Un inizio, un buon inizio può dire già tanto. Siamo a Toronto, in Canada. Una giovane insegnante di scrittura creativa sta per entrare in un’aula universitaria per cominciare la sua lezione, quando una voce alle sue spalle ne interrompe i pensieri: “Mara!” È Matt, un amico dei tempi del college. Riemerge dal passato e, come sapremo presto, abita a New York ed è diventato uno scrittore di discreto successo. Non è ancora il momento, però, per le confidenze. Ancora assorta, si rivolge agli studenti: “La prosa segue leggi diverse da quelle della poesia: quelle della grammatica”. Sorride per la battuta, ma si affretta ad aggiungere che la lettura della poesia può sensibilizzare alla lettura della prosa: con maggiore consapevolezza, con maggiore attenzione. È un prologo. E dallo schermo nero su cui si stagliano i loro nomi ha inizio il loro vero primo dialogo, prima per le strade, poi in un bar.

Quando comincio a vedere un film senza altre informazioni se non un titolo e l’implicita referenza di una piattaforma accreditata – in questo caso MUBI – qualche volta so ben poco: è il caso di Matt and Mara del regista canadese Kazik Radwanski, quarto lungometraggio di un giovane autore. Come spesso capita, la mia visione intercetta presto il déjà vu, attivando la memoria cinefila, un po’ a ingresso casuale. Così, la prima fuga laterale mi riporta al recente Le Cours de la vie di Frédéric Sojcher (2023) dove in una scuola di cinema di Tolosa si ritrovano Noémie e Vincent per una masterclass sulla sceneggiatura che è anche un’occasione per riflettere sulle loro vite, tanti anni dopo il loro amore di gioventù. Qui, invece, Matt e Mara (Matt Johnson e Deragh Campbell) riprendono una conversazione interrotta solo qualche anno prima: erano due amici inseparabili che si sono per così dire lasciati, senza alcuna spiegazione, e che ora si ritrovano.

Di Matt non sappiamo poi tanto, di Mara vediamo certamente di più: è sposata con Samir, un musicista, e hanno una figlia di due anni. Le loro vite sembrano scorrere parallelamente senza una vera intesa: il suo mondo fatto di parole non incontra quella musica che Samir condivide piuttosto con i suoi amici. Al contrario – anche se in modo spesso conflittuale – c’è un filo che la lega in modo evidente a Matt e che sembra scavalcare quell’intervallo. Siamo forse dalle parti del mumblecore, un po’ come nei film di Joe Swanberg, di Noah Baumbach, di Greta Gerwig: noi li pediniamo mentre rimuginano instancabilmente sulle loro vite.

Il film va avanti e la loro complicità, riattivata, li porta un po’ ovunque: a giocare, a farsi scattare foto, a frequentare feste, a essere scambiati per una coppia.  C’è qualcosa nell’aria e all’improvviso accade. Siamo nell’appartamento di Matt, lui è andato a fare una doccia e lei lo aspetta, seduta sul letto. Tocca degli oggetti, il tempo scorre. E infine abbozza un gesto: inizia a sfilarsi il maglione e si blocca nel momento in cui il suo viso è come incorniciato da un cappuccio. Resta immobile per un istante, a guardarsi allo specchio. Si riveste, apre la porta e scende precipitosamente per le scale.

L’amore il pomeriggio di Éric Rohmer

È un’immagine già vista e in una situazione identica: è L’amore il pomeriggio di Eric Rohmer (1972), sesto dei Racconti Morali. E, d’un tratto, quest’immagine illumina retroattivamente il film che sto vedendo, eclissando tutte le altre associazioni d’idee. Il protagonista del film di Rohmer, Frédéric (Bernard Verlay), interrompe lo stesso movimento in una situazione ancora più esplicita: il corteggiamento di un’amica venuta dal passato, Chloé, è giunto fino all’imminente compimento e lui si sottrae con una fuga precipitosa. La stessa inquadratura sarebbe di per sé significativa: la forte somiglianza delle due trame è l’ulteriore conferma di una corrispondenza ricercata e poi dichiarata. Ovviamente sono storie diverse costruite su personaggi molto distanti da quelli rohmeriani, ma questo non impedisce di cogliere tante tracce retrospettive: l’insistenza sullo shopping e sui vestiti, la forza dell’affabulazione. Mi torna in mente un caso molto simile, nel gioco di citazioni di Aki Kaurismaki da Robert Bresson: Ho affittato un killer (1990) non soltanto rispettava l’idea centrale de Il diavolo probabilmente (1977) – un aspirante suicida assolda qualcuno per uccidersi – ma ne riprendeva alla lettera brevi significative inquadrature. 

Se qualcosa si ripete, da Rohmer a Radwanski, anche le variazioni non vanno trascurate. L’inversione dei ruoli – da un’esplicita seduttrice (Chloé) a un seduttore più implicito (Matt) – ci lascia fantasticare su un autoremake rohmeriano alla luce di quasi tutta la sua filmografia posteriore che sottrae la centralità alle figure maschili per attribuirla a quelle femminili. Un altro rovesciamento riguarda proprio il doppio fermo immagine di Mara e di Frédéric nel loro gesto sospeso: lo spettatore di Rohmer conosce quella posa perché l’ha già vista all’inizio del film, quello di Radwanski ne coglie solo a posteriori il senso che si palesa nella sequenza successiva. In entrambi i casi si tratta di un gesto ludico, rivolto alle figlie, un richiamo a un fuoricampo coniugale. Ma la differenza più importante sta nella collocazione temporale: la fuga di Frédéric precede immediatamente il finale, quella di Mara porterà alla stessa conclusione solo dopo una lunga diversione e un’intimità con Matt ancora sfiorata e definitivamente negata.

Mara torna a casa nel pomeriggio a un’ora insolita: Samir sta ascoltando con le cuffie una sua composizione. Anche Frédéric era rientrato da Hélène, fuori dagli orari abituali. Un’intimità ritrovata, in entrambi i casi. Mara prende le cuffie, si sdraia per terra e s’immerge nell’ascolto mentre la sua mano cerca quella di Samir. Stacco. Ora è sola con una ricevuta tra le mani: uno scontrino di una lavanderia intestato a Matt e Mara. Dalla libreria prende il romanzo di Matt che lui le ha regalato e legge ancora una volta la dedica. Mette il foglio dentro il libro e lo ripone sullo scaffale: sulla destra è ben visibile il saggio su Rohmer di Colin G. Crisp (con un invito al gioco per gli happy few che conoscono la foto di copertina) e su questa immagine iniziano a scorrere i titoli di coda.

Qualche anno fa, nel 2007, L’amore il pomeriggio aveva già ispirato un remake americano: Manuale d’infedeltà per uomini sposati di Chris Rock. Probabilmente l’unico remake dichiarato da un film di Rohmer, ma che non può in alcun modo bussare alla porta di un club molto più esclusivo, gestito da una strana comunità estremamente variegata per collocazione anagrafica, geografica e culturale: i rohmeriani. Più difficile è circoscrivere un canone di registi o di opere. Quasi tutti, oggi, fanno i nomi di Emmanuel Mouret, di Mia Hansen-Løve, di Hong Sang-soo. O magari di un film come Trois aventures de Brooke di Yuan Qing. Per l’atmosfera, i dialoghi, le situazioni? O per tutti questi ingredienti in proporzioni variabili? Più indietro nel tempo qualcuno ha suggerito una formula fortunata – “tra metafisica e pettegolezzo” – che non sempre si attaglia a un repertorio in espansione. E la citazione? In anni lontani Arthur Penn propose un intrigante omaggio rovesciato in Bersaglio di notte (1975). Oggi, con Matt and Mara, siamo all’ultima variazione sul tema, con un gioco non dichiarato che si spinge oltre, sulla strada dell’amore e del caso, nella forma più nascosta della caccia al tesoro.

Riferimenti bibliografici
C.G. Crisp, Eric Rohmer, realist and moralist, Indiana University Press, Indiana 1988.

Matt and Mara. Regia: Kazik Radwanski, Sceneggiatura: Samantha Chater, Kazik Radwanski; fotografia: Nikolay Michaylov; montaggio: Ajla Odobasic; interpreti: Deragh Campbell, Matt Johnson, Mounir Al Shami; produzione: Dan Montgomery, Candice Napoleone; origine: Canada; durata: 80’; anno: 2024.

Tags     Eric Rohmer, mubi, mumblecore
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