Per Motherless Brooklyn, suo secondo film da regista dopo il romantico Tentazioni d’amore (2000), l’attore Edward Norton prende spunto dall’ omonimo romanzo noir di Jonathan Lethem, scritto nel 1999, però trasportandolo indietro di oltre quarant’anni. Un noir, dunque, ma non è detto che un noir non possa essere romantico, in qualche modo. Qual è il senso dell’operazione? Girare un noir ambientato a New York negli anni ’50 del secolo scorso non significa solo ricostruire il clima, il colore, la scenografia di un’epoca e di una città, ma vuol dire anche rinchiudere attori e personaggi in una specie di bolla atemporale, al cui interno l’immaginario del cinema anni ’50 non tanto viene evocato, quanto muta, si trasforma, s’incupisce, diventa ancora più oscuro, malgrado il colore, acquisendo e facendo proprie non poche suggestioni indotte dal cinema successivo e dai drammi della Storia (urbana, sociale), ormai squadernati davanti a noi in modo che non è più possibile far finta di ignorarli.
Per esempio, si è tirato in ballo Chinatown. Assieme a qualche affinità, le differenze sono molte, ma il punto cui prestare maggiore attenzione sta nel fatto che il film di Polanski è del ’74 ed evoca, con un salto temporale vertiginoso, la Los Angeles del 1937. Il Noah (John Huston) di Chinatown, padrone e signore delle acque, diventa per Norton il “capomastro” Moses Randolph (Alec Baldwin), ritagliato sulla figura reale dell’urbanista e speculatore Robert Moses, in gran parte artefice della New York attuale, la cui opera è stata spesso paragonata a quella del barone Haussmann a Parigi. A sparire non sono più le acque, ma, in conseguenza delle scelte di piano regolatore, interi quartieri, abitanti (poveri) compresi. Di loro, del loro destino, nessuno si dà pensiero. Spariscono, confinati negli slums, ed è come non fossero mai esistiti – l’importante è che non turbino, con la loro stessa presenza, la tranquillità dei ricchi, dei bianchi agiati.
Ponti e autostrade tagliano la città, isolano coloro che non hanno l’auto e usano i mezzi pubblici; li consegnano a un apartheid non meno rigoroso perché tacito. Il ponte di Brooklyn nasce da un piano urbanistico? Certo, ma anche da un piano di segregazione sociale, che colpisce soprattutto neri e poveri – e rispecchia la megalomania del potere, che presume di non poter essere mai ostacolato ed è pronto a non lasciarsi ostacolare, usando ogni mezzo, anche criminale. Qui si seguono, oltre la traccia narrativa del romanzo, anche le indicazioni contenute nel libro anti-Moses scritto al tempo (1974) dal giornalista Robert Caro (The Power Broker. Robert Moses and the New York Fall).
Dunque Norton, come già Polanski, si trovava di fronte al problema di rendere credibile un salto temporale (nel passato) a partire da una collocazione spaziale profondamente cambiata rispetto al passato stesso. Bisogna cercare edifici sopravvissuti, far circolare macchine d’epoca, far indossare agli attori certi vestiti (e certi cappelli), evitare tutti i segnali di modernità, certo, ma per riuscirci non basta fare attenzione all’aspetto scenografico e ricorrere al reparto costumi, né basta girare soprattutto di notte o in interni (bar, night, jazz-club, caseggiati popolari, uffici pubblici, sotterranea, piscine coperte): bisogna osare bagnarsi nella luce oscura di strade periferiche, filmare, per così dire, le ombre diurne, i labirinti urbani dove, oltre la vita, si può mettere a rischio l’identità stessa, o almeno, non essere più sicuri neppure dei propri legami familiari. Per (s)fortuna Lionel, protagonista del romanzo e del film, non ne ha, anche se ha trovato in Frank Minna una specie di padre putativo.
Ma chi è il vero padre di Laura, l’attivista afro-americana per i diritti civili che combatte Moses Randolph e la sua cricca? Tutto il senso del film, compreso il primo omicidio (la morte di Frank Minna/Bruce Willis) non deriva dallo scottante segreto scoperto da Minna stesso (che forse Laura è in realtà figlia di Moses)? Potrebbero testimoniarlo alcuni documenti chiusi in una cassetta di sicurezza d’una stazione ferroviaria, per aprire la quale serve uno scontrino nascosto nel cappello.
Chi potrebbe ricordarsi d’un simile particolare, proferito a stento da un uomo in punto di morte, se non la memoria prodigiosa di Lionel, ragazzino motherless e fatherless che Minna aveva salvato dall’inferno d’un orfanotrofio, diventato ormai un abile investigatore, benché affetto da sindrome di Tourette? La sindrome gli fa risuonare mille voci nel cervello, come tasti d’un pianoforte suonato da altri, lo costringe a sopportare numerosi tic verbali e gestuali (spasmi della testa, colpi di tosse, risate e parolacce involontarie, impulso a toccare), e al tempo stesso lo ha dotato d’un occhio acuto e d’una memoria preziosa per il lavoro investigativo, con la capacità di collegare anche a distanza di tempo i ricordi più disparati. No, Lionel non scambierà mai sua moglie (se l’avesse) per un cappello.
Lo stesso Norton interpreta Lionel, con efficacia e senza manierismi di troppo. Certo è un investigatore atipico. Piange la morte di Minna, seduto sconsolato sui gradini d’un monumento. Incauto, si espone spesso ai pestaggi. Ha che fare con un mondo difficile, e prima ancora col proprio corpo, che in certi momenti sembra non più appartenergli. Qui sta l’invenzione del romanzo, per il resto di medio valore, su cui Norton lavora con rispetto anche eccessivo.
È un film che avrebbe guadagnato da una maggiore concisione, magari dalla sfrondatura di alcuni personaggi — ma tant’è: l’importante è che nulla sia gratuito. La figura di Paul per esempio, fratello idealista di Moses, anch’essa modellata sul personaggio reale, nella interpretazione di Willem Dafoe si porta dietro tutta la memoria dei personaggi cinematografici complessi e tormentati che questo attore si è trovato a interpretare nel tempo (a partire, direi, da Scorsese).
Nella scena (per me) più bella del film, Lionel e Laura ballano nella semi-oscurità d’un jazz-club afro-americano ad Harlem, quasi immobili, al ritmo d’una musica che si fa quasi inudibile, una musica che li trasporta per un attimo nel sogno. Le mani di lui toccano le braccia di lei, con mai provata circospezione. Ogni tanto, i tic si fanno sentire, ma non disturbano troppo. Forse solo la musica salva, solo il jazz, solo il pianissimo d’un pianoforte e d’una tromba, le voci che sussurrano i versi di Daily Battles; il che non esclude che la tromba possa funzionare da corpo contundente, e mettere fuori combattimento i malintenzionati. Il noir non esclude il romanticismo.
Riferimenti bibliografici
J. Lethem, Brooklyn senza madre, il Saggiatore, Milano 2007.