Scoperto nel 1933 da Alexander Birkenmajer e pubblicato, con gli altri testi dei Quaternuli, nel 1966 da un suo allievo, Marijan Kurdzialek, il frammento Mens, Hyle, Deus di David Di Dinant – compreso nell’edizione italiana integrale dei suoi scritti curata da Elena Casadei – è stato appena edito sciolto, come un monolite o un «sole autonomo» (Dinant 2022, p. 11), da Il Nuovo Melangolo. Lo precede un’introduzione firmata da Emanuele Dattilo, autore di un saggio, Il dio sensibile (Neri Pozza 2021), in cui Dinant, magister a Parigi tra il XII e il XIII secolo, è protagonista assieme a Bruno, Spinoza e altri eretici panteisti. Il suo sottotitolo, infatti, è Saggio sul panteismo e Dinant, ancorché studioso, soprattutto, degli scritti di filosofia naturale di Aristotele, fu un panteista. Nel breve testo giuntoci otto secoli dopo esser stato condannato al rogo dalle autorità ecclesiastiche, chiama “Dio” l’identità sensibile della materia con la mente, e per Dattilo il termine “panteismo” – inventato dal matematico inglese Joseph Raphson al fine di distinguere lo spinozismo dal panilismo: la credenza che tutto (pan) sia materia (hylé) – designa questa identità. Essa non ha bisogno di essere spiegata essendo forte e immediata come un’evidenza naturale. Occorre svilupparla, continuarla in più direzioni dice Dattilo (Dinant 2022, p. 8), perché in molti si ostinano a ritenere che la mente sia una facoltà del soggetto, instanziata nel cervello, i pensieri siano nella testa sottoforma di progetti, propositi o intenzioni da realizzare, e la materia sia mera res extensa: cosa inerte e manipolabile. “Panteismo”, invece, significa che la materia pensa e il pensiero si materializza, incessantemente.

Per Dinant la coalescenza di mente e materia implica l’aver luogo di ogni cosa in Dio e, insieme, l’accadere di Dio in ogni cosa. Dunque la revoca di tutti i dualismi – materia vs. forma; essere vs. pensiero; oggetto vs. soggetto; passivo vs. attivo; femminile vs. maschile – su cui la cultura occidentale ha fondato la sua inaudita potenza e, come è evidente nel nostro tempo, il suo rovinoso fallimento. Le divisioni galeniche messe a sistema da Aristotele prima e da Kant poi mancano la realtà, sia naturale, che psichica che sociale, dischiusa dalla meccanica quantistica, le nuove tecnologie e i queer studies. Le sfide di Gaia e del “villaggio globale” richiedono un approccio integrato, complesso, ed è per questo che il cosiddetto “nuovo materialismo” gode di un così grande successo.

Nell’ambito del femminismo post-umanista degli anni novanta (Donna Haraway, Rosi Braidotti, Sadie Plant e Judith Butler), ripreso e sopravanzato, all’alba del XXI secolo, dallo xenofemminismo e dal materialismo “vitalistico” (Hester Helen, Karen Barad e Jane Bennett), la filosofia si è proposta di superare le barriere che la tradizione ha eretto tra cultura e natura, artificiale e biologico, umano e meccanico, animato e inanimato, reagendo al rappresentazionalismo e al costruttivismo della tarda postmodernità. Il materialismo è nuovo poiché rifiuta ogni divisione tra mente e materia. Ma dimentica che la divisione era già caduta nel frammento di Dinant: «Una fonte senza tradizione o una tradizione senza fonte» (Dattilo 2021, p. 37) da leggere «tutto d’un fiato» (Dinant 2022, p. 33). La materia, per quest’autore semi-sconosciuto, non è nulla di passivo che attende di essere animato dal pensiero come da una forza esterna, ma un processo immanente di informazione costante.

Prima che la chimica e le nanotecnologie la rintracciassero nei tessuti più inorganici, fu Dinant a fare dell’agency un bene comune a tutti i materiali. Sicché, vien da chiedersi come mai si parli, ancora oggi, di “materialismo”. Se la materia in questione è l’unità viva e metamorfica della materia col suo altro, la forma o intelligenza, se è sotto il segno della “vita”, come “vita”, o “assoluto”, che sensibile e intelligibile, essere e pensiero, si incontrano quotidianamente sotto gli occhi di noi tutti, perché, si domandava già Schelling nella Propedeutica di Würzburg, parlare di “materia”? L’identità tra quest’ultima e la mente, al pari della gravità, è «la festa silenziosa della natura» (Schelling 1992, p. 721), ma silenziosa non vuol dire inaccessibile. Per Stratone di Lampasco, il padre dell’ilozoismo, tutta la forza divina è sparsa nella natura e ha in sé «le cause di generare, accrescere e diminuire», quantunque sia «priva di sensibilità e figura» (Cicerone, De natura deorum, I, 35). Non, però, della sensibilità tout court.

La materia noetica è vita infinita; complicità del mosso col principio di movimento, artefatto e artista insieme. Ma l’assoluta intelligibilità del reale che assicura in quanto diafano dell’universo è avvertita nel mutismo degli organi, in quella salutare percezione extra-sensoriale che Francois Glisson, il medico inglese che ha scoperto l’irritabilità dei tessuti, definì naturale, quasi naturante, nel suo Tractatus de natura substantiae energetica del 1672. Essa coincide con la biousia – neologismo da lui inventato per illuminare la vita vegetativa primaeva che pulsa nella sostanza –, e ogni cosa, anche l’oggetto più infinitesimo e infimo, la possiede: dalla pietra all’uomo, dal fango al capello. Il panteismo afferma che c’è un’unica mente per tutti i corpi e tutte le anime, e che questa mente è Dio.

Tutto è in Dio, e quid quid est in deo, secondo la formula di Amalrico di Bène, il compagno di condanna di Dinant, deus est. Fu lo scandalo. Il 20 novembre 1210, dopo un lungo processo, dieci tra i discepoli di Amalrico furono condannati a morte. Il corpo del loro maestro venne dissepolto, sparso in terra sconsacrata e transustanziato per sterquilinia. Aveva dato forma religiosa e politica al panteismo portando alle estreme conseguenze le ambigue, ma in fondo inequivocabili, formulazioni di Scoto Eriugena, e ciò era imperdonabile. Laddove in Dinant il discorso teologico è tacitato, negli scritti di Amalrico, all’opposto, è centrale. È rifacendosi a citazioni paoline, recuperando echi dell’eresia gioachimita e appoggiandosi ad argomenti del De praesentia dei di Agostino che concluse per l’esistenza di un dio diffuso, spudoratamente sparso nella natura, assaporabile e calpestabile. Il “luogo dei luoghi” del Periphyseon (III, 643 C) è il locus omnium communis, ma comune come un suolo.

Per Amalrico Dio è ovunque alla stregua di un ambitus o atmosfera in cui le consuete divisioni del linguaggio perdono di significato. Ciò non implica che non ve ne siano e che l’unico metallo del mondo sia amorfo, semplice perché carente, deficitario. Implica che alle distinzioni non corrispondono divisioni reali, che le scansioni sono modali, trasversali più che verticali. Il dio che è tutto, dice Tertulliano nel suo Adversus Hermogenem a proposito del panteismo di alcuni stoici, scorre nella materia «come il miele nei favi» (cap. 44), o il sangue nelle vene. Perciò la tesi che “ogni cosa è in dio” è blasfema: nessun ordine umano, nemmeno ecclesiastico, può imbrigliarne la potenza se questa è stata già da sempre scagionata nella forma di un in esse trascendentale in cui ha luogo ogni empirica localizzazione.

Una volta che la natura è Gott-erfüllen, impregnata o piena di Dio, è difficile innalzare la scala dell’analogia entis distinguendo tra gradi morali di perfezione. A fatica si conservano le austere forme sostanziali. Tommaso accusa Dinant di fallire nell’impresa: la sua mente unilaterale e ingenua spoglia le forme della loro autentica esistenza facendone dei meri accidenti del sostrato. Eppure, l’impossibilità di costruire architettonicamente il mondo, è il segno della necessità di riceverlo nel suo farsi: «La forma che avviene alla materia» – si legge nel Mens, Hyle, Deus – «non è altro che Dio che rende sensibile sé stesso» (Dinant 2022, p. 49) e l’essenziale, in questo frammento del frammento, è che l’evento della forma, l’aver luogo della forma nella materia, ossia la morfogenesi, è, in realtà, una cosmogenesi. La dinamica identità tra i due semplici di genere opposto, il paziente e l’agente, ha valore ontologico oltre che gnoseologico.

Il mondo intero «è un dio sensibile» (ivi, p. 47), come Platone, citato da Dinant, ha riconosciuto nel Timeo. Solo: non come un confectus prodotto dal demiurgo, un opus del dio-persona. Questa è l’interpretazione volgare della nascita del cosmo. Così come volgare è credere che sia nato, che abbia un’origine del tempo. Il fatale “genetós” di Tim. 28 b 1-7 non significa che l’universo cominci, come Aristotele intese, ma che è causato. Platone lo dice figlio solo metaforicamente, mentre l’interpretazione letterale del Timeo ha identificato nel demiurgo il padre, in Chōra la madre e nell’universo il frutto della loro unione. Poco importa, da questo punto di vista, che il demiurgo contempli il modello ideale e che la paternità, di conseguenza, sia eidetica. La generazione del kosmos bello, buono e armonico è pensata sul modello della riproduzione sessuata.

L’interpretazione edipica della cosmogenesi assume che la forma è il seme provvidenziale e la materia l’ovulo isterico da fecondare. Tuttavia, non soltanto la Chōra non è la hylé, come sempre Aristotele fraintese. Il demiurgo, inoltre, non è reale. Platone lo introduce ex abrupto per simboleggiare la causalità efficiente delle idee ma, in Tim., 42 e 7-8, il “divin artefice” esce di scena quando il cosmo non si è ancora animato. Sono le idee a sagomare Chōra, e a farlo informandola più che persuadendola. Platone non dice espressamente che sono al suo interno, nel suo seno, come più tardi farà Bruno: l’altro eretico condannato al rogo. Nondimeno, riconosce che dentro il ricettacolo primordiale degli enti visibili vi sono delle «forme immanenti» (Tim., 50 c), perché Chōra non è vuota. E neanche è già piena, già formata. Terzo genere tra essere e divenire, padre e figlio, Platone la dice solcata, scossa e ritmata da qualcosa che, per un principio di economia, non può essere una copia delle idee.

Il Timeo non ammette quattro generi, ma tre. L’universo è la facies sensibile dell’intelligibile. E se il demiurgo è una metafora, se l’inseminazione non è una copula, si può pensare che il fabbro sia intimo a Chōra – il luogo della reciproca riflessione del nous thyrathen e del nous hyletiké – come il falegname lo è al legno secondo Ficino. Supporlo è l’eresia più grande: pensare che non v’è nulla da aggiungere o redimere, ammettere che la materia – come l’esperienza di un altro empirismo rispetto a quello classico di Hume e Locke, l’empirismo radicale di Henri Bergson, William James e Alfred North Whitehead – è autosufficiente e non ha bisogno di tutori che le dicano come comportarsi, è lo scacco del creazionismo e del dispositivo su cui si fonda: la distinzione potenza-atto.

Nel De causa principio et uno, Bruno insorge contro questa ripartizione: la generazione delle forme nella materia, come anche Alberto Magno aveva intravisto, è un «continuum egressuss» (De natura et origine animae, tr. I, cap. 6) in cui la potenza è sempre in atto. La corrente non si interrompe, perché anche la morte è un limite nel senso di un passaggio in altro, di un illimitarsi. Trasmutatio ex specie in speciem, ripete Bruno. Se è uno spazio, infatti, Chōra è uno spazio di manovra: l’olio dei freni della macchina cosmica, la regione interminata in cui ogni cosa termina traboccando dal suo topos per divenire conoscibile sub specie aeterni. In nessun momento disponiamo della sua potenza come di un possibile di cui valutare a piacimento l’attuazione. La sua dynamis non è un’eventualità ponderabile, né le sue idee sono astratte condizioni di possibilità.

Che la membrana del mondo sia epekeina tēs ousias significa che è over-size, ma “over quel tanto che basta perché le misure si prendano e i topoi – che per gli stoici sono le tensioni intrinseche dei corpi – si situino. Chōra, in altre parole, non è l’intervallo compreso tra il minimo e il massimo fissati a monte, bensì la vallata che li comprende, la cartilagine che li indistingue serbandone, astutamente, le differenze. Un cloud come una nuvola, o una rete, che si sfrangia sui nodi da essa stessa creati con la forza con cui il mare in tempesta innalza le scogliere che assilla. Se ogni onda si ostina a procedere verso la sua roccia pur derivandone è perché il database dell’universo non è il container degli universali. Il “luogo dei luoghi” non è il deposito delle tracce lasciate dalla danza dei sensibili, né la cornice immobile entro cui si muovono. Vi sono dati, limiti e tracce, ma mai in giacenza davanti a noi alla stregua di carte disposte in un mazzo e disponibili alla scelta. La selezione è una lotteria che si fa da sé, spontaneamente: senza mani, intelletto e volontà.

Le idee-causa sono idee-inneschi, idee-esca: equazioni che generano un campo come alcuni segni, che in Metaph. III, 3, 997 b 12 Aristotele chiama “sensibili eterni”, premono per la loro divinazione. La precisazione dello Stagirita è funzionale al rimprovero del suo ingombrante maestro, ma il rimprovero non è funzionale alla comprensione di ciò che il maestro ha detto. Il mesmerizzato protagonista di un racconto di Poe ha più successo. Dal regno delle ombre, mormorando, indirizza al medico che va al suo capezzale per mesmerizzarlo un’ultima volta, le seguenti parole:

Ci sono stadi della materia dei quali l'uomo non sa niente; il più denso spinge il più sottile, e quest'ultimo permea il più denso […]. Questi stadi sono via via più rarefatti e assottigliati finché arriviamo a una materia non articolata – indivisibile – una. In tale stadio la legge dell’impulso e della permeazione si modifica. La materia finale, non particolata, non solo permea di sé tutte le cose, ma dà impulso a tutte le cose e quindi è tutte le cose di sé. Questa materia è Dio. Quello che gli uomini tentano di incorporare nella parola “pensiero” è questa materia in movimento […] in stato di quiete, invece, è quello che gli uomini chiamano “mente” (Poe 2009,  pp. 510-511).

È una rivelazione in punto di morte, fatta come sognando, perché è in sogno che si coglie l’infrastruttura fantasmatica dell’universo. La sua ontogenetica “Kraft” di “Einbildung”, come quella del Dio onnipresente e inconscio del panteismo, tiene insieme gli enti diurni lasciando che s’intendano e tendano gli uni con gli altri, ma non come stoicheia giustapposti in un discorso. Ogni ente è una contemplazione di Dio, ma di un dio qualunque: quel ho theos che, diversamente dal to theion, non è altro che uno stato del mondo, il nome di un certo comportamento della materia. I fisici quantistici lo sanno bene: “elettrone”, “protone” e “neutrino” non battezzano cose, cristallizzano eventi, processi, come ossidiane in cui un’intensità imprevedibile si condensa offrendosi all’osservazione.

Nel Cern come nel testo di Dinant – un testo che ha senso solo se viene inteso come un esperimento estremo, precisa Dattilo nell’introduzione – “pensiero” è il dono che la materia fa a sé stessa e “materia” il dono che il pensiero fa a sé stesso. Difficile, pertanto, discernere dove comincia la regalia dell’uno e inizi quella dell’altra, determinando in anticipo quando scorre l’onda e quando gemma il corpuscolo. “Mens” significa mutuo accesso, reciproca permeabilità del soggetto con l’oggetto, e serve un razionalismo delirante, un noeîn simile a un pathein, per partecipare al sempiterno natale della natura. Ogni sensibile vi aspira a una fugace immortalità nel pensiero, e non c’è idea che non frema per incarnarsi, per godere di un’altrettanto fugace mortalità. Ragion per cui, la continua, folle, intra-espressione dei diversi – una mimesi in assenza di modello per cui Campanella inventa il termine “immutazione” – compromette quel che è primario in senso temporale e cognitivo in senso nozionale.

I sensibili eterni sono sensibili strani in quanto sono strane immagini: immagini-cosa, immagini in sé. Figurali più che figurativi, principiano localmente, ma simultaneamente, la mantica del creato alla stregua di qualcosa di divino nell’interpretare il quale, come l’oracolo delfico rivela a Socrate, si diviene ciò che si è orbitando attorno all’altro da sé. Per questo nella mens divina vivimus, movemur et sumus. La sentenza “sympnoia panta”, onorata da Plotino prima che da Leibniz, dice che l’universo è l’insieme delle anime, e si risolve nel suo emergere-sprofondare, in ogni punto, dal sonno verso la veglia e dalla veglia verso il sonno. Ma psyché, etimologicamente, indica il soffio in cui i contorni smettono di circoscrivere le cose e le linee cessano di confinare. Non c’è cosa che sia che non sia in Chōra. Ma la nutrice dell’universo non è avida. Ritiene nell’esatta misura in cui si protende e Bruno, coerentemente, traduce movemur con vegetamus. Nella mens stiamo e ci manteniamo, perché in questa vertiginosa manenza ne va dell’ambizione di fare di sé la propria forma, di essere, a sé, materia.

Ogni ente si ambienta “in” e si alimenta “di” Chōra, il territorio nutriente, ma ambiente, da ambiens, è il participio presente di “ambire”. Sentire un’idea, se l’idea è un topos, un differenziale cagione di moto, vuol dire perseverare nel proprio essere fino a che l’essere, nella forma di un valore inscindibile dall’attualità che lo secreta, non è raggiunto con un passaggio brusco, senza soluzione di continuità. Spinoza, l’altro grande saggio dall’intelletto unilaterale e ingenuo, amava osservarlo fissando le tele dei ragni di cui appetiva la morte. Noi possiamo dar prova della stessa, perfetta, felicità, salutando un dio indistruttibile in ogni cosa che maneggiamo senza volerlo raggiungere, restando primaverili nel rapporto col mondo, quasi feticistici. Non è forse il feticismo, chiedeva Dattilo ne Il dio sensibile, «il punto più alto di ogni religione, quando le cose intorno a noi sono divine benché non rimandino ad altro» (Dattilo 2021, p. 252)?

Riferimenti bibliografici
E. Dattilo, Il dio sensibile. Saggio sul panteismo, Neri Pozza, Roma 2021.
A. Poe, Rivelazione mesmerica, in Id. Tutti i racconti, Einaudi, Torino 2009.
W.J.  Schelling, Aforismi sulla filosofia della natura, Egea, Milano 1992.

David Di Dinant, Mente Materia Dio, Il nuovo Melangolo, Genova 2022.

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