in cui convivono innumerevoli immagini potenziali. Zen for Film (1964) rappresenta allora il manifesto teorico di una visione del cinema come potenza di immagine: una pellicola non impressionata, della durata originariamente di venti minuti (la versione presentata alla Tate ne dura 8), proiettata su uno schermo. Non si tratta di un’immagine vuota, al contrario: la pellicola, come ogni supporto materico, si arricchisce di graffi, macchie, il suono del proiettore, dello scorrere del film costituisce una colonna sonora comunque percettibile. Il vuoto dello schermo è solo apparente, o meglio, esso permette ad altre immagini — casuali, mentali, accidentali — di entrare in scena, di mostrarsi al di là di ogni delimitazione possibile dell’immagine.

Un progetto del 1964, lo stesso anno in cui Andy Warhol realizza Empire, la ripresa, della durata di 8 ore, della cima dell’Empire State Building di New York. I due film si richiamano allora, mostrandosi come le due polarità attraverso cui è possibile pensare lo spazio del cinema: da una parte l’immagine astratta come vuoto potenzialmente ricco di immagini e, dall’altra, l’immagine come spazio iperrealistico, esteso temporalmente a tal punto da diventare astratto. Il cinema, nella sua straordinaria storia, si colloca all’interno di questo spazio polare.

Più ci si addentra nelle sale della mostra e più la sfida concettuale ed estetica di Nam June Paik si fa evidente, soprattutto perché è lo sguardo contemporaneo a richiamarla. Il percorso delle opere di Paik infatti sviluppa coerentemente una serie di domande sullo statuto dell’immagine (come abbiamo detto, sospesa tra materiale e immateriale). Il corto circuito tra passato e presente si palesa davanti agli occhi del visitatore armato di smartphone che, di fronte alle macchine, ai Robot fatti di monitor (Robot K-456, 1964, Uncle & Aunt, 1986), agli strumenti musicali realizzati con vecchi televisori (TV Cello, 1971) si ritrova a produrre e riprodurre immagini, fotografie e video, o a ritrarsi con e nell’opera, come in TV Buddha (1976), una installazione dove la statua di un Buddha viene ripresa e proiettata in tempo reale in un monitor, permettendo ai fruitori di vedersi a loro volta proiettati accanto alla statua sullo schermo. In una sorta di cortocircuito temporale, il visitatore contemporaneo ritrae se stesso fotografando il monitor in cui la sua immagine viene proiettata, in un certo senso spingendo all’estremo quel processo di autorappresentazione che l’artista coreano aveva individuato come segno della contemporaneità.

È in questo senso che la mostra produce un surplus di senso, al di là di ogni omaggio museale a chi viene normalmente descritto come “pioniere” della videoarte. Le macchine produttrici o riproduttrici di immagini e suoni sono di fatto ripresentate in un ambiente in cui la tecnologia quotidiana interagisce necessariamente con esse, creando allora una ulteriore riflessione sulla dimensione al tempo stesso materica e intangibile dell’immagine. In questa dinamica, l’immagine può sovrastare il fruitore, letteralmente sovrastarlo con la sua potenza, come in TV Eyeglasses, del 1971, un enorme tv wall composto da schermi che compongono un caleidoscopio sempre cangiante di immagini (ognuna delle quali dotata di una sua autonomia. O come anche in Sistine Chapel del 1993, una enorme stanza letteralmente ricoperta di immagini in movimento, dove le scene sacre sono composte da immagini di musicisti rock che si esibiscono in una nuova, contemporanea liturgia. Ma questo è parte integrante di una riflessione sull’immagine ben più complessa di quanto possiamo qui riportare.

Come ricorda Victor I. Stoichita in The Pygmalion Effect, la concezione tradizionale dell’arte museale prevede un interdetto, una distanza sacrale tra l’osservatore e l’opera: “Non toccare!” è il comandamento alla base di questa concezione. Ma questo interdetto è ormai da tempo improponibile. Di fronte ad un mondo in cui la nostra esperienza si fa sempre più smaterializzata, in cui il circuito delle immagini sostituisce o supera l’esperienza reale del mondo, il percorso di Nam June Paik sembra allora non parlare di un periodo storico passato, ma di una necessità urgente, quella di recuperare l’immagine a partire dal suo processo materico, dal suo essere appunto sospesa, ma non per questo evanescente. Recuperare significa dunque continuare ad inserirla in un gesto artistico, in un dare forma all’oggetto, alla materia in cui vivono le immagini. È in questo senso che il motto di Nam June Paik, posto all’inizio della mostra, acquista un nuovo senso: «Voglio modellare la tela dello schermo TV, esattamente come Leonardo, libero come Picasso, in modo colorato come Renoir, profondamente come Mondrian, violentemente come Pollock, e liricamente come Jasper Johns».

Riferimenti bibliografici
Byung-Chul Han, Filosofia del Buddismo zen, Nottetempo, Roma 2018.
S.M. Ejzeštejn, La natura non indifferente, Marsilio, Venezia 2003.
V.I. Stoichita, The Pygmalion Effect, from Ovid to Hitchcock, University of Chicago, Chicago 2008.

Share