Nel 2016 Marco Bellocchio organizza un pranzo di famiglia al Circolo dell’Unione di Piacenza. Ci sono i fratelli maggiori sopravvissuti, Piergiorgio e Alberto, le sorelle, Letizia e Maria Luisa, mogli, figli, nipoti. Vediamo la tavola che si apparecchia, i volti dei fratelli e delle sorelle di quel giorno e le loro foto del passato. C’è come il levarsi di un sipario, un che di teatrale, che ritorna in molti film di Bellocchio. Ma insieme si avverte un senso conviviale, privato, dissimulato: qualcosa aleggia nell’aria, un non detto, che però viene subito pronunciato dalla voce del regista che racconta in prima persona singolare. Il film sarà però una storia raccontata da una persona plurale: le voci di famiglia, e non solo, saranno interpellate e interverranno su ciò che si rivela man mano l’interdetto, il rimosso di una famiglia complicata, in qualche modo ossessionata, immersa nelle ombre. «L’Inferno è amico delle storie», per dirla con una frase di Charles Baxter (Baxter 1997, p. 133): ed è una storia dove emerge il lato in ombra di un inferno familiare, ciò che proviene dal fondo del film, accompagnato però dalla voce pacata, dubitativa, a volte ironica di Bellocchio, pur trattandosi della sua “famiglia da manicomio”. Un manicomio della borghesia piacentina. Dove i traumi non si elaboravano, ma erano scissi tra l’anticlericalismo del padre e una quasi delirante religiosità della madre.

Una madre ipercattolica che crede alle fiamme dell’inferno, un fratello, Paolo, malato di mente che urla e bestemmia continuamente, una sorella sordomuta. Ma ciò che subito dichiara Bellocchio è che l’idea di fare un film su questa sua famiglia si trasforma nella decisione di indagare sul punto più oscuro e doloroso con cui in fondo nessuno di loro ha fatto i conti: il suicidio di Camillo, fratello gemello di Marco, avvenuto in un anno cruciale, nel dicembre 1968, all’età di 29 anni. Con una sorta di empatia e spietatezza insieme verso le ragioni di tutti rispetto a quel gesto (familiari e amici chiamati a suscitare la memoria personale di un fantasma), il cineasta contemporaneo forse più lucido e libero interroga gli altri, la famiglia, i figli (Elena e Piergiorgio sui cui primi piani con grande sensibilità si sofferma), gli amici di Camillo, la sorella della fidanzata, e soprattutto si interroga, rimettendo in campo e in questione il suo stesso cinema, le sue pieghe nascoste e disseminate, le sue piaghe scoperte. Ha quindi luogo una specie di sonata di fantasmi che procede lungo un doppio asse, che è anche un doppio ritratto: non potrebbe essere altrimenti, visto che il soggetto-oggetto del film è un altro “oscuro”, il fratello gemello restato nell’ombra. Come fossimo dentro

le potenze mitopoietiche del sistema di autocura […], rappresentate da gli Angeli buoni e cattivi di William Blake, che si contendono un bambino terrorizzato. L’angelo cattivo è incatenato alla sua oscurità fiammeggiante e i suoi occhi ciechi rappresentano la trance ottundente della dissociazione traumatica; l’angelo buono sembra avergli strappato il bambino […]. Entrambi gli angeli rappresentano il lato protettivo e/o persecutorio di un sistema difensivo in forma demonica, e tengono il bambino in tensione fra due antinomie archetipiche: le torture dell’inferno e la benedizione e l’oblio del paradiso (Kalshed 2013, pp. 31-32).

Eppure il destino dei due gemelli sarà quello di liberarsi di tali antinomie metafisiche, rivestendo entrambi laicamente l’archetipo di “angelo ribelle”, ma in modo diverso. È straordinario il modo in cui Bellocchio affonda nelle foto di Camillo, “angelo caduto”, nelle sue posture, nei suoi sorrisi da cui trapela una inquieta e paradossale coniugazione di malinconia e spensieratezza, e insieme nei filmini di famiglia in cui si raddoppia il suo essere allo stesso tempo vivo e spettrale. Eppure questa elaborazione del lutto, questo ridare vita al fantasma-gemello (potenza di cui si fa carico ogni volta il cinema) attraversa gran parte dei film di Bellocchio e qui riemerge facendo irrompere lampi di immagini filmiche, come una chiave segreta che ci viene donata senza pudore ma che pure accresce il mistero implicato in quelle immagini.

A cominciare da Gli occhi, la bocca (1982) dove, come in uno specchio oscuro, un attore torna in famiglia a rispecchiarsi nel fratello gemello, morto suicida, mentre tutta la famiglia vuol far credere alla madre che si sia trattato di un incidente, come in Marx può aspettare raccontano le due sorelle. Anche la frase scelta come titolo del documentario è pronunciata nello stesso film in un dialogo tra i gemelli, in cui uno invita l’altro a leggere Il Capitale, e Pippo, il fratello suicida, risponde con le parole del titolo, come a dire che è più importante per lui risolvere la sua questione esistenziale. I due gemelli in quel film erano interpretati da Lou Castel, e vedendo qui le foto di Camillo la somiglianza è impressionante.

Ma, come coltelli che squarciano la ricostruzione del gesto di quel gemello “oscuro”, Bellocchio procede a lacerare la storia memoriale con inserti che si reimmettono, brucianti, nel “lessico familiare”, nelle confessioni dei fratelli, nell’affiorare della memoria, nel giustificarsi, nelle amnesie, nell’ammettere di non aver capito, di non aver saputo corrispondere al disagio profondo di Camillo. Come dei riconoscimenti che in qualche modo risarciscono e liberano la presenza del gemello nel fare artistico di Bellocchio, e spostano di visuale i misconoscimenti che pure nel film si affastellano.

Lancinanti le immagini de I pugni in tasca (1965): il fervorino funebre del prete sulla salma materna (nella cui voce, come gli scrive la madre, si riconosce quella di Bellocchio) e il volto della madre uccisa nella bara (tra le prime immagini di Marx può aspettare non a caso si slitta dal volto di una foto della madre verso i volti dei due gemelli bambini, che scrutano stupiti l’incedere della storia, il discorso della dichiarazione di guerra di Mussolini). Ancora il volto gigantesco della madre in odore di santità con il suo ambiguo, estatico sorriso in L’ora di religione – Il sorriso di mia madre (2002) verso cui si dirige il figlio ateo (Castellitto), e quindi l’abbraccio disperato al fratello rinchiuso in manicomio dopo il suo urlo bestemmiatore, con il riferimento a Paolo, il fratello pazzo di Bellocchio. E la mirabile scena finale di Salto nel vuoto (1980), dopo il suicidio del magistrato (Piccoli), in cui un gruppo di bambini in sottanina bianca, come piccoli fantasmi irrompono nella stanza vuota. In fondo anche i film recenti del “ciclo” girato a Bobbio, il dittico Sorelle (2006) e Sorelle mai (2010), ma soprattutto Sangue del mio sangue (2015), contengono un nucleo segreto che rimanda all’ombra di Camillo: l’annegamento filmato nel fiume Trebbia di Gianni Schicchi (grande amico di Camillo) e il misterioso suicidio nelle stesse acque fluviali di Fabrizio, fratello gemello di Federico, uomo d’armi nella Bobbio del XVII secolo, sedotto da una donna accusata di stregoneria.

Insomma da Marx può aspettare traspare come quel gemello oscuro, il suo spettro suicida, sia stato metabolizzato dal fare cinema di Bellocchio con l’unico antidoto possibile: la propria creatività. E in fondo  quella lettera (spedita o meno, perduta, dimenticata, distrutta?) di Camillo in cui chiede a Marco di farlo lavorare nel cinema (evidentemente roso da un sentimento di fallimento, pur nella sua “sistemazione” all’Isef ) e che forse non ebbe risposta, o una risposta evasiva, trova una risposta significativa nella sua presenza all’interno delle immagini del regista, dove affiora rielaborata tra mozioni consce o inconsce.

Allo stesso modo questo film ci appare anche come un riflesso di due bellissimi documentari d’archivio di Bellocchio, Sogni infranti (1995) e La religione della storia (1998), il primo sul terrorismo e il secondo sulla religione di stato. Ciò perché, come sempre nell’opera del regista, dinamiche familiari, riflessione sulla borghesia italiana, esplorazioni sui grumi inconsci, cadenze metaforiche venate di ironia acre, ma soprattutto senso del tragico-melodrammatico, si intrecciano anche qui a una storia che non ha paura di guardare, quasi con serenità quelle fiamme dell’inferno che inducevano al terrore la madre. Quella madre che – come dice lo psicoanalista Cancrini nel film – non era capace di riconoscere dopo il parto suo figlio, il suo “angelo” Camillo, venuto al mondo dopo Marco con il rischio di soffocare e che lei fa battezzare tre volte, temendo che morendo possa finire nel limbo.

Camillo ci appare anche come una figura in assonanza con le predilezioni melodrammatiche e teatrali di Bellocchio, a partire dal Gabbiano di Čhecov (girato nel 1977 per la Tv) di cui appare un primissimo piano della Laura Betti-Arkadina, madre anaffettiva e divorante. E il suo gesto estremo viene messo in assonanza con quello dell’”amico fragile” Tenco, oltre che con quello del Treplev čhecoviano. Del resto ogni tanto nel film appaiono i quadri, quasi fauve, dipinti da Bellocchio, e in uno di questi si notano in basso due figurette bambine vestite come Rigoletto, accanto alla scritta «Gemelli Bellocchio».

Eppure ciò che è miracoloso nel film è il dolore leggero, quasi stoico, con cui Bellocchio ricostruisce la storia del fratello gemello. I fratelli intellettuali e impegnati politicamente, Piergiorgio (scrittore, critico letterario e fondatore dei “Quaderni Piacentini”), Alberto (ex sindacalista ma anche lui poeta), filmati nel loro profluvio di ricordi, le due sorelle riprese con una tenerezza estrema. A partire dalla sorella sordomuta, che dice di voler andare in Paradiso non per vedere il Padreterno, ma per riabbracciare i fratelli e i genitori, e tuttavia osserva che tra i miliardi di anime sarà difficile incontrarli. Questa stessa sorella descrive la scena in cui la madre entra nella palestra dove Camillo pende impiccato: la madre spalanca le braccia come fosse crocefissa, quindi si spoglia strappandosi le vesti, gridando: “E io non muoio!”. Una “scena madre” appunto, che contiene in sé quella teatralità melodrammatica ma insieme filtrata da un distacco critico che Bellocchio, nato in terre verdiane, immette spesso nei suoi film (sempre più depurata dalla frenesia sarcastica delle sue prime opere).

E i suoi film, come dice il geniale e compianto gesuita, padre Virgilio Fantuzzi (critico cinematografico di “La civiltà cattolica”), in un dialogo con Bellocchio, possono apparirci come altrettante stazioni di una sorta di Via Crucis tutta laica, dipinta in modo espressionista, e osservata, si può aggiungere, “di sbieco”, obliquamente, quasi con una lente deformante. “Lo schermo è una grata e tu ti confessi, ma non hai bisogno di assoluzione” dice pressappoco padre Fantuzzi, e lo congeda. Allora Marco si avvia nella nebbiolina serale su un ponte di Bobbio, incrociando in senso opposto un giovane con la maglietta sportiva su cui compare il marchio dell’Isef. Un vero e proprio spettro filmico. Qui è come se Bellocchio sollevasse la croce dalle spalle di Camillo per accompagnarlo in un tratto di strada, verso quell’invisibile che solo il cinema può filmare, su «una carta che brucia», come diceva Pasolini, e allora le fiamme dell’“inferno di famiglia” diventano rigenerative.

Riferimenti bibliografici
C. Baxter, Burning Down the House. Essays on Fiction, Graywolf, St. Paul 1997.
D. Kalsched, Il trauma e l’anima, Moretti & Vitali, Bergamo 2013.

Marx può aspettare. Regia: Marco Bellocchio; sceneggiatura: Marco Bellocchio; fotografia: Michele Cherchi Palmieri, Paolo Ferrari; montaggio: Francesca Calvelli; interpreti: la famiglia Bellocchio; musiche: Ezio Bosso; produzione: Kavac Film, Rai Cinema, Tenderstories; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia; anno: 2021; durata: 96’.

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