Accolto tra i fischi del festival di Venezia e i fiaschi del botteghino, il film Mother! di Darren Aronofsky sembra aver scontentato quasi tutti. La Paramount Pictures, che ha prodotto la pellicola con un budget di 30 milioni di dollari, ha tentato invano di pubblicizzare il lungometraggio descrivendolo come un sofisticato thriller psicologico, causando così lo scontento di chi in sala si aspettava un normale film di genere. Del resto, anche le recensioni della stampa sono state quasi sempre negative: si è detto di Mother! che è un’opera tanto ambiziosa quanto poco riuscita, piena di metafore scontate e di simbolismi logori. Quale sia precisamente l’ambizione o l’intento mancato del film i recensori però non lo dicono, come se la rutilanza delle invenzioni sceniche finisse per annacquare il suo presunto orizzonte di senso. In poche parole, il film ci stupisce ma tale stupore non rimanda che a sé stesso e alla sua inutilità.
Se proviamo a guardare ciò che Mother! ci mostra, però, ci accorgiamo presto che il senso di disorientamento che il film suggerisce non nasce da altro che dal lavoro intermediale compiuto da Aronofsky attraverso la parola e l’immagine.
A un primo livello, il film racconta la storia della giovane moglie (Jennifer Lawrence) di un affermato poeta (Javier Bardem) che è in un momento di profonda crisi creativa. La sua prima scena la mostra mentre si sveglia in un grande letto vuoto, cercando suo marito. La donna sta letteralmente ricostruendo la casa del poeta che è bruciata poco tempo prima in un violento incendio e la sua dedizione totale al marito si manifesta nella pazienza con cui lei si prende cura di tutte le faccende domestiche mentre lui cerca disperatamente di ritrovare l’ispirazione. Nel grande studio in cui si ritira per pensare – e in cui nessuno è autorizzato a entrare –, l’uomo conserva gelosamente una pietra preziosa che è l’unica cosa sopravvissuta al rogo della casa.
Una sera, l’arrivo inaspettato di un estraneo (Ed Harris) sconvolge gli equilibri della coppia. Mentre il poeta reagisce positivamente alla presenza dell’uomo, raggiunto poi dalla moglie e dai due figli, la donna vive la loro presenza in casa come una tremenda invadenza. Presto scopre che quelle persone non sono arrivate lì per caso ma sono dei fan di suo marito – Ed Harris ha con sé un’immagine del poeta che è praticamente un santino. Il film gioca tutto il suo registro horror sul classico piano del perturbante freudiano, per cui la casa (Heim) si fa spaesante (Unheimliche) in un crescendo che conduce le presenze estranee più disparate – in realtà tutti adoratori del poeta – a occupare il nido d’amore dei due. Mentre Javier Bardem non fa altro che glorificare la presenza delle nuove persone in casa, sua moglie assiste impotente e senza alcun appiglio al sovrapporsi di situazioni sempre più assurde.
Nel delirante parossismo finale, in cui tutta l’umanità irrompe a forza nella casa, la Madre! dà alla luce un figlio che viene letteralmente cannibalizzato dalla folla di adoratori di suo marito; quindi fa saltare in aria sé stessa e tutta l’abitazione. Chi resta incolume ovviamente è il poeta. A Jennifer Lawrence che ormai carbonizzata gli dice di avergli offerto tutto il suo amore, lui risponde che c’è ancora qualcosa che può dargli. Ecco che la donna si incenerisce fino a trasformarsi in una gemma preziosa, la stessa che il poeta teneva nel suo studio, sopravvissuta al precedente rogo. L’ultima scena ci mostra la casa di nuovo in piedi e un’altra donna che si sveglia esattamente alla stregua di Jennifer Lawrence all’inizio del film. Il cerchio del tempo torna a rigenerarsi dopo che il poeta ha bruciato tutto ciò che aveva. La creazione ricomincia.
A un secondo livello, il film si muove in senso piuttosto esplicito e manierista sul piano del simbolismo religioso, mettendo in scena alcuni passaggi cruciali dell’Antico Testamento (il precedente lavoro di Aronofsky era stato Noah del 2014). Il nome del personaggio di Javier Bardem è “HIM”, e “Lui”, il creatore, all’inizio è frustrato proprio da un blocco creativo. A risolvere la sua situazione è l’arrivo di un uomo: il primo, cioè Adamo. La notte, in una scena smaccatamente allegorica, Jennifer Lawrence sorprende il marito intento ad aiutare l’uomo che sta vomitando in bagno. La donna nota una ferita sulla costola di Ed Harris che Javier Bardem prontamente copre con la mano: il giorno dopo, puntualmente, nella casa compare la compagna di Adamo, cioè Eva (Michelle Pfeiffer).
Poche ore dopo, nonostante il divieto, i due entrano nello studio di Javier Bardem e inavvertitamente fanno cadere la gemma preziosa del poeta, peccato originale che spiana la strada per tutti gli altri, tant’è vero che nel giro di un paio di scene Jennifer Lawrence li sorprende a fornicare senza alcun pudore. Il poeta chiude il suo studio con delle assi di legno, escludendo per sempre gli ospiti dall’Eden. A raggiungere Adamo ed Eva sono poi i due figli, che a seguito di un furibondo litigio per motivi di eredità finiscono per colpirsi. Uno dei due muore e l’altro fugge, proprio come Caino e Abele. Poco dopo, durante la festa funebre per il figlio di Ed Harris e Michelle Pfeiffer, che puntualmente si svolge in casa del poeta, due ospiti fanno saltare il lavello non ancora fissato della cucina, scatenando una specie di nubifragio che costringe il poeta a mandare via gli ospiti. Il diluvio universale ha la funzione di “purificare” il mondo dei due, facendo sparire gli ospiti e riportando finalmente Dio e Madre! all’intimità. La coppia concepisce infatti un figlio.
Stacco. Nove mesi dopo il poeta, grazie al contatto con gli uomini, ha ritrovato l’ispirazione e ha scritto una stupenda raccolta che scatena nuovamente l’arrivo di adoratori. Essi sono ispirati dal Verbo del poeta e riempiono la casa di icone sacre e santini che lo rappresentano. Quindi si impossessano di tutto ciò che gli appartiene, in ottemperanza al messaggio di condivisione proposto dallo stesso Bardem. Man mano che nuove persone invadono la casa, il luogo si distorce e si altera, in una sorta di risposta all’irruzione dell’umanità al suo interno.
In questo frangente le immagini si ripiegano l’una nell’altra in una sequenza che passa in rassegna diversi registri del genere cinematografico: dal film d’azione a quello di guerra, passando per feste dionisiache e spaccati di film sociale con migranti e reietti. In una parola, ciò che vediamo è l’irruzione della Storia nella natura: l’uomo invade il mondo, lo travolge. La protagonista a questo punto trova rifugio nell’Eden (lo studio del poeta) dove finalmente dà alla luce il figlio. Il poeta però lo prende e lo ostende davanti alla folla, che in una scena splatter – l’eucarestia – lo divora. Jennifer Lawrence, esasperata, scende nello scantinato (l’Inferno) e qui attraverso le caldaie fa saltare tutto in aria. Nel finale, la donna ormai carbonizzata chiede all’inscalfibile poeta «Chi sei?» e quello risponde come Dio in Esodo 3:14 «Io sono colui che sono».
Un film sul divino dunque, ma anche sul processo assoluto della creazione, che fagocita tutto nel suo potere totalizzante, fino a consumarsi. La protagonista è infatti la madre, la Madonna che dà alla luce il Figlio di Dio, ma anche la Natura, la physis che sgorga dal gesto inaugurale della creazione e che rigenera la casa – il mondo – in tutti i suoi spazi terreni. In Mother! lo spazio eccede sé stesso, il mondo (la casa) accoglie al suo interno l’umanità e la sua storia, fino a un’apocalisse – da qui anche le interpretazioni ecologiste del film – che azzera il tempo: nel finale la donna chiede al poeta «Dove mi stai portando?» e quello risponde «Al principio».
A un terzo livello, che è il più profondo ma anche il più formale, Mother! mette in scena un peculiare rapporto tra la parola e l’immagine. La parola (il Verbo, nella metafora cristiana) è l’oggetto della ricerca di tutto il percorso del protagonista, la posta in gioco della sua creazione, ciò che scatena l’adorazione degli uomini che hanno bisogno di ascoltarla, capirla, avervi a che fare. Dio costruisce il mondo, la natura e perfino gli esseri umani ma cerca con disperata ostinazione di produrre soprattutto la parola, facendo precipitare tutto il processo della creazione verso il suo nucleo fondamentale, il linguaggio; non lo scambio comunicativo che la donna cerca disperatamente e che il poeta le rifiuta, quindi non il piano dei significati, ma il sacro della parola, il suo luogo assoluto, il darsi stesso della significazione: la scrittura (il nome di Dio, YHWH, si può scrivere ma non pronunciare) – cioè, nella trama, la raccolta di poesie finalmente pubblicate, ma soprattutto il far segno della voce verso sé stessa nella fatidica risposta alla domanda sull’identità: «Io sono colui che sono».
Ecco il luogo ultimo del film, dopo che tutti gli altri sono stati incendiati: l’innominabile nome di Dio, esperienza non più di linguaggio, ma del linguaggio stesso, del suo darsi. L’evento del logos, insomma, che è anche l’evento dell’essere. Il Verbo che alla fine – ma là dove la fine è anche il principio – era presso Dio. Risalendo il piano ontico degli enti creati e dei significati, il film ci conduce all’origine, al piano ontologico dell’essere, cioè al nome di Dio, la meraviglia che il linguaggio stesso sia. Il raccoglimento finale che scaccia il perturbante riconducendo lo spettatore “a casa”, nel chiarore del logos in cui il film all’improvviso trova la sua pace, arriva al termine di un percorso di lotta furiosa tra le immagini.
Immagini che bruciano, come nella primissima e nella penultima sequenza, dello sforzo sfinente per lo sguardo (la macchina a mano che insegue il volto atterrito della protagonista mentre la Storia le si scaglia letteralmente addosso) di risalire tutti i significati alla ricerca del fatto assoluto e ineffabile di significare. Immagini attraversate dal tempo, mosse, che vibrano della tensione dialettica della Storia, da Adamo ai giorni nostri, spingendosi sempre più in avanti, fino all’Apocalisse, fino al gesto che sutura la ferita di un racconto che nel farsi è sempre meno di ciò che aspira ad essere: la sua stessa totalità – e cioè la totalità della poiesis, della Storia, del linguaggio.
Mother! ha l’ambizione di rappresentare l’aver luogo del linguaggio (cinematografico, linguistico, poetico) come condizione di possibilità di ogni “aver luogo”, di ogni scaturigine della natura (le diverse “madri” che si rigenerano di volta in volta nel letto del poeta) e quindi della cultura. Physis e logos, madre e poeta, film e senso del film, trovano la propria rappresentazione rispettivamente nell’immagine e nella parola. Il nesso tra i due poli è messo in campo da una grammatica filmica febbrile, sempre sul bilico che separa la sorpresa dal disorientamento, la luce dal buio, la vita dalla morte e il rumore dal silenzio. Lo sforzo di significare della pellicola si compie nell’evento della significazione, che Aronofsky si assume il rischio di mettere in scena, senza tanto pudore.
E a quella destinazione, l’origine dell’essere e del linguaggio («Io sono colui che sono»), il film arriva esaurendo la potenza referenziale di tutte le sue inquadrature e scoprendosi metadiscorsivo. Quelle che vediamo sullo schermo sono immagini che trovano il proprio compimento soltanto quando, attesa la propria intrinseca incapacità di dire sé stesse, si arrendono al fuoco e bruciano, completando così la loro missione: ricomprendersi nel tutto del logos. Farsi cinema, insomma.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino 2008.
G. Didi Huberman, L’immagine brucia in Teorie dell’immagine, a cura di A. Pinotti, A. Somaini, Raffaello Cortina, Milano 2009.