Immagini sfocate e traballanti, non ripulite dall’audio di sottofondo, accompagnano una voce fuori campo: «Mi sto specchiando con la macchina da presa nella vetrina del negozio di una città africana. Sono venuto evidentemente a girare, ma a girare che cosa? Non un documentario, non un film, sono venuto a girare degli appunti per un film» (Pasolini 2001, p. 1177). Così, con un focus immediato sul carattere meta-cinematografico e (letteralmente) auto-riflessivo della propria operazione, Pasolini introduce i suoi Appunti per un’Orestiade africana. Girato in occasione di due soggiorni – rispettivamente, nel dicembre 1968 e nel febbraio 1969 – in Uganda e in Tanzania, questo progetto per un film da farsi è animato da un interrogativo: è possibile tradurre i momenti essenziali del ciclo dell’Orestiade nell’Africa contemporanea?
La vicenda narrata da Eschilo è ricordata sinteticamente da Pasolini, mentre si aggira tra la gente dei villaggi africani, alla ricerca dei volti dei protagonisti del potenziale film. A una a una, sono inquadrate «le facce del possibile Agamennone, tra alcuni capitribù, della possibile Clitennestra, della possibile Elettra, del possibile Oreste»; o, ancora, questa «potrebbe essere, non dico Cassandra, che era giovane e bella, ma potrebbe essere un gesto magico di Cassandra» (ivi, p. 1178). Lo sviluppo lineare della storia è, in questo modo, messo in crisi dalla comparsa di chi a questa storia dovrebbe prestare il volto. Cosicché, lo sguardo di Pasolini sembra seguire, al di qua o al di là della linea orizzontale della narrazione, le sue interruzioni verticali e i suoi punti di catastrofe; laddove, secondo il lessico pasoliniano, gli in-segni impressi sulla pellicola sono esposti come cinèmi puramente potenziali di un film che potrebbe anche non essere mai realizzato.
Precisamente su questa possibilità di arrestare un attimo di passaggio, un momentaneo sostare sulla soglia tra incompiuto e compiuto, tra i villaggi arcaici e i negozi moderni, sembra giocarsi per Pasolini la plausibilità di un’analogia tra la Grecia classica e l’Africa attuale. Questa analogia riposa sul rilievo cruciale attribuito da Pasolini alla conclusione dell’Orestiade eschilea. Nella lettura pasoliniana, la trasformazione delle Erinni in Eumenidi da parte di Atena non avviene semplicemente in termini di cancellazione e sostituzione; piuttosto, in questo frangente sorgivo della civiltà occidentale, ciò che sembra scomparire, l’irrazionale del tempo ciclico della vendetta, permane sotto forma di sopravvivenza nelle pieghe solo apparentemente appianate del tempo razionale e progressivo moderno, embrionalmente inaugurato dalla democrazia ateniese. Ma che cosa sopravvive del carattere «essenzialmente popolare» dell’Africa preistorica, nel momento in cui questa si appresta a entrare nel gioco della storia delle nazioni civili?
È forse proprio questo elemento dell’opera pasoliniana, questa sua capacità di mostrare una conflittualità irriducibile e la coesistenza di temporalità eterogenee, ad animare il volume con cui Giacomo Marramao interviene in occasione del centenario della nascita del poeta. Il titolo, Pasolini inattuale. Corpo, potere, tempo, rimanda immediatamente alla Seconda inattuale di Nietzsche, citata in esergo: «Perché non saprei che senso avrebbe la filologia classica nel nostro tempo se non quello di operare in esso in guisa inattuale (in ihr unzeitgemäss zu wirken) – vale a dire contro il tempo e, in questo modo (dadurch), sul tempo e, speriamo, a favore di un tempo a venire» (Marramao 2022, p. 8).
L’impiego di Eschilo da parte di Pasolini, in questo senso, appare esemplare: un’opera canonica e, addirittura, fondativa della cultura occidentale diviene qui la cornice entro la quale mostrare una mutazione non ancora definitivamente compiuta, nella sua potenzialità (ancora) inattuale. Al di là delle attestazioni – su cui pure si sofferma – di una frequentazione diretta, da parte di Pasolini, di alcuni testi nietzschiani, Marramao mette in guardia di fronte al possibile equivoco di un Pasolini filosofo; per lui, infatti, «la vera filosofia era la poesia». Ma quale poesia è in grado di operare in modo inattuale, intempestivo, dentro e contro il proprio tempo, aprendo così un varco verso un altro tempo, ancora a venire?
La riflessione di Marramao prende le mosse dalla sbobinatura dell’ultimo discorso pubblico di Pasolini, tenuto a Firenze il 6 settembre 1975, a meno di due mesi di distanza dal suo assassinio. Commentando la traccia audio di questo intervento, cui aveva assistito in prima persona, Marramao si confessa colpito dall’«oratoria profetica» pasoliniana, imperniata su quel «singolare transito tra phoné e graphé, oralità e scrittura» (ivi, p. 17) che dell’opera di Pasolini costituisce forse una delle cifre più significative. Non si tratta tanto, allora, di ripercorrere i temi esplicitamente affrontati, che, come avviene frequentemente nell’ultimo Pasolini “corsaro” e “luterano”, vengono inquadrati a partire dall’affermazione di un nuovo Potere – quello edonistico del neocapitalismo – che in pochi anni aveva portato a un’inedita unificazione (e omologazione) linguistica e culturale dell’Italia.
Piuttosto, ad attrarre l’attenzione di Marramao è il tratto eminentemente performativo che segna il pur lucido e rigoroso ragionamento pasoliniano. Una riflessione in cui, più ancora che alla correttezza delle tesi sostenute, la verità afferisce al gesto con cui colui che la espone si espone a propria volta; vale a dire, si mette in gioco, rinunciando a qualsiasi protezione (bio-)politica del potere e rimandando a una praxis ultra-politica, nel momento in cui «il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica» si rivelano come «due cose inconciliabili» (Pasolini 1999, p. 364). Mentre, da un lato, il frequente accostamento tra Pasolini e Michel Foucault a partire dalla questione del biopotere e della biopolitica si rivela legittima, agli occhi di Marramao, solo se compresa insieme ad alcune differenze decisive (in primo luogo, quella per cui «se il potere per Foucault costruisce i soggetti, per Pasolini li distrugge o li corrompe»; Marramao 2022, p. 32); dall’altro lato, gli studi foucaultiani sulla pratica della parresia nella Grecia antica permettono probabilmente un ulteriore avvicinamento alla peculiare “oratoria” pasoliniana, impegnata a liberare spazi di resistenza al Potere.
Se, infatti, come vuole un noto aforisma di Elias Canetti richiamato da Marramao, si dà Potere là dove si teme la metamorfosi, allora «la scrittura poetica (non genericamente la “letteratura”)» diviene in Pasolini «il luogo di un’infinita metamorfosi», secondo un tentativo di portare «la scrittura, nelle sue varie forme, al suo estremo limite, al confine oltre cui trascolora in qualcosa che è altro da sé» (ivi, pp. 19-20). Che l’opera di Pasolini – così indisgiungibile dalla vicenda biografica e persino dalla presenza corporea del suo autore – continui a sfuggire a qualunque istituzionalizzazione letteraria, risiede forse proprio in questa sua capacità di insistere in uno spazio limbale, su quella soglia di pura potenza che rende visibile il vuoto tra il progetto dell’opera e la sua (im)possibile realizzazione.
In questa prospettiva, il carattere autoriflessivo degli Appunti per un’Orestiade africana non costituisce un’eccezione: soprattutto dalla metà degli anni sessanta, quando la lotta contro la civiltà neocapitalistica diventa aperta ed esplicita, Pasolini si esprime sempre più in “appunti”, “sopralluoghi”, “comunicati” e “progetti di opere future”. In questo modo, potremmo dire parresiasticamente, le continue ingerenze dell’autore mostrano l’opera (non solo letteraria o cinematografica, ma persino nella sua declinazione di intervista e di intervento pubblico) nel suo stato di sospensione. Non vi è qui alcuna concessione alle velleità contemplative del lettore/spettatore a godere di un prodotto esteticamente rifinito e concluso; al contrario, attraverso il richiamo costante alle condizioni metaletterarie in cui sono prodotte, Pasolini propone opere propriamente inconsumabili e, come nel caso estremo di Petrolio, addirittura “illeggibili”. Senonché, l’ingerenza dell’autore nell’opera mostra qui il suo legame, non soltanto etimologico, con una dimensione gestuale. Come suggerisce Giorgio Agamben, bisogna pensare, al limite, a una coincidenza tra autore e gesto, nel senso che «l’autore è presente nel testo soltanto in un gesto, che rende possibile l’espressione nella misura stessa in cui insedia in essa un vuoto centrale» (Agamben 2005, p. 73).
Emblematiche, a questo riguardo, le riflessioni che concludono Pasolini inattuale. Si tratta, non a caso, di una ripresa dell’appendice che (a partire dall’edizione del 2005) conclude un altro, importante volume di Marramao, Potere e secolarizzazione. Strappare Pasolini alla figura di «un intellettuale ossessionato dai progressi della società industriale perché ingenuo idoleggiatore di una purezza arcaica e religiosa» (Marramao 2022, p. 35), è possibile solo a partire da un confronto con la polarità tra tempo ciclico pagano e tempo lineare cristiano, che attraversa carsicamente la sua intera opera. L’elemento rivoluzionario e messianico del secondo, in particolare, sarebbe stato neutralizzato, dapprima, dalle esigenze governamentali della Chiesa e, successivamente e in modo radicale, da quella temporalizzazione della storia specificamente moderna che ha assunto la forma di un Processo irreversibile, denominato Progresso.
La temporalità propria del moderno si rivela così, nell’analisi di Marramao, come una secolarizzazione sempre più integrale dell’eschaton della redenzione giudaico-cristiana: «Una trasposizione dell’escatologia in storia progressiva», tale da conformare un concetto di temporalità che, «in quanto prospezione del futuro, s’intreccia intimamente con l’idea di pianificazione» (Marramao 2005, p. 93). In questa prospettiva, possiamo accostarci alla posizione in ogni senso avanguardistica di Pasolini. Allorché lo sviluppo capitalistico muta in un processo tendenzialmente entropico, tale da dilatare indeterminatamente l’orizzonte di aspettativa della propria ansia progettuale e consumistica, Pasolini oppone un’altra forma di progettualità; la quale, invece di appiattire e consumare il futuro, lo mantiene libero, come vorrebbe Nietzsche, per un tempo che viene: «Nella intransigente custodia di un ordine della verità nettamente distinto dall’ordine del potere, di ogni potere» (Marramao 2022, p. 43).
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, L’autore come gesto, in Id., Profanazioni, nottetempo, Roma 2005.
G. Marramao, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2005.
P. Pasolini, Appunti per un’Orestiade africana, in Per il cinema, I, Mondadori, Milano 2001.
Id., Scritti corsari, in Scritti sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999.
Giacomo Marramao, Pasolini inattuale. Corpo, potere, tempo, Mimesis, Milano-Udine 2022.