Dopo il trionfo di Parasite agli Oscar, la distribuzione italiana ha riportato in sala quello che a oggi rimane il film più riuscito di Bong Joon-ho. Insignito, tra gli altri, di premi al Tokyo International Film Festival e al Festival di Torino, Memorie di un assassino (2003) è stata un’opera capace di riattirare l’attenzione delle platee internazionali in seguito alla progressiva perdita di mordente del cinema giapponese che, negli anni novanta, aveva vissuto una nuova età aurea grazie all’imporsi di autori quali Takeshi Kitano, Hirokazu Kore’eda, Takashi Miike, Kiyoshi Kurosawa e Shin’ya Tsukamoto.

Del resto, tracce del cinema nipponico si trovano anche nel film in questione; basti pensare all’inquadratura d’apertura in cui l’elemento umano si perde nella campitura uniforme di un terreno pronto alla mietitura che richiama alla mente l’immagine di Boiling Point (1990) in cui Takeshi Kitano, accovacciato in un campo e incoronato da una ghirlanda di fiori, guarda dritto in macchina. L’elemento naturale – la cavalletta che il bambino osserva stazionare sul fuscello prima di aggiungerla alla propria collezione – non appare pacificato. Il trattore che attraversa il campo non domina lo spazio, ma si limita ad attraversarlo, con un movimento affatto transeunte. In quel luogo, la vita parassitaria continua a brulicare, quasi ad accelerare il processo di decomposizione del cadavere di una donna brutalmente assassinata e, parimenti, ad annientare ogni pretesa volta a sovvertire il destino e a procrastinare il riconoscimento del sé in quanto essere-per-la-morte.

Viene allora da chiedersi se il titolo per cui ha optato la distribuzione italiana non sia da intendere come un’ulteriore falsa pista, una sardonica mise en abyme, tanto allettante per un potenziale spettatore quanto fatalmente destinata a farlo sprofondare nel più totale disappunto. Così come accade in Zodiac (2007), il film, ispirato a un fatto di cronaca, si fonda sulla mancata identificazione di un responsabile. La vicenda è dunque incentrata sui tentativi di risoluzione del caso a partire dalla rievocazione della memoria degli agenti e dei sospettati intorno ad alcuni omicidi che, eseguiti secondo un rituale preciso, finiscono col perdere il loro statuto singolare, avvolgendo in un’orripilante patina di normalità la quotidianità di un paesino situato nei pressi di Hwaseong.

Come la segheria, i luoghi anonimi e le vite ordinarie che popolano la cittadina di Twin Peaks e, per certi versi, celano le fondamenta marce su cui si erige la comunità, il commissario locale Park (interpretato da Song Kang-ho, volto per eccellenza del cinema coreano contemporaneo) – ben presto affiancato dall’ispettore Seo (Kim Sang-kyung) arrivato dalla capitale con il suo bagaglio di competenze tecnico-scientifiche – deve cimentarsi nell’impresa impossibile di scovare l’eccezionalità delittuosa in seno alla normalità più piatta e snervante, danzando sull’orlo di un abisso di follia delirante. Da un lato Park si perde seguendo la pista, assurda e strampalata, del killer senza peli pubici; dall’altro Seo adotta con veemente ricorrenza i metodi violenti dei suoi colleghi “paesani”, fino a cadere vittima delle proprie fallaci catene di ragionamento.

Come accettare che in un paese così piccolo sia impossibile identificare dove si annidi il male? Perché ogni tentativo di giungere alla conclusione riconduce nei luoghi in cui l’indistinzione sembra essere il comune denominatore (il campo di grano; il canale di scolo al di sopra del quale si erge come un monito uno spaventapasseri; la cava dove lavorano degli operai che indossano tutti la stessa mascherina)?

Come procedere senza avere nulla di certo tra le mani? Non resta che lavorare d’atmosfera, facendo dell’assenza di piste plausibili e di svolte effettive nell’indagine il pretesto per colmare goffamente il vuoto d’azione tramite una sequela di messinscene parossistiche allestite sulla base di confessioni estorte ai sospettati, ricorrendo alla violenza e all’abuso di potere. Guardando al cinema di Imamura – di cui Bong si è più volte dichiarato debitore – e in particolare, a Evaporazione dell’uomo (1967), in cui le “interviste” rivelano nuovi aspetti del passato burrascoso dell’uomo scomparso senza per questo permettere di stabilire cosa possa essergli accaduto, le ripetute confessioni di Memorie di un assassino innescano un movimento apparente che si infrange contro la superficie priva di appigli della realtà.

È una vera e propria “evaporazione dell’assassino”, poiché l’omicida agisce mentre imperversano rashomoniane piogge serotine, forse subito dopo aver richiesto la stessa canzone alla radio, quando cielo e terra tornano a dialogare e il suolo si trasforma in un impiastro fangoso, sul quale ogni impronta si fa labile, o si disperde nel caos di una discarica fumante. Resta soltanto il contrassegno dell’inanità e, soprattutto, della barbarie che scompagina i decenni delle dittature militari che «si caratterizzarono per arbitrio e corruzione, violenti regolamenti di conti, torture e sistematica eliminazione di ogni forma di opposizione, ampie sollevazioni popolari e sanguinose repressioni» (Dalla Gassa, Tomasi 2010, p. 111).

I personaggi percepiscono, vivono, la frattura tra superstizioni antiche – la consultazione della veggente già al centro della sopraccitata opera di Imamura e che, tra l’altro, in un film come Goksung – La presenza del diavolo (Na Hong-jin, 2016) diverrà retrograda, ma forse in parte efficace, pratica folkloristico-sciamanica – e seduzioni scientifiche d’importazione americana. Similmente a quanto accadeva con il “metodo tibetano” d’indagine dell’agente Cooper in Twin Peaks (1990), Bong constata l’impossibilità di rendere coerente una deformazione conferendole una coesione narrativa, nonché di pretendere l’introduzione di una logica causale laddove regna una disomogeneità casuale. Così l’istinto di Park-occhi-da-indovino e la mente raziocinativa di Seo conducono al medesimo luogo d’imboscata, la cui carica simbolica implica la possibilità, tanto gravosa quanto impellente, di far ritorno alla realtà, intraprendendo un movimento a ritroso.

Perché se mai fosse vero che il treno giusto passa una volta sola, il «cinema come falso movimento» (Badiou) può riorganizzare invece la topologia umana attraverso dei movimenti impossibili. Come illustrato dallo scemo del villaggio, prima sospettato e poi capro espiatorio, soltanto “vicino ai binari, nel campo di riso” è possibile generare le condizioni per la salvezza. Si attua così il transito dallo sguardo indagatore del bambino – che suggella di fatto l’inconoscibilità dell’assassino, un uomo dalla “faccia comune” – a quello dolente e sospeso di un ex-poliziotto, divenuto un venditore dedito alla causa ecologica. Lo sguardo in macchina di Park sancisce l’incapacità di deragliare dal labirinto solipsistico di una mente che si arrovella per risolvere il rompicapo, nonché di un presente nazionale troppo spesso dimentico del proprio passato sanguinoso che tracima risospinto nel futuro.

Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Del capello e del fango. Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini, Pellegrini, Cosenza 2009.
M. Dalla Gassa, D. Tomasi, Il cinema dell’Estremo Oriente. Cina, Corea del Sud, Giappone, Hong Kong, Taiwan, dagli anni Ottanta ad oggi, Utet, Torino 2010.
D. Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Recco 2004.

Sar-in-ui chu-eok. Regia: Bong Joon-ho; sceneggiatura: Bong Joon-ho, Kim Kwang-lim, Shim Sung-bo; fotografia: Kim Hyung-ku; montaggio: Kim Sun-min; interpreti: Song Kang-ho, Kim Sang-kyung, Kim Roe-ha, Song Jae-ho, Byeon Hee-bong; musiche: Iwashiro Taro; produzione: Sidus Pictures, CJ Entertainment; distribuzione:Lucky Red, Academy Two; origine: Corea del Sud; durata: 123′.

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