Tracciare il cammino di un artista è un esercizio pericoloso e delicato, soprattutto quando la soglia che separa l’arte dalla vita è impercettibile. I confini tra il vivere e il creare si assottigliano, sfumano, si perdono e si unificano; quel che resta è un corpo inseparabile dalla propria ombra. L’arte di Mark Rothko si rivela nella sospensione di queste due figure, nella naturale e inevitabile manifestazione di una forma di vita che insorge nella potenza dell’atto creativo. La congiunzione delle due dimensioni, apparentemente informe e inafferrabile, è ciò che meglio si avvicina all’esperienza creativa dell’artista, che vede nell’opera une promesse de vie. I quadri di Rothko sono intimamente forgiate dall’esperienza della vita e la sola questione è sempre stata: come rivelarla. Le tele, potenti nella loro semplicità, riflettono il motore passionale, l’ex-per-ientia, un andare attraverso della forma e nella forma per parlare il linguaggio della vita.

La Fondation Louis Vuitton di Parigi ospita la prima retrospettiva dell’artista, riunendo più di 115 opere provenienti da prestigiose collezioni istituzionali, tra le quali una privata concessa per volontà della famiglia di Rothko. Seguendo un iter cronologico, la mostra ripercorre la carriera del pittore dai suoi primi dipinti figurativi, di cui si conosce ben poco, fino a quelli astratti. Immerso in una danza di geometrie e austerità, lo spettatore è accompagnato in un viaggio dove incanto e disincanto, speranza e malinconia sono distillati e concentrati nei corpi di luce che sembrano fuoriuscire dalle tele monumentali. Non sarà difficile, alla fine del percorso, ritrovare dietro la maschera di colori di Rothko il proprio volto.

La mostra si apre con una serie di dipinti degli anni trenta che raffigurano scene intime e paesaggi urbani, prima di lasciare spazio a un repertorio ispirato ai miti antichi e al surrealismo, attraverso il quale si esprime la dimensione tragica della condizione umana durante la guerra. Rothko ha avuto bisogno di tempo, quasi vent’anni, per riuscire a trovare la sua voce e il suo stile: i dipinti figurativi, se da un lato riflettono una forte carica emozionale, dall’altro lato mancano della forza rappresentativa che il pittore troverà nell’espressionismo astratto. A partire dal 1946 Rothko compie una svolta decisiva verso l’astrazione, la cui prima fase è rappresentata dai Multiformes – dove masse di colore sospese tendono a bilanciarsi tra loro – per poi passare gradualmente alle opere degli anni Cinquanta, cosiddette classiche. La pittura assume una diversa organizzazione spaziale: le forme rettangolari sono sovrapposte in un ritmo binario o ternario, caratterizzato dai toni del giallo, rosso, ocra, arancio, ma anche del blu o bianco. Se si osserva No.1 (1962) si può facilmente percepire come il gioco apparentemente semplice e austero dei tre rettangoli è sospeso in un equilibrio di tonalità e intensità: alcuni colori sembrano liberarsi dalla tela, altri ancorarsi ad essa. Tutta la luminosità del dipinto è racchiusa nel bianco che, come una misteriosa forza luminosa, sembra trascinarci al di là del quadro, in un luogo che ci interpella direttamente.  

Rothko ha voluto creare opere d’arte capaci di trasmettere una carica irresistibile di potere spirituale: lo stile astratto, da un lato, ha innalzato la pittura a un alto grado di sperimentazione di luci e colori, dall’altro lato, ha preservato quel rapporto aperto, accessibile tra lo spettatore e il quadro. L’espressionismo astratto di Rothko, per quanto tale, mantiene un rapporto diretto – e figurativo – con il mondo. Nel 1947 scrive: «Penso ai miei dipinti come a opere teatrali: le forme che appaiono sono gli attori sul palcoscenico. Nascono dall’esigenza di trovare un gruppo di interpreti in grado di muoversi sulla scena senza imbarazzo e di compiere gesti teatrali senza vergogna» (Scully 1999, p. 17). La dichiarazione, alquanto originale, prova la dimensione figurativa e umana dell’arte apparentemente astratta. Le pitture di Rothko non approdano mai a un puro stato metafisico, poiché il rapporto “figura-sfondo” è sempre mantenuto. Esse possono e devono essere lette come un piano sul quale le figure sono dipinte – un palcoscenico su cui si muovono gli interpreti. Lungi dal decretare una fine del rapporto tra la figura e lo sfondo, si tratta al contrario di ripensare la mutua relazione delle due dimensioni. I dipinti non sono mai del tutto astratti, poiché preservano, almeno nell’intenzione, un legame diretto con il mondo: «Aderisco alla realtà materiale del mondo e alla sostanza delle cose», scrive nel 1945 (Scully 1999, p. 18). Se le tele, dunque, vantano un’universalità di fondo, non è perché sono la manifestazione di un’idea ma per il fatto che derivano, in termini universali, da un’emozione che ha origine nell’esperienza vissuta. Di fronte a un Rothko, il tempo sospende il suo corso e ci ritroviamo liberi di stabilire la relazione poetica “astratta” con lui.

La mostra si conclude con le magnifiche pitture scure dell’ultimo periodo, in cui la luce cambia intensità ma perdura. No. 8 (1964) è una tela grigia ardesia con una sola figura verticale grigio-nero. Sebbene i colori cambino visibilmente rispetto ai quadri precedenti, l’effetto è di una struggente bellezza e una solitudine desolante. I rettangoli-figure non sembrano più oscillare ma tenersi da soli, immobili, scivolando verso il bordo del quadro, il bordo del mondo di Rothko. Non si percepisce solamente un cambio di colori ma anche di percezioni: le grandi pitture luminose, con i loro gialli, rossi e blu, sono espansive non solamente in fatto di tinte ma anche per l’intensità con cui riescono a irradiare lo spazio, provocando un sentimento di pienezza sensoriale. Un atto di pura generosità. Con il nuovo periodo, questo sentimento si modifica: le pitture diventano più austere e direttive, controllando lo spazio che occupano. La rigidità dei colori e degli spazi non è altro che lo specchio psicologico perturbato dell’artista. La rappresentazione estetica diviene più semplicista nelle serie Black and Grey (1969-1970): l’equilibrio tra austerità e sensualità è rotto lasciando il posto a una totale e inglobante asprezza; il gioco teatrale, che veicola la speranza, è sostituito con la desolazione di una linea orizzontale che scivola sulla tela da un lato all’altro. Non riuscendo più a sopportare la tensione drammatica tra speranza e tragedia, Rothko decise di uscire di scena.

Non è di certo un caso che Nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche sia un libro che ha avuto un impatto profondo su Rothko. L’idea centrale nietzschiana secondo cui l’artista ha il potere di trasformare il tragico in bello non è molto lontana dalla ricerca della bellezza – e della verità – estrema dei dipinti del pittore. Certo è che entrambi abbiano dovuto spingersi ai limiti del tragico e del bello per provare concretamente l’idea secondo cui «l’arte è il più alto compito dell’uomo, la vera attività metafisica» (Nietzsche 2017, p.17). L’opera di Rothko si concluse con il suicidio nel 1970; settant’anni prima Nietzsche era stato visto abbracciare un cavallo qualche giorno prima di morire. All’incontro con il loro triste destino, ognuno aveva lasciato al mondo qualcosa di immortale.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, L’uomo senza contenuto, Quodlibet, Macerata 1994.
F. Nietzsche, Nascita della tragedia, Adelphi, Milano 2017.
S. Scully, Mark Rothko. Corps de lumière, L’Échoppe, Parigi 1999.

Mark Rothko, a cura di Suzanne Pagé e Christopher Rothko, Fondation Louis Vuitton, Parigi, 18 ottobre 2023 – 2 aprile 2024.