Sono ormai ampiamente percorse le ragioni che portano la teoresi filosofica a ricorrere, quasi di necessità, al confronto con una serie di campi altri di applicazione grazie ai quali la filosofia stessa può trarre un vantaggio nell’esemplificazione concreta di concetti e idee che resterebbero altrimenti ancorati a un piano distaccato dalla realtà materiale e concreta. Alla luce di questa necessità o bisogno, spesso, il pensiero filosofico si è rivolto a un linguaggio differente dal suo (si pensi al ricorso al linguaggio letterario o, più genericamente, artistico) allo scopo altresì di favorire il passaggio da uno scenario teorico unico alla costruzione di un immaginario di stampo plurale. Una simile attitudine è riscontrabile nel volume Modernità di Dante (Bollati Boringhieri, 2024), che Giacomo Marramao ha dedicato al “sommo poeta”, elaborando al suo interno alcune fondamentali idee teoriche utili per riflettere sull’articolazione tra linguaggio e politica, pur mantenendo aperto lo sfondo di problematizzazione all’interno del quale vengono affrontati alcuni temi dirimenti per la contemporaneità quali il ruolo e la funzione dell’essere umano nel mondo a partire dalla sua dimensione di azione quale singolo individuo.
L’operazione compiuta in Modernità di Dante – che, per molti aspetti, è analoga anche a quanto da Marramao proposto in Pasolini inattuale. Corpo, potere, tempo (2022) – assume uno specifico valore teoretico poiché, ponendo al centro l’esperienza di un particolare essere umano (in questo caso Dante ma, come si è appena ricordato, lo stesso vale anche per Pasolini), intende mettere a tema i modi in cui, sia con la scrittura sia con il corpo, si ha l’opportunità di esercitare una forma di resistenza nei confronti del mondo. Questa forma di resistenza riguarda tanto un piano formale quanto un livello concreto di applicazione, dacché non si può sperare di intervenire sul presente senza unire le parole alle azioni rendendo, in certo senso, tali parole effettive grazie a una serie di gesti concreti che, per mutuare un termine del lessico pasoliniano, sono gesti corsari. Gesti corsari capaci di convogliare l’attenzione su questioni che, pur essendo originate da una riflessione sul presente, aprono squarci su un tempo a venire che risulta, pertanto, inatteso nella sua esposizione. Da qui deriva il carattere di modernità di autori come Dante e come Pasolini, tra gli altri.
L’accostamento tra Dante e Pasolini è stato in certo modo abilitato dallo stesso Pasolini che instaura un dialogo a distanza con Dante componendo la sua divina mimesis (progetto avviato nel 1963, mai completato e pubblicato, per volere dello stesso Pasolini, nel 1975) in cui l’Inferno del neocapitalismo si impone con le sue storture di fronte al presentarsi di due domande: «Chi può segnare il momento in cui la ragione comincia a dormire o, meglio, a desiderare la propria fine? Chi può determinare le circostanze in cui essa comincia a uscire, o a tornare là dove non era ragione, abbandonando la strada che per tanti anni aveva creduto giusta, per passione, per ingenuità, per conformismo?» (Pasolini 2011, p. 17). Le questioni chiariscono in modo limpido le due istanze che si trovano alla base di ogni tentativo di comprensione del reale a partire dalla mediazione di un pensiero altro, riproducendo un meccanismo analogo a quello in atto nella congiunzione della filosofia alla letteratura, che rimanda inevitabilmente all’oscillazione della loro disgiunzione. Dal presente attuale al presente possibile, dalla ragione alla disragione per poi tornare, ancora una volta, al presente ma con uno sguardo differente. Ecco allora che Pasolini sembra tradurre quel sentimento corsaro che lo accomuna allo spirito dantesco: l’essere naufrago per aggrapparsi di nuovo e ancora al mondo ma con l’innocenza sporcata dalla consapevolezza di essere parte di quel mondo e non di un altro.
Come un naufrago, che esce dal mare, e si aggrappa a una terra sconosciuta, mi voltavo indietro, verso tutto quel buio, devastato, informe: la fatalità del proprio essere, dei propri caratteri natali, la paura di cambiare, il timore del mondo: a cui a nessuno fu mai possibile scampare, portando a salvamento la propria interezza (Pasolini 2011, p. 17).
Nella rotta tracciata da un corpo approdato dal mare a una terra sconosciuta si può collocare anche l’operazione che Marramao compie su Dante, articolando il suo percorso in due momenti: il primo rivolto a un’esplorazione del concetto di “Politico” a partire da un attraversamento di opere come il De monarchia, il Convivio e la Commedia; il secondo consistente in un lavoro di accostamento critico tra le visioni di Dante e Machiavelli intorno alla questione politica. La posizione centrale che la politica (o il Politico) – come questione, problema e tema – occupa all’interno del testo è sintomatica del progetto di osservare non solo la modernità di un autore, bensì il valore che tale pensiero assume per la nostra stessa contemporaneità. Anche per questa ragione alla base del primo studio sta la proposta di osservare Dante come antesignano dell’autonomia del Politico a partire dall’ipotesi che il De Monarchia sia una prolessi della Commedia, tracciando l’una e l’altra un virtuoso rapporto di complementarità che per Marramao lascia «emergere la dimensione poetica come un viaggio attraverso i molteplici “corpi” dell’esperienza: corpo linguistico, corpo umano, corpo politico, corpo celeste» (ivi, pos. 20).
I quattro corpi – che rimandano rispettivamente al linguaggio, all’esistenza, alla dimensione del mondo e alla dimensione ultraterrena – sono anche indicatori dei diversi piani in cui tale autonomia trova la sua realizzazione. In particolare, stando alla prospettiva delineata dal testo, la modernità di Dante sta nella «netta distinzione tra la finalità teologica della salvezza e l’obiettivo politico della felicità» delle quali la prima si aggancia «ai percorsi di vita individuali, l’altra alla dimensione collettiva e alla vita della comunità» (ivi, pos. 18). L’autonomia politica dell’individuo getta, di conseguenza, nuova luce anche sulle nozioni di umano e umanità fino a condurre di fronte alla scelta radicale di pensare che «i principi etici e filosofici degli antichi» fossero «sufficienti alla realizzazione del fine politico della pace e della felicità terrena» (ivi, pos. 25), scelta rivendicata, per Marramao, anche dalla decisione dantesca di collocare Catone l’Uticense a custodia del Purgatorio.
In quest’ottica vi è una distinzione tra politica e fede che si mantiene inalterata con l’eccezione unica dell’idea di plenitudo temporum in cui le due si congiungono per la realizzazione dell’eschaton, il momento dell’avvento di Cristo che rimanda a «una pienezza dei tempi che non ha nulla a che fare con una promessa messianica, bensì piuttosto con un evento già accaduto nella storia, ma di tale portata da determinare un punto di non ritorno nel viaggio dell’umanità» (ivi, pos. 37). Ciò significa che l’autonomia del Politico non esclude una visione teologica del mondo, bensì individua due diversi piani di realizzazione in base alle dimensioni di riferimento: da un lato la felicità terrena, dall’altro la beatitudine celeste; da un lato i principi della filosofia, dall’altro i precetti della religione; da un lato il «destino del Comune», dall’altro «quello del Singolare, che rappresentava, per Dante, la sola via per affermare, nell’autunno del Medioevo, la radicale autonomia del Politico» (ivi, pos. 39). La modernità del gesto di Dante sta allora, in questo caso, nello sforzo di pensare una distinzione tra ciò che era canonicamente riunito in un unico e solo sfondo di riferimento. In senso analogo è operato il confronto tra Dante e Machiavelli che occupa la seconda parte del testo.
Obiettivo principale di tale lettura comparativa è superare la dicotomia tra «un Dante immerso nella spiritualità medievale a fronte di un Machiavelli cinico realista» (ivi, pos. 42). A tal fine, Marramao evoca il concetto di dignitas che si trova alla base dell’umanesimo dantesco e dell’“umanesimo tragico” machiavelliano che, a partire dall’autonomia del Politico del primo, opera una ridefinizione ampia e radicale della nozione di politica concepita «concepita come un’anomalia tassonomica: come il diagramma di un plesso dinamico capace di tenere insieme due opposti» (ivi, pos. 48). Entro tale prospettiva, si delinea anche un’apertura rispetto a quanto si diceva in merito alla congiunzione/disgiunzione tra un pensiero filosofico e un pensiero altro o, meglio, sulla tensione che conduce il pensiero necessariamente di fronte a una pratica. In questo caso, è dirimente quanto Marramao scrive in merito al fatto che la «politica non innova mai, se non a partire da un rivolgimento culturale dei linguaggi: del linguaggio della scrittura come del linguaggio del teatro e della musica, del linguaggio dell’arte come del linguaggio della scienza, del linguaggio della poesia come del linguaggio dei corpi» (ivi, pos. 55).
Ed è questo l’aspetto sul quale occorre concentrarsi per capire appieno il senso di una modernità capace ancora oggi di offrire strumenti per rinnovare un sistema di pensiero. Se, riprendendo quanto scrive Gilbert in merito a Machiavelli, sono poche le persone che, «dopo aver guardato dritto in faccia che cosa sia l’uomo nella realtà, siano state capaci di attenersi a quanto hanno visto e non si siano rifugiate nel sogno di quello che l’uomo dovrebbe essere» (1977, p. 245), allora il punto è riuscire a risalire la china seguendo la rotta tracciata da quel pensiero corsaro che – di volta in volta – occorre convocare per rendere effettiva ogni pratica di rivoluzione.
Riferimenti bibliografici
F. Gilbert, Machiavelli e il suo tempo, il Mulino, Bologna 1977.
G. Marramao, Pasolini inattuale. Corpo, potere, tempo, Mimesis, Milano-Udine 2022.
P. P. Pasolini, La divina mimesis, transeuropa, Massa 2011.
Giacomo Marramao, Modernità di Dante, Bollati Boringhieri, Torino 2024.