C’è un’immagine in Monster che sintetizza tutte le istanze del film, per come elude la capacità dello spettatore di determinare – o quanto meno, di decodificare – il senso di ciò che sta guardando, senza ricorrere a sovrastrutture o mediazioni narrative: un gruppo di insegnanti si inchina davanti a Saori (Sakura Andō) in segno di scusa per non aver ostacolato le vessazioni subite dal figlio.
All’apparenza potrebbe essere l’ennesimo adempimento del codice dell’on, ovvero di quell’obbligo morale che i giapponesi devono necessariamente contrarre quando entrano in relazione con l’altro, in modo da annullare la propria individualità nei confronti di chi parla e rispettare la posizione di privilegio di cui gode l’interlocutore rispetto alla propria figura. Ma il contesto che ci si dipana davanti agli occhi sembra sfuggire ad una riflessione così normativa, tanto da mettere in dubbio la chiarezza espositiva delle stesse inquadrature.
Cosa si nasconde, sembra chiederci il film, dietro quel gesto collettivo? Davvero i quattro maestri, chi per interesse personale, chi per vergogna, avevano cercato di discolpare un loro collega da un terribile caso di bullismo infantile? Oppure c’è dell’altro dietro quella patina di apparenze e formalismi, fatta di inchini coatti, depistaggi e comportamenti evasivi? Quel che è sicuro, nel film come nella scena in questione, è che non esiste una verità unica e dogmatica. Perché le immagini, vuole suggerirci qui Kore’eda, sembrano ormai ontologicamente incapaci di significare un rapporto indessicale tra ciò che avviene in campo e la conoscenza che lo spettatore ha dell’evento presentato.
In questo senso le tre prospettive adottate dal racconto su un ipotetico caso di bullismo – e codificate qui in un’impalcatura narrativa in stile Rashōmon (1950) dal celebre sceneggiatore di drammi televisivi, Yūji Sakamoto – riflettono già di per sé l’impossibilità di assegnare un significato univoco ad un episodio che sfugge a qualsiasi cornice di rappresentazione, proprio perché racconta un fenomeno dalla natura così elusiva come l’identità/sessualità infantile, all’interno di una società che reprime tutte le “deviazioni” dal paradigma.
Se ci fermassimo al solo atto iniziale, il quadro di riferimento sarebbe di fatto il seguente: il maestro Hori (Eita Nagayama) è responsabile della vittimizzazione del giovane Minato (Soya Kurokawa) e per questo merita l’allontanamento dalla scuola e la stigmatizzazione sociale che ne deriva. Le immagini, da questo punto di vista, non mentono: la madre dolente è moralmente intoccabile, l’insegnante che si prostra davanti a lei in segno di scuse è da condannare, così come lo sono i dirigenti che hanno cercato fino all’ultimo di proteggerlo.
Eppure nel momento in cui si cambia prospettiva, con l’azione che passa attraverso lo sguardo dell’uomo, ecco che Monster muta l’angolazione da cui genera la diegesi, e insieme la sua stessa capacità di presentare, come vero, quel che entra nel reame della spazialità filmica. Le inquadrature, da quel punto a seguire, risultano svincolate dalle logiche semantiche della rappresentazione cinematografica, proprio perché hanno deliberatamente perso la possibilità di materializzare per immagini le verità del mondo.
A questo punto sorge spontaneo un interrogativo: cosa ci sta suggerendo Monster con questo suo mosaico continuo di rappresentazioni/disillusioni? L’intreccio narrativo rimane fino all’ultimo inintelligibile, oppure lascia aperto uno spiraglio per l’interpretazione? La risposta, forse, la possiamo individuare nelle immagini stesse, in quello che comunicano attraverso la dissimulazione, ma anche nel rapporto pubblico-schermo su cui sublimano le loro alterazioni prospettiche.
Perché ogni sguardo o punto di vista che il film ci presenta, appare un tentativo del cineasta di interrogare la capacità stessa dello spettatore di assegnare un significato agli eventi attraverso la loro rappresentazione estetica. In questo senso il potere di significazione non risiede empiricamente nell’inquadratura, ma nella coscienza critica di chi guarda: nella possibilità cioè di discernere tra mille verità, e ritenerne una più affidabile dell’altra a seconda di come vengono decodificate le tracce semantiche lungo tutti i segmenti del film.
Un andamento che assume sempre più forza e vigore, mano a mano che la narrazione sfida, illude e soggioga deliberatamente le sicurezze diegetiche (quelle dei personaggi) oltre a quelle extradiegetiche (relative al pubblico). Almeno fino a che le carte non vengono rimescolate per l’ennesima volta nel terzo, formidabile atto, in cui non è più l’osservazione esterna dei fatti a far emergere il contesto, ma la sua analisi interna. Filtrata ora da un punto di vista innocente, puro, e perciò privo di sovrastrutture ulteriori: quello dei due bambini.
È nel momento in cui il focus narrativo converge sul piccolo Minato, e sulla relazione (d’amicizia?) che lo lega al compagno di classe Yori (Hinata Hiiragi) che le istanze del racconto si stratificano ulteriormente. E non solo perché il film trova qui un passo diverso, risultando per la prima volta libero di operare al di fuori delle restrittive maglie dell’intreccio. Ma soprattutto per i modi in cui Kore’eda trascende la materia narrata, eliminando tutte le difformità prospettiche, in modo da arrestare la narrazione sul non-detto, su ciò che non ha più bisogno di essere verbalizzato per rimanere sul piano dell’espressione.
E non è un caso che Monster arrivi a questa conclusione nell’istante stesso in cui abbraccia il protagonismo infantile. D’altronde è dai tempi di Nessuno lo sa (2004) e I Wish (2011) che il regista giapponese si è imposto come il più grande narratore dell’umanismo prepuberale, proprio per la lucidità con cui ha saputo sfidare tutte quelle presunzioni d’innocenza, che dall’alto, vengono indiscriminatamente calate sui bambini, senza che queste riflessioni comportino un ragionamento di fondo sul perché la società, soprattutto quella giapponese, si è a lungo rifiutata di indagare il mondo infantile attraverso un approccio propriamente antropologico.
Una prospettiva, questa, che viene anch’essa scardinata da immagini che non sanno più contenere o gestire la loro valenza semantica. E che assumono completezza solamente nell’istante in cui incontrano l’occhio critico del pubblico. Da qui si dirama anche la domanda finale – che poi è quella iniziale – del film: chi è il mostro? Si tratta dell’insegnante apparentemente abusivo, del sistema scolastico che protegge solo sé stesso e non i suoi giovani studenti, o del bambino non-normativo?
Forse il “Kaibutsu” del titolo originale sfugge a qualsiasi logica monodiscorsiva, oppure potrebbe avere un chiaro referente nella “mostruosità” con cui la società nipponica stigmatizza tutti coloro che non si conformano ai (falsi) dettami dell’omogeneità cultural-identitaria. Da questa prospettiva, l’impossibilità dell’immagine di significare qualcosa di certo ed inequivocabile diventa l’unico strumento possibile per dare corpo alla moltiplicazione prospettica del film.
Questa è l’unica soluzione che permette idealmente al racconto, e ai suoi giovani protagonisti, di guardare in faccia la realtà senza incorrere nella possibilità di essere confinati all’interno di paradigmi precostituiti – e per questo immutabili. A volte, sembra suggerire Kore’eda, basta spostare di poco il punto di vista per rendere inconoscibile ciò che guardiamo. Generando così un fenomeno che l’inquadratura non può più contenere. Ma che paradossalmente può essere ospitato solo dal cinema. E dalle immagini con cui ci racconta, ancora una volta, le realtà più insondabili del nostro, mostruoso mondo.
Monster. Regia: Hirokazu Kore’eda; sceneggiatura: Yūji Sakamoto; fotografia: Ryūto Kondō; montaggio: Hirokazu Kore’eda; interpreti: Mitsuki Takahata, Eita Nagayama, Soya Kurokawa, Yota Hiiragi, Sakura Andō; produzione: Toho, Gaga Films, Fuji Television, AOI Pro, Bun-Buku; distribuzione: BIM Distribuzione, Lucky Red; origine: Giappone; durata: 126′; anno: 2023.