Regista “di mezzo”, sin da quel suo primo lungometraggio dal titolo profetico – Terra di mezzo (1996), appunto – Matteo Garrone, oggetto del recente libro curato da Christian Uva per Marsilio, è uno degli autori italiani del nuovo millennio dalla forma più riconoscibile. Eppure la forza di questa forma risiede in un apparente «paradosso estetico» – come, citando Bazin, lo definisce Paolo Bertetto nella presentazione –: «Dare una configurazione all’informe e fare dell’informe un programma estetico» (Uva 2020, p. 7). È infatti in una “terra di mezzo” che tutto il cinema dell’autore romano trova il proprio orizzonte d’elezione, come sostiene Christian Uva nel suo saggio d’apertura (pp. 9-25). Terra di mezzo estetica – «tra vero e falso, realismo e artificio, bellezza e bruttezza» – ed etica – «tra virtù e abiezione, moralità e immoralità, decenza e indecenza»; ma anche esistenziale – «tra giovinezza e vecchiaia, età infantile e condizione adulta, vita e morte» –, e identitaria «tra umanità e animalità»: si pensi alla complessa articolazione tra «soggettive umane sugli animali e soggettive animali sugli umani» che sin da L’imbalsamatore (2002) contribuisce a creare quella fluidità identitaria tipica dei personaggi garroniani. Ma pensiamo anche al rapporto simbiotico tra la pulce e il re in Il racconto dei racconti (2015), alle carogne di Dogman (2018), o all’uso insistito dello zoomorfismo in Pinocchio (2019).
Soprattutto, è una “forma di mezzo”, quella di Garrone. Il suo sguardo tiene sempre insieme costruzione formale e invisibilità della forma (aspetto, questo dell’invisibilità, tematizzato poi nelle sue due ultime opere su cui torneremo in chiusura). Da una parte un disegno formale molto forte, rigoroso, che testimonia la presenza ingombrante dell’autore e, d’altra parte, la sua invisibilità. Da un lato cioè l’utilizzo sistematico della camera a spalla guidata dallo stesso regista e del piano-sequenza (che diventa progressivamente un principio sempre più strutturante nella sua retorica cinematografica), quindi una macchina da presa in movimento e in continuità come il segno più evidente di uno stile da reportage che circonda gli attori da tutti i lati possibili in un pedinamento accerchiante che testimonia il suo voler restare nella scena, dentro le cose, senza staccare freneticamente interrompendo l’azione con tagli di montaggio e punti di vista ridondanti. Dall’altra Garrone usa i campi lunghi (si pensi alla pompa di benzina dismessa o ai campi contaminati dai rifiuti tossici in Gomorra), utilizzando i long takes per far emergere, accanto ai personaggi, l’altro protagonista dei film che è il paesaggio, su cui si esercita lo sguardo sul reale di Garrone.
Da una parte quindi l’«happening con la realtà», ovvero la forma naturale della realtà colta nella sua flagranza, in opere solo apparentemente “più documentarie” come i primi Terra di mezzo e Ospiti in cui comunque la realtà è sempre intesa come mezzo, mai come fine, dall’altra la messa in quadro di quella realtà, tanto più significativa per un regista che viene dalla pittura e che ha una visione figurativa di ogni suo film: «Il punto di partenza e di arrivo è sempre l’immagine» (ivi, p. 14) (basti pensare alla macchina con il mondo sul tetto di Estate romana, «prima vera folgorazione visiva del cinema di Garrone» in cui «si condensa tutta la precarietà e l’instabilità dell’universo umano raccontato nel film», p. 15). Questa contraddizione tra forma e invisibilità della forma si traduce in una pratica di regia che opera continuamente attraverso procedimenti di sottrazione, lavorando a eliminare quanto di enfatico o già visto possa annidarsi in una storia a favore di un’autenticità che diventa etica perché è prima di tutto estetica, tale che è sempre riconoscibile un rapporto nelle opere di Garrone tra la forma e il contenuto, tra la forma e i suoi personaggi (esemplare, da questo punto di vista, il lavoro di scarnificazione sul personaggio e sul film stesso in un’opera come Primo amore).
Nel riflettere su un autore così complesso che si caratterizza nel crocevia di istanze contrapposte, il volume curato da Christian Uva ha il pregio di tener conto dell’intera produzione garroniana, dai primi documentari agli ultimi prodotti pubblicitari (lo spot di Dior), in tutte le sue fasi, dalle avventure produttive all’accoglienza della critica. Ogni saggio, disarticolando il film ad esso dedicato nell’analisi di sequenze e inquadrature, affronta un tema: la crisi oggi del concetto di ospitalità così caro alla tradizione culturale occidentale (biblica e greco-romana) in Ospiti (Perniola), l’elaborazione dell’emozione primaria del disgusto in quel «film ibrido» che è L’imbalsamatore (Carocci) in cui le implicazioni sentimentali di tre personaggi amabili e ripugnanti allo stesso tempo, vengono raccontate attraverso la lente deformante del grottesco capace di rendere la storia allo stesso tempo mortifera e vitale. Ancora, la relazione vittima-carnefice in Primo amore (Marini-Maio), l’analisi della figura femminile e adolescenziale in Gomorra (Renga), il ruolo intermediale svolto ieri dal cinema e oggi dalla televisione in Reality (Garofalo), i desideri irriducibili tradotti in ossessione dei personaggi di Il racconto dei racconti (Salvatore), l’«estetica del brutto» di Dogman (Zagarrio), e lo smarcamento del personaggio di Pinocchio dalla tradizione letteraria e culturale italiana nell’omonimo film, nel saggio di Luca Mazzei che chiude il volume.
Ogni opera di Garrone è un microcosmo in se concluso, in cui neanche la scelta del genere riesce a fare da collante tra una pellicola e l’altra perché Garrone i generi li esplora indagandoli tutti: Ospiti solo apparentemente tratta dell’immigrazione, è più una «favola documentaria» (p. 32) che racconta l’amicizia tra personaggi che appartengono a ceti diversi; il morboso triangolo d’amore de L’imbalsamatore sembra arrivare dritto dai grandi noir americani del cinema classico, ma a ben vedere è più che altro un «noir alla rovescia» – come nota giustamente Enrico Carocci – che racconta «le dinamiche di un desiderio trasgressivo, né innocente, né colpevole» (p. 54); la passione patologica raccontata in Primo amore è alla base di un possibile melodramma thriller-horror, che però riesce a sottrarsi all’impianto melodrammatico perché è proprio la sottrazione il principio organizzativo della storia e forma filmica di un film anoressico non solo per la trama ma proprio come film e che, con i suoi processi di depurazione, lavorazione a astrazione restituisce, in maniera sperimentale e allegorica, secondo l’autrice, «l’immagine trans-storica della memoria dell’Olocausto» (p. 74). Ancora, Reality, come dichiara lo stesso regista, «doveva essere una commedia, ma poi è diventato molto tragico» (Garrone 2016, p. 29), nella sua tensione tra «realismo della messa in scena e costruzione dell’universo onirico entro cui agiscono i personaggi» (Uva 2020, p. 96); Gomorra, con i suoi intrecci criminali che potrebbero essere la piattaforma di un gangster-movie all’italiana popolare e sanguigno, propone invece uno sguardo antropologico sulla malavita configurandosi come un’opera che permette di essere indagata, anche, da una prospettiva dei gender studies come, in maniera originale, fa nel suo saggio Dana Renga analizzando il personaggio di Maria per dimostrare l’impossibilità del woman’s film nel contesto di mafia, e la storia di Marco e Ciro attraverso la prospettiva del buddy film in cui personaggi maschili che rifiutano di seguire gli ordini determinano il loro destino tragico.
In questa ibridazione di generi, ogni volta nelle opere di Garrone il lavoro del film consiste nello scardinare la narrazione da ogni stereotipo, da ogni retorica di cinema di genere, approdando a qualcosa di nuovo, di inedito, collocandosi in una questa zona sospesa, di mezzo, che ne rende riconoscibile la firma ma difficile la collocazione. Unico elemento che sembra, fin qui, poter accumunare tutte le opere è il loro ispirarsi a un “dato di realtà”, quando non proprio un fatto di cronaca: la trilogia romana tratta di prostituzione e immigrazione nell’Italia degli anni ‘90, L’imbalsamatore la storia del nano della stazione Termini, Primo amore è ispirato al libro autobiografico Fattacci sul cacciatore di anoressiche, Gomorra è tratto dal romanzo-inchiesta di Saviano, Reality guarda al programma televisivo del Grande Fratello. E poi arriva Il racconto dei racconti tratto invece dalla raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti di Basile, ma come spiega lo stesso regista:
“L’imbalsamatore”, “Reality” o lo stesso “Gomorra” sono anche loro in fondo delle “fiabe nere”, ma mentre lì partivo dall’osservazione della realtà per trasfigurarla, poi, in una dimensione fantastica, ne Il racconto dei racconti faccio esattamente il percorso inverso. Per la prima volta muovo da alcuni racconti magici, fantastici, e cerco di portarli in una dimensione di realtà (Garrone 2016, p. 19).
In attesa del più impegnativo Pinocchio, come in un «esercizio di riscaldamento» a detta dello stesso regista, arriva Dogman, in cui di nuovo Garrone parte da un dato di cronaca (l’efferato omicidio del canaro della Magliana) per fondere indifferentemente realtà e fantasia, la stravaganza del fiabesco e la fattualità del reale che in nuce confluiscono nel processo creativo di ogni suo film, arrivando a tematizzare quell’invisibilità stilistica a cui si accennava prima, in quel finale, straordinario, con cui l’autore si disfa definitivamente di qualunque intento cronachistico per liberare la forma. È la scena in cui Marcello ha appena finito di torturare Simone, porta il suo cadavere sulla spiaggia e gli dà fuoco in un tappeto, sente le voci dei suoi compagni e si avvicina al campo da calcio per mostrare agli amici cosa è stato in grado di fare, ma quando poi ritorna al campo trascinandosi sulle spalle il cadavere di Simone come trofeo, le voci dei compagni sono scomparse e il campo da calcio rimasto vuoto.
Quest’immagine, questo finale, appartiene così soltanto al film, alla storia del film, non più a quella atroce dell’evento reale. L’azione si converte in inazione, in sospensione allucinatoria della prassi che rende quella verità (atroce) non verosimile, portando all’indiscernibilità di realtà e finzione, soggettivo e oggettivo: non sappiamo se le voci che Marcello sente sono reali, se sta immaginando adesso nel finale o prima, se ha ucciso davvero Simone (un po’ come nel finale di Reality non sapevamo se Luciano era davvero riuscito a intrufolarsi nella casa del Grande Fratello). Solo così l’azione (del delitto) può assumere la valenza del gesto (cinematografico) di raccontarlo.
Infine, e in maniera speculare rispetto al tema della (in)visibilità, in Pinocchio Garrone parte dal testo di Collodi per aprirsi al cinema internazionale ma poi scarta dall’idea di fondo del testo collodiano, dal racconto di formazione del bambino che non vuole diventare adulto. Come nota Luca Mazzei, Pinocchio nel film di Garrone è più «un bambino vero e proprio che un pezzo di legno» (Uva 2020, p. 156), animato da esigenze di libertà più che da una sua riluttanza all’educazione, «personaggio curioso del mondo prima che ribelle, macchina fatta per imparare […] prima che semplice burattino» (p. 158). In questo Pinocchio – creatura per eccellenza “di mezzo”, uno e bino – «è la vista, intesa qui come apprensione al mondo» ad assumere il ruolo di agente formativo, una funzione endogena «racchiusa negli occhi di Pinocchio, l’unica parte cioè del burattino a non esser fatta di legno» (ibidem).
Gli «occhiacci di legno» del testo collodiano diventano «il segno dell’umano che resiste alla favola» stravolgendone la morale: Pinocchio rifiuta l’insegnamento del padre, per correre da solo nel mondo alla ricerca di nuovi modelli e il mestiere lo impara non dal padre ma dal pecoraio Giangio (episodio piuttosto marginale nel romanzo), osservando il suo maestro, in una sequenza quasi muta, e imitandone i gesti: «La favola quindi nel Pinocchio di Garrone comincia, potremmo dire, non dove iniziano le mani ma dove l’occhio si appoggia» (p. 159). Ed è infatti, anche quest’ultima, una fiaba visiva, che nasce da un’attrazione figurativa, per l’immagine: «Vengo dalla pittura, la mia formazione è legata all’arte figurativa e visiva» (Zonta 2017, p. 200) Regista cruciale nel recente cinema italiano più che del neo-neorealismo, in ogni opera di Garrone il racconto scaturisce sempre dalle immagini, nella convinzione che solo da queste possono nascere le storie, solo trovando l’immagine giusta è possibile raccontare qualcosa di vero, di reale.
Riferimenti bibliografici
M. Garrone, Le fiabe sono vere. Conversazione con Italo Moscati, Castelvecchi, Roma 2016.
D. Zonta, L’invenzione del reale. Conversazioni su un altro cinema, Contrasto, Roma 2017.
Christian Uva, a cura di, Matteo Garrone, Marsilio, Venezia 2020.