La drammaturgia per l’audiovisivo, che sia destinata a una narrazione cinematografica unitaria o che sia sviluppata in qualunque forma di espansione seriale, ha col reale un rapporto rigorosamente duplice. A partire da questa premessa comune si definisce la differenza e la specificità del seriale. Ossia la risposta alla domanda: quale relazione il seriale intrattiene con il reale che il cinematografico invece non potrebbe intrattenere?

La duplicità del drammaturgico si istituisce sull’articolazione necessaria tra argomento e tema. L’argomento è il materiale da cui si elabora la trama. Il tema è la ragione per cui affrontiamo l’argomento con quella specifica strategia narrativa: di che cosa voglio veramente parlare mentre racconto questa storia? Prendiamo ad esempio Gomorra, se accettiamo una semplificazione radicale e ovviamente del tutto insufficiente, l’argomento è la camorra, il tema è il potere. E le due cose funzionano molto diversamente nel loro rapporto con la realtà.

Sul piano dell’argomento, il racconto esercita sempre una funzione di rispecchiamento del mondo conosciuto dallo spettatore. Questo rispecchiamento può essere ad alta densità – come nelle poetiche realiste – o a bassa intensità – come nelle saghe fantasy. I drammi sociali – così come tante serie crime – tendono a definire un perimetro finzionale direttamente riferito a una realtà riconoscibile dallo spettatore, poi – all’interno di quello – organizzano conflitti potenzialmente descrittivi delle dinamiche in atto nel mondo reale. Invece un racconto di fantascienza o un fantasy creano un mondo finzionale adiacente alla realtà riconoscibile in ogni aspetto eccetto quelli che caratterizzano la natura di genere del prodotto e ne definiscono l’identità estetica. Come a invitare lo spettatore in un luogo in cui può orientarsi ma nel quale si innesta un elemento sorprendente.

Sul piano del tema accade qualcosa di completamente diverso. Il tema rimanda all’esperienza interiore dell’autore al lavoro. È il vero oggetto della sua indagine, ciò che determina l’urgenza di organizzare quel racconto per cercare la risposta a una domanda profonda a cui è sostanzialmente impossibile rispondere. Per questo il tema determina l’identità del racconto. Il lavoro dell’autore è comprendere di cosa quel mondo narrativo lo obbliga a parlare. Si tratta in questo caso di questioni attenenti alla nostra esistenza, alla nostra esperienza di esseri umani e/o parte di un sistema di relazioni umane. Il tema è infatti l’unica ragione per cui gli spettatori aderiscono a una storia: non perché tutti siamo professori di chimica frustrati e senza un soldo che decidono di cucinare metanfetamina ma perché tutti viviamo dentro di noi la tentazione del male e l’interrogativo sulla sua natura.

Dunque abbiamo da una parte l’argomento che si riferisce al reale inteso come mondo fuori da noi, dall’altra il tema che si riferisce alla nostra reale esperienza in questo mondo. E su questa distinzione che appartiene alla drammaturgia in sé si misura quello che possiamo considerare specifico di quella seriale. Il paradigma seriale è caratterizzato da almeno due tratti che ne individuano l’identità estetica e il processo creativo che la riguarda. Il primo consiste nella vocazione potenzialmente interminabile del racconto. Quando si crea una serie non si crea una storia, ma si crea un insieme di condizioni preliminari in grado di generare un numero imprecisato di storie… virtualmente infinite (salvo che poi ovviamente prima o poi verranno “terminate” dal broadcaster e/o dal pubblico). Il secondo aspetto è la natura episodica, ossia la necessità del progetto narrativo di svilupparsi per unità specifiche, identificabili e separate tra di loro. Come se al lavoro ci fosse un principio catalogico: per raccontartelo ho bisogno non di una storia ma di un catalogo di storie.

L’insieme di queste due caratteristiche conferisce all’esercizio di narrare serialmente una qualità intrinsecamente sistematica, come nel progetto di una trattatistica che si proponga di ordinare, raccontare e commentare tutti gli aspetti possibili di una certa questione. La “questione” in drammaturgia è l’interrogativo tematico su cui si innesta il racconto. E nel caso di una serie deve essere tanto largo, intenso e ambizioso da proporre infiniti tentativi di risposta, ovvero infiniti conflitti possibili che nascono dalla ricerca inesausta di risposte mai davvero soddisfacenti, corrette o definitive. Per questo il seriale tende a ospitare naturalmente narrazioni che, per postura e ambizione del formato e del paradigma, stabiliscono col reale un’esplorazione di stile e qualità più implicitamente trattatistica. Come nei modi della filosofia. Magari di una filosofia bassa e spicciola, ma non per questo meno vasta nella sua necessità di affrontare il tema con ampiezza per vederne ogni aspetto e declinarne ogni contraddizione. Questa necessità essenziale dell’atteggiamento seriale determina la natura specifica del processo creativo, la postura mentale degli autori e la tecnica per organizzare il progetto narrativo.

Per cogliere sinteticamente la differenza si può pensare al lavoro compiuto da Alan Ball tra American Beauty (Mendes, 1999) e Six Feet Under (2001-2005). American Beauty è una delle sceneggiature cinematografiche più belle degli ultimi trent’anni. Alla base del racconto c’è una domanda tematica molto precisa: è possibile recuperare la felicità perduta? L’intero racconto si incarica di cercare una risposta a questa specifica domanda – posta dal protagonista all’inizio del film – attraverso la vicenda di un quarantenne in grande crisi esistenziale che si innamora di una compagna di classe della figlia. Con un arco narrativo di impressionante precisione tematica e straordinaria poesia, il protagonista arriva nel terzo atto a trovare la sua risposta, ossia: no non è possibile, l’unico modo per essere felici è accettare la bellezza della tua propria morte.

Due anni dopo American Beauty, Alan Ball crea per HBO una serie diventata di culto, Six Feet Under. La ricerca interiore – l’interrogarsi esistenziale che lo guida – è prossima a quella che aveva ispirato American Beauty, ma il formato seriale e il suo specifico obiettivo estetico determinano un approccio completamente diverso e, da esso, un sistema di conseguenze drammaturgiche e spettacolari sostanzialmente irriducibili a quelle del film precedente.

Se il film poneva una domanda esplicita sulla felicità perduta, la serie pone una domanda più ampia sul senso della vita. Se il film approdava alla morte del protagonista, la serie sceglie come arena il luogo che ospita il catalogo potenziale di ogni morte possibile (la famiglia protagonista gestisce una funeral home). E il racconto sviluppa nell’arco delle stagioni l’esplorazione sistematica di tutte (o quasi) le possibili risposte sul senso della vita (il senso della vita è vivere l’attimo? Il senso della vita è progettare il futuro?), per verificare attraverso i personaggi quanto e come ogni risposta possa funzionare, che conflitti inneschi e dove si scontri con le proprie controindicazioni e la propria inadeguatezza.

Tutto cambia dunque nel processo creativo: dall’ideazione dell’arena alla definizione del sistema di personaggi che possa incarnare tutte le differenti posizioni rispetto alla questione centrale. Fino all’esplorazione di tutto quanto chi crea riesce a trovare dentro di sé come possibile risposta, i propri limiti e relative contraddizioni, dall’interno di un sistema di personaggi generati per vivere la domanda – e quindi abitare ciascuna di queste possibili risposte – secondo differenti prospettive. Ossia tutto ciò che poi si trasformerà nelle molteplici story-line del racconto.

Altri esempi si potrebbero portare analizzando le grandi serie almeno degli ultimi 40 anni. Mostrando ad esempio l’irriducibilità cinematografica di narrazioni come Mad Men (2007-2015) o quella persino più radicale di un classico capolavoro della narrazione seriale come ER (1994-2009), oggetto talmente specifico da individuare una sorgente tematica per definizione impossibile in una drammaturgia chiusa come quella cinematografica tradizionale, ossia la lotta del collettivo per la salvezza della specie, dove ovviamente la rappresentazione pertinente di oggetti narrativi come il collettivo e la specie non può che darsi nelle forme della più ampia e brulicante pluralità catalogica (quindi episodica e seriale).

Per questo la tradizionale analogia della differenza tra cinema e serie come differenza tra poesia e prosa – col persistente pregiudizio che insinua – non è solo tecnicamente scorretta ma determina un ritardo culturale gravido di conseguenze che, nell’insieme del sistema formativo e industriale, ancora inchiodano l’Europa (complessivamente povera di technè drammaturgica) a un’affannosa rincorsa, con tutto ciò che ne consegue in termini di minorità culturale e pregiudizio economico. La distinzione corretta infatti – sempre che queste analogie abbiano un senso – sarebbe quella tra poesia e filosofia, per metodo e obiettivi. Comprenderlo gioverebbe molto ad afferrare la matrice dei capolavori che amiamo e a orientare correttamente i nostri processi creativi e decisionali avvicinandoli ai risultati a cui legittimamente dobbiamo ambire.

Riferimenti bibliografici
N. Lusuardi, La rivoluzione seriale. Estetica e drammaturgia nelle serie hospital, Dino Audino editore, Roma 2010. 

Tags     drammaturgia, serie tv
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