Chi conservasse, dal tempo dei banchi di scuola, qualche memoria della parola “panteismo”, la ritroverebbe probabilmente legata a un sentimento dimenticato, ad un afflato adolescenziale misticheggiante, più letterario che religioso, o a una certa esperienza sensibile, quella meridiana del calore chiaro che avvolge tutto in un un’unica, satura atmosfera. E forse rammenterebbe certe formule da manuale (che con la benevola intenzione di far comprendere almeno un poco della cosa in questione, finiscono per impedire anche quel poco di comprensione che si potrebbe facilmente ottenere): Dio è in tutte le cose, per esempio – formula che può dar luogo, in uno dei casi meno dannosi, ad una religiosità estatica, che fissa rapita ogni filo d’erba e ogni soprammobile di casa, come la Felicita di Flaubert contempla lo Spirito Santo nel suo pappagallo impagliato. Oppure l’altra inversa: tutte le cose sono in Dio – formula sufficiente a screditare d’un solo colpo il “panteismo”, dal momento in cui suggerisce che le cose, anziché qui tra noi, sarebbero trasferite in un altro mondo o addirittura in nessun mondo, custodite o annientate nel cuore nero di una qualche divinità trascendente.
E se in questo modo il panteismo sembra risolversi in fumisteria, le cose non andrebbero meglio qualora ci si rivolgesse alla celebrata tradizione della più alta filosofia – dove di solito il panteismo viene presentato come un “acosmismo” o, in parole povere, come l’annegamento del mondo intero e delle cose singole che lo compongono nell’oscuro abisso del Nulla o, che è lo stesso, nell’oceano indifferente dell’Uno-Tutto.
Con due mosse semplici ed essenziali, un testo importante di Emanuele Dattilo, Il Dio sensibile. Saggio sul panteismo, fa piazza pulita di tutto questo. La prima mossa consiste nel mostrare come il panteismo, lungi dall’essere riducibile al sentimento panico o oceanico che riduce ogni distinzione a intuizione mistica, si fondi piuttosto sul postulato tipicamente razionalistico della perfetta intelligibilità del mondo ovvero dell’identità di mente e natura. Seguendo una tradizione minore ma consolidata, si dirà che il pensiero non è la pania con cui ci illudiamo di catturare quel poco di mondo che spetterebbe in dote alle nostre capacità conoscitive, che cioè non siamo noi a comprendere il mondo, incasellandolo nelle categorie della nostra mente, ma è il mondo che ci comprende, e noi che quando pensiamo diventiamo mondo. Il divino di cui parla la parola panteismo non è in alcun caso un Dio nascosto, un mistero inattingibile posto al di là di ogni ragione, ma, proprio al contrario, coincide con quella «assoluta intelligibilità del reale» (Dattilo 2021, p. 50) che permette di porre la questione decisiva: «Se non fosse la mente a essere dentro di noi, ma fossimo piuttosto noi a essere dentro la mente?» (ivi, p. 51). Non è possibile, qui, discorrere dei diversi sentieri che Dattilo segue per rispondere a questa questione. Basti dire che, parlando di Alessandro di Afrodisia e Averroè, di Davide di Dinant e Spinoza, di Bruno, Campanella e Schelling, Dattilo costruisce una cartografia del panteismo che, tenendosi con rigore alla tesi della coestensione di mente e mondo, attraversa e dissolve diverse partizioni storiografiche consolidate.
La seconda mossa decisiva di questo Saggio sul panteismo chiama in causa in maniera privilegiata un ormai dimenticato teologo del XII secolo, Amaury de Bène. Convinto sostenitore dell’apocatastasi, Amalrico riteneva che Dio non potesse consentire neppure a un solo essere, tra quelli da Lui creati, di finire nel nulla o nella dannazione eterna. Ogni creatura di Dio, in quanto tale, non poteva che essere salvata. Ma questa posizione teologica (che gli costò l’accusa di eresia) era il frutto di un’acuta percezione della singolarità di ogni cosa. La formula amalriciana secondo la quale Dio è «pipistrello nel pipistrello» e «pietra nella pietra» (ivi, p. 239) suggerisce con evidenza come il suo panteismo non consista semplicemente nel dire che Dio è in ogni cosa, bensì nell’affermare che Dio è, in ogni cosa, proprio e solo quella cosa. E non si tratta tanto di un’univocità dell’essere che consenta di dire, nello stesso senso, che Dio è, come è la pietra o il blu del cielo, ma si tratta di affermare che Dio, la pietra e il blu del cielo sono solo in quanto ognuno è una certa singolarità: «Se noi intendiamo le cose» – scrive Dattilo a proposito della tradizione che dallo Pseudo Dionigi arriva a Cusano, passando per Scoto Eriugena – «è perché esse non soltanto sono, ma prima ancora di essere sono se stesse. Dio è un sé senza io, il puro essere se stesso in ogni cosa, non altro che sé, non importa che cosa» (ivi, p. 238).
In questo senso, il panteismo smette di essere una dottrina teologica, per tornare ad essere ciò che è sempre stato: una dottrina ontologica e etica. Il panteismo è una dottrina ontologica, perché come abbiamo appena visto afferma che ogni cosa, nella sua essenza singolare, è un ente reale, ovvero non una sostanza destinata a finire nel nulla, ma una singolarità già da sempre “salva”, in quanto iscritta nell’ordine generale delle cose (lo si chiami Dio o natura poco importa). Ma il panteismo è anche, inseparabilmente (come mostra nella maniera più perspicua Spinoza), un’etica. E questo per tre ragioni almeno.
La prima è che nessuna cosa esiste in funzione di qualcos’altro. La seconda è che, di conseguenza, nessuna cosa ha da essere qualcosa di diverso da ciò che è, e dunque nessuna cosa può mai essere giudicata imperfetta, difettosa o degna di biasimo: «Non vi può essere, in questa prospettiva, retribuzione o punizione, semplicemente perché Dio non è che questa assoluta, inseparabile presenza delle cose a se stesse, dove nessuna azione è più compiuta in vista di qualcos’altro, e nessun atto o oggetto sensibile rimanda più a nient’altro che a sé. Ogni cosa celebra, esaurisce e consuma continuamente Dio in se stessa» (ivi, p. 104).
La terza e ultima ragione – la più importante di tutte – per cui il panteismo è (forse innanzitutto) un’etica, la troviamo nelle pieghe di un testo, quello di Kafka, che quasi mai è stato annoverato tra quelli propri della tradizione panteistica. «In teoria – si dice in un magnifico aforisma kafkiano – vi è una perfetta possibilità di felicità: credere all’indistruttibile in noi e non aspirare a raggiungerlo» (ivi, p. 222). «Credere» – spiega Dattilo a commento di questa formula
non significa sperare che qualcosa si compia, che il desiderio si realizzi. Sperare vuol dire tentare di raggiungere, tendere all’indistruttibile per afferrarlo e dargli un luogo. Ma l’indistruttibile è, innanzitutto, incostruibile. Può essere distrutto, infatti, solo ciò che è costruito. Non aspirare a raggiungerlo perché esso non può essere raggiunto, non può mai essere un obiettivo, e la stessa raffigurazione delle cose come fine e come risultato può allontanarcene. Non è neanche, in realtà, dentro di noi, ma siamo noi, piuttosto, a essere dentro l’indistruttibile. […] Questo indistruttibile, la cui fede rappresenta la possibilità perfetta di felicità [e perciò è la condizione di un’etica], è descritto infine da Kafka attraverso le stesse aporie panteistiche dell’Uno-Tutto, di qualcosa che è ognuno […] e che, insieme, è comune a tutti: “L’indistruttibile è uno; ogni singolo uomo lo è e al tempo stesso è comune a tutti, da qui il legame fra gli uomini, indissolubile come nessun altro” (ivi, pp. 222-223).
Per questo infine il panteismo non è solo un’ontologia anti-teologica e un’etica senza morale, ma anche una politica dell’immanenza contro ogni utopia.
Emanuele Dattilo, Il Dio sensibile. Saggio sul pantesimo, Neri Pozza, Venezia 2021.