Andrea Pallaoro ha dichiarato fin da subito l’intento di realizzare una trilogia ideale come una sorta di psicologia cinematografica dei caratteri femminili. La volontà di definire le protagoniste fin dal titolo, che in maniera asciutta ed essenziale richiama semplicemente il loro nome, ci porta all’interno di un percorso narrativo innanzitutto concentrato sulla visione del singolo personaggio. L’utilizzo in narrativa del protagonista assoluto permette in realtà di pensare in termini più chiari a delle caratteristiche che dalla sua singolarità sono trasportate verso la sua universalità; ci permette di concentrarci sulle caratteristiche che lo definiscono in quanto personaggio e che lo riflettono in quanto persona, ma permette anche di identificarci in esso e di trovare, dentro un carattere singolare e unico, dei connotati comuni e quindi plurali, condivisi.

La premessa narratologica appare importante nel caso dei film di Pallaoro e probabilmente in modo particolare nel caso di Monica. Intanto perché sta costituendo una poetica cinematografica autoriale la cui qualità estetica e morale è riconosciuta. E poi perché Monica, nel proporre una nuova traccia – la seconda – di questo trittico ideale, presenta un personaggio femminile che in realtà, nello stesso momento in cui si definisce come appartenente alla sua categoria sessuale, ha la consapevolezza di averla affrontata almeno in passato in termini problematici. Monica sfugge dunque al genere sessuale che la connoterebbe perché nasce maschio e, nel corso del suo personale cammino esistenziale, decide di mostrarsi a sé e agli altri come femmina.

Si sente allora il bisogno di rendere evidente una caratteristica della poetica di Pallaoro: la sospensione narrativa; il nascondimento di ciò che viene enunciato nel momento stesso in cui lo si enuncia; il tentativo di definire la realtà attraverso non uno schema esteriore bensì un rapporto con l’interiorità, ossia con tutto ciò che viene non solo visto ma anche percepito. Del resto, per parafrasare Merleau-Ponty, Monica intrattiene un rapporto con ciò che può essere non solo percepito ma anche, nel contempo, ricordato: in una sorta, però, di introiezione problematica in forza del processo mnesico. Scrive infatti il filosofo francese:

Ricordare non è ricondurre sotto lo sguardo della coscienza un quadro del passato a sé stante, ma tuffarsi nell’orizzonte del passato e svilupparne a poco a poco le prospettive racchiuse finché le esperienze che esso riassume siano come vissute di nuovo al loro posto temporale. Percepire non è ricordare (Merleau-Ponty 2005, p. 58).

Monica è un personaggio che viene posto continuamente di fronte all’esigenza di ricordare: trovatasi ad accudire la madre malata che non la riconosce più, vaga nella sua casa d’infanzia come un fantasma vaga nella memoria del suo passato; ricorda, ma soprattutto percepisce la distanza tra il suo passato e il suo presente e, dunque, l’urgenza di ridefinire quello stesso presente e quella stessa memoria. Potremmo assumere allora come riferimento anche la riflessione di Barthes attorno all’immagine, alla persona rappresentata e percepita attraverso la forma del visibile e dell’invisibile, quando afferma che «la vita privata altro non è che quella zona di spazio, di tempo, in cui io non sono un’immagine, un oggetto. Ciò che devo difendere è il mio diritto politico di essere un soggetto» (Barthes 2003, p. 16).

La scelta di modificare il proprio genere sessuale per quanto riguarda l’esteriorità visibile del corpo diviene quindi una delle tappe verso quel riconoscimento di sé e degli altri in cui la visione esteriore possa coniugarsi realmente alla visione interiore, in cui ciò che è visibile possa declinarsi effettivamente in quanto espressione di quell’invisibile che tutti, prima o poi, dobbiamo cercare di riconoscere. Monica è un film sulla necessità di ri-conoscere: ripercorrere, modificare, ridefinire. Ricominciare tutto, rivedere le cose e contemplarle all’interno di un percorso fluido in cui tutto scorre e in cui la stessa definizione della vita sia in realtà sempre indefinita, aperta alla possibilità dell’esserci e al divenire degli affetti.

Però la transessualità di Monica non è mai enunciata: così come non era mai enunciata la pederastia del marito di Hannah (Hannah, Pallaoro 2017), che veniva solo suggerita e dunque verosimilmente compresa perché estrapolata dal contesto, anche questa definizione di Monica è elusa, visibile ma non detta e dunque, in un certo senso, invisibile o comunque non espressa. E si tratta dell’elemento che probabilmente causò la separazione tra lei e la madre e che quindi ora fungerebbe da principale stimolo all’avvio della narrazione. Appare dunque piuttosto evidente la volontà di risolvere la propria poetica cinematografica attraverso la dimostrazione estetica di quello stesso invisibile, di ciò che continua a sfuggire e a rimanere sospeso, aperto, risolto in sempre nuove domande più che in risposte che potrebbero ostruire il percorso di formazione tracciato dalla linea narrativa. Anche per l’estetica del volto siamo vicini ad un modello del passato come quello di Antonioni, soprattutto se pensiamo a L’avventura (Antonioni, 1961).

Pallaoro costruisce il suo film sulla messa in scena costante del volto e del corpo della sua protagonista: essi, però, pur costituendo spesso parte integrante dell’inquadratura anche e soprattutto in primo piano, appaiono continuamente in movimento, come alla ricerca del loro giusto spazio: Monica è al centro dell’inquadratura, poi ne cerca i margini e si adagia al limite fisico del quadro, infine ne sfugge risolvendosi in una frammentazione corporea tra campo e fuori campo; spesso è addirittura un riflesso, come quando appare nel buio della stanza di casa riflessa dal vetro delle fotografie che ritraggono il suo passato; oppure si mostra pienamente in campo, ma dietro una superficie vitrea, che separa senza separare del tutto perché mantiene comunque la possibilità della visione. Appare spesso, infine, come un volto che guarda: il primissimo piano del suo viso mostra la direzione del suo sguardo, sempre rivolto ad un altrove, ad un punto fisso nel vuoto o invisibile nel fuori campo.

Da qui, partono innumerevoli ricerche: la ricerca dello spazio, o del tempo, come nel piano-sequenza che narra il percorso di Monica in auto dall’allontanamento dalla casa della madre fino alla decisione di tornare verso quella stessa casa e quella stessa madre di cui d’ora in poi si occuperà con maggior volontà: la sequenza è interrotta, rimane sospesa in una narrazione apparentemente compatta grazie al senso di continuità del piano ma in realtà composta da fratture, data l’interruzione imprevista di quello stesso piano. Sono proprio quelle fratture, però, che permettono lo stimolo a un ideale proseguimento dell’immagine, dentro una nostra accresciuta consapevolezza di ciò che potrebbe accadere e di ciò che, ne siamo ormai sicuri, accadrà.

Guardiamo dunque Monica, infine, attraverso la soggettiva della madre: la madre guarda la figlia ma nel contempo guarda se stessa allo specchio, uno specchietto da toilette per il volto: l’inquadratura, quasi di derivazione bergmaniana, mostra la madre che mostra se stessa allo specchio mentre guarda la figlia davanti a lei: per un momento, il volto della madre appartiene al volto della figlia, i due volti si fondono in un’unica immagine, riflesso interiore di una realtà percepita ma soprattutto nuovamente ricordata. La madre riconosce Monica, la tocca, le accarezza il volto, la guarda negli occhi: la protagonista è mostrata attraverso il riconoscimento dell’Altro.

Come scrive Lévinas a proposito della sua estetica del volto, dunque:

Nella misura in cui il movimento della mano che tocca attraversa il nulla dello spazio, il tatto assomiglia alla vista […]. Il legame tra vista e tatto, tra rappresentazione e lavoro, resta essenziale. La vista si muta in presa. La vista si apre su una prospettiva, su un orizzonte e descrive una distanza superabile, invita la mano al movimento e al contatto e li garantisce […]. Vedere significa dunque, sempre, vedere all’orizzonte (Lévinas 2004, pp. 193-195).

L’inquadratura finale è un lento movimento a stringere sul volto di Monica mentre guarda il nipote che si esibisce in un’interpretazione canora. Il volto occupa l’intero spazio dell’immagine, e la luce e l’ombra vi appaiono dolci: esso è rivolto verso un altrove che riconosce e che lo riempie di emozione. A noi è permesso guardare e riconoscere chi finalmente ha guardato e riconosciuto sé stessa.

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 2003.
E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 2004.
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2005.

Monica. Regia: Andrea Pallaoro; sceneggiatura: Andrea Pallaoro, Orlando Tirado; interpreti: Trace Lysette, Patricia Clarkson, Emily Browning, Joshua Close, Adriana Barraza; produzione: Varient Pictures, Solo Five Productions, Melograno Films, Propaganda Italia, Fenix Entertainment, Alacran Pictures, Rai Cinema; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Stati Uniti d’America, Italia; anno: 2022; durata: 110′.

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