Prendo posto su uno dei sedili, uno di quelli senza la scritta “vietato sedersi” (così mi è stato raccomandato). Accanto a me c’è un gruppo di quattro sedili e sul sedile esterno, girata di lato, c’è Medea seduta tutta storta ed imbronciata sul bordo sinistro del suo sedile in modo da dare le spalle al passeggero seduto dritto accanto a lei. È molto magra, vestita completamente di nero, il che fa risaltare il suo pallore sofferto, i lunghi capelli (anch’essi neri) le ricadono sul viso come a proteggerla dall’aria circostante, dagli sguardi indiscreti. Ma tutti la stiamo guardando. Nonostante sia sull’autobus come tutti noi, nonostante stia seduta come noi (anche se storta) si capisce subito che non è una passeggera come le altre. Sarà il suo sguardo rassegnato, sarà il suo fare irrequieto, sarà il modo in cui si dondola leggermente sul posto e si tormenta i gomiti conserti in attesa, come tutti, che l’autobus parta. Ma l’autobus non parte. Ha il motore acceso, ma non parte. Sembrerebbe al capolinea, in attesa anche lui, e per alcuni minuti restiamo tutti lì ad aspettare.
Il motore fa vibrare i sedili piacevolmente, delicatamente, ci si potrebbe abbandonare a quello stato di quiete senza fretta se non fosse che nessuno di noi sembra in uno stato di abbandono, non lo siamo perché c’è Medea. Medea non ci lascia placidamente in balìa di quell’autobus, nessuno di noi potrebbe perdersi al tremolio che muove al ritmo serrato di incalcolabili micro-oscillazioni quell’aggregato meccanico di metallo, gomma, plastica e chissà cos’altro. L’autobus persiste molti minuti (o così paiono) nelle sue oscillazioni immobili che non conducono da nessuna parte se non sempre ed infinitamente al centro di quel micro pendolo in cui siamo tutti condensati. È un autobus, ci si aspetterebbe che si muova, ed infatti Medea improvvisamente si alza e si dirige con decisione e con la sua enorme borsa nera in spalla verso la postazione del conducente. “Quando parte questo? Eh? Quando parte?… Oh! Ti ho chiesto quando parte questo! Perché non rispondi?” Ha un accento evidentemente straniero, una voce acuta ed un tono molto più alto di quanto richiederebbero le circostanze. Noi tutti continuiamo ad osservarla, come prima, senza fare né dire assolutamente nulla.
Medea deve percorrere quel tratto di strada su quell’autobus per andare a lavoro, è il suo destino giornaliero, così incontra 20 persone diverse ogni sera e ad ognuna di loro racconta la sua storia scusandosi più e più volte del suo parlare, del suo stentato incedere verbale molto fluido, però, se si considera che la sua terra d’origine è la Romania. Ci chiede molte volte, inizialmente, se ci infastidiscano le sue chiacchiere quasi gridate e perlopiù costituite da lamentele comuni e piuttosto generaliste sui conducenti Atac, sul fatto che non si curino degli impegni altrui dato che “tanto quelli il loro bello stipendio ce l’hanno garantito, tanto quando tornano a casa hanno la loro bella cena. E che gliene importa a questi di stare qui fermi mezz’ora? Oooh! La gente deve lavorare! Non può sta a aspettà te!”. Si avvicina di volta in volta ad un passeggero diverso, gli parla, lo interroga, lo invita a rispondere per poi allontanarsene promettendo di non dire più una sola parola, salvo infrangere la promessa nell’arco di pochi secondi scusandosi della sua stessa presenza. Intanto io spero che non venga nella mia direzione, ma allo stesso tempo sono incuriosita da questa figura esile, nera e caotica che si muove su e giù come se l’autobus le stesse stretto. Cerco il suo sguardo, decido che voglio incontrarla, voglio risponderle come nessuna delle persone a cui si rivolge sull’autobus sembra intenzionata a fare (se si escludono gli imbarazzati cenni d’assenso o di diniego con il capo).
La sua storia è drammatica, ma lei la racconta con quella sorta di leggerezza di chi sorvola la superficie della propria vita cogliendone di tanto in tanto qualche frammento che in maniera altrettanto frammentaria ci rivela, senza nessun sentimento percepibile di squilibrio nei confronti degli altri passeggeri che probabilmente non hanno dovuto abbandonare il proprio paese mentre ancora frequentavano la scuola dell’obbligo, non si sono trovati in balìa di uno sconosciuto che li ha violentemente privati, in una notte terribile, del documento d’identità e di tutti i loro averi per condurli verso la scelta obbligata della prostituzione, non si sono trovati, poi, abbandonati da quello stesso uomo, costretti ad uccidere i propri figli sulla base di una morale possessiva discutibile, ma perfettamente coerente con il racconto ed il modo in cui ci viene proposto. E in fondo per quale motivo dovrebbe sentirsi su un piano diverso? Non siamo forse tutti lì sullo stesso autobus? Lei non ci conosce, così come non conoscerà le venti persone la sera successiva, non sa che vite ci trasciniamo alle spalle, anzi, forse le immagina simili alla propria e se non analoghe, paragonabili.
Finalmente l’autobus parte e le strade del Quarticciolo iniziano a fluire ai lati come pellicole di un film che si integra perfettamente con il parlare di Medea. Mentre Medea continua a raccontare, a farci ascoltare brani musicali dal cellulare, a mostrarci immagini dei suoi figli, il mio sguardo viene catturato da un barbone che si prepara a dormire sopra un cartone sul marciapiede che passa alla mia destra, poi da un gruppo di ragazzi che ride passeggiando in contromarcia sul marciapiede che scorre alla mia sinistra. Ad ogni fermata l’autobus si arresta e apre le porte scorrevoli per permettere ai passeggeri di scendere, mi domando seriamente se qualcuno deciderà di farlo o, ancora più interessante, se qualcuno deciderà di salire trovandosi così nel mezzo di quella scena del tutto comune su un autobus a Roma, ma allo stesso tempo così singolare. Nessuno scende, nessuno sale.
Potrei continuare a raccontare i dettagli del mio incontro di quella sera e comunque non avreste fra le mani che parole senza corso di validità già dall’incontro successivo. Non esistono segni a cui poter ridurre l’evento, che possano sostituire le meccaniche del suo accadere. Quello con Medea è un incontro, un vero incontro, nonostante sia un incontro programmato e parzialmente studiato a tavolino. I suoi luoghi non ci estraggono dalla prassi del vivere quotidiano: stiamo percorrendo le strade della nostra città su di un mezzo che utilizziamo (o abbiamo utilizzato) ogni giorno nella nostra vita e sappiamo quanto non sia affatto insolito imbattersi in figure come quella di Medea, felici di attaccare bottone per lamentarsi del servizio pubblico o per raccontare dettagli di fatti più o meno personali. Certo, siamo coscienti di essere lì per un motivo, di essere stati chiamati ad assistere, ma le circostanze fanno di tutto per farci dimenticare l’interruzione dal continuum esperienziale che, con le pareti di un teatro, si vorrebbe invece tentare di operare.
Non solo l’irripetibilità del suo carattere contingente ne risulta esaltato (essendo anche uno spettacolo parzialmente improvvisato), come accade per ogni evento che non sia soggetto a riproducibilità tecnica (assolutamente e giustamente vietato registrare durante la messa in scena); ma il suo essere inestricabilmente radicato nel flusso di eventi che compongono la vita di ciascuno viene sottolineato proprio dall’assenza della struttura contenitiva che accoglie la stragrande maggioranza delle rappresentazioni contemporanee: il teatro. Non ritengo casuale il fatto che la scelta del tema ricada proprio sulla rielaborazione contemporanea di una tragedia greca. L’arte greca obbediva a pratiche diverse rispetto a quelle che dominano l’astrazione con cui viene trattata l’arte contemporanea: le statue, gli affreschi greci (che oggi abitano perlopiù all’interno dei musei) all’epoca avevano funzioni ed utilità specifiche interne alla vita della città, il che rendeva la loro funzione politica (intesa qui nel suo senso etimologico di integrazione all’interno della polis ed iperconnessione alla sua stessa struttura topografica) molto evidente.
Lo stesso accade con Medea per strada, talmente ramificato all’interno delle abitudini quotidiane della città da essere difficilmente distinguibile da uno degli eventi comuni che si strutturano al suo interno: dubito che quel gruppo di ragazzi che ci è passato accanto in contromarcia e l’uomo che si apprestava ad addormentarsi sul marciapiede sapessero che quell’autobus che è passato loro accanto fosse qualcosa di diverso da uno dei numerosi autobus che popolano Roma o di essere appena entrati, come componenti insostituibili, all’interno dell’aggregato artistico e irripetibile di quella sera. In qualunque spettacolo teatrale il pubblico diviene tutt’uno con l’opera che viene rappresentata, ma in questo caso la condivisione dello spazio è più che una semplice convenzione: noi siamo allo stesso tempo pubblico, attori ed elementi di scena. Tolto il palcoscenico, tolte le sedute del pubblico (tenute sempre in ombra e nettamente separate dallo spazio di rappresentazione), tolta la scenografia artificiale, tolte le quinte, tolto il sipario, tolte persino le mura del teatro che dovrebbe contenere la messa in scena cosa resta? Resta l’evento che si aggrega e si disgrega nel suo accadere.
Le postazioni da cui assistere e contemporaneamente far parte dell’opera sono volutamente scomode come possono esserlo dei comuni sedili di un autobus. Spesso è necessario girarsi e contorcersi in posizioni innaturali per seguire i percorsi repentini di Medea, ma questo è l’intento dichiarato dello spettacolo: far sentire lo spettatore respinto dallo stesso posto che dovrebbe ospitarlo, rendere la storia di Medea difficile da ricevere, in qualunque senso. Del resto anche Medea dichiara ad alta voce di sentirsi in difetto per la sua stessa presenza, di sentirsi in dovere di giustificare lo spazio che occupa, l’area di terreno italiano che occupano le suole delle sue scarpe ad ogni passo. Non è comoda in nessun luogo dell’autobus e si sposta continuamente, non si sente a suo agio nei suoi stessi panni e si cambia d’abito per ben tre volte. Solo alla fine, quando pare percepire una differenza incolmabile fra la sua posizione e quella degli altri passeggeri, abbandona l’autobus senza guardarsi alle spalle.
Medea per strada. Ideazione e regia: Gianpiero Alighiero Borgia; drammaturgia: Fabrizio Sinisi, Elena Cotugno; allestimento scenico: Filippo Sarcinelli; progetto luci: Pasquale Dinterprete: Elena Cotugno.