Cosa si intende per cinema politico? In che senso è possibile definire la politicità di un film, e come è possibile approssimarsi a una definizione di ciò che è stato il cinema politico italiano? Attorno a queste domande ruota il testo Eros e Politica (1995), in cui il grande critico Maurizio Grande rilegge le opere di registi italiani tra cui Petri, Taviani, Bellocchio, Bertolucci. Tra questi nomi, emerge quello di un regista cui Grande aveva dedicato nel 1974 (e aggiornato nel 1980) un preziosissimo volume: Marco Ferreri.

Recentemente edito per Bulzoni e integrato da ulteriori contributi di Grande, da un’introduzione di Roberto De Gaetano e da una postfazione di Alessandro Canadè (2016), il testo Marco Ferreri appare come un’opera imprescindibile per capire, insieme, la grande eredità teorica e critica consegnataci da Grande e le opere del cineasta milanese. Il critico, infatti, muovendosi fra i film ferreriani, tracciando e ripercorrendo le strategie estetiche che li abitano, ci consegna un metodo, una prassi critica che si declina come esercizio di uno sguardo in grado di trascendere le categorie – quella di humor nero, di una spietata critica ideologica alla civiltà dei consumi – in cui l’opera di Ferreri è stata, spesso semplicisticamente, confinata.

Se stabilire il carattere politico di un film significa innanzitutto confrontarsi con le differenze e gli intrecci che legano il politico – che presuppone una comunità articolata come un tutto, la cui unità ipostatizza il politico stesso (Grande 1995, p. 18) – alla politicapratica che si mantiene in relazione «con la politicità di una serie di attività, idee, strutture, organismi» (ivi, p. 19) – ciò impone di ripensare la politicità dell’opera al di là dell’assunzione esplicita della politica a oggetto di rappresentazione. 

Interrogarsi sul cinema di Ferreri vorrà dire, seguendo Maurizio Grande, scandagliarne i tracciati per individuare quella verità interna dell’opera che non miri a ricomporne l’unità presunta e immutata ma, piuttosto, accetti di alterarla nell’atto stesso di attraversarla, dischiudendone «le segrete disposizioni» fino a scorgervi «una struttura determinata, immanente all’opera stessa» (Benjamin 2017, p. 99). È infatti nella costruzione dell’immagine, nella relazione che lega i vari elementi del film e questi al film come totalità, che la filmografia di Ferreri può apparire come sedimentazione nell’immagine di una domanda di politica, che Grande distingue da ogni risposta ideologica (Grande 1995, p. 23). 

Se l’ideologia è «il complesso dei sistemi di pensiero mascherato che non rivela le reali condizioni di valore e di senso della attività economica e sociale» (ivi, p. 20); se essa implica sempre, come rivela Marx, un rovesciamento nella visione della realtà per cui «gli uomini e le loro circostanze appaiono capovolti come in una camera oscura» (Marx, Engels 2018, p. 87), occorre osservare la realtà – e il cinema – attraverso nuove lenti, che non producano una simmetrica visione ideologica dei rapporti sociali e politici, ma destrutturino l’integrità della stabilizzazione sociale fino a giungere al cuore dell’umano.

Le lenti che permettono di compiere tale operazione sono, innanzitutto, quelle deformanti del grottesco. Distinguendosi tanto dalle maschere della commedia italiana che dall’iconografia grottesca di matrice felliniana (De Gaetano 2016, p. 11), il grottesco che prende forma nei film di Ferreri lavora su frammenti isolati della realtà e, attraverso «l’ispessimento delle linee» (ivi, p. 9) che li attraversano, non rappresenta, ma duplica e ri-traccia il reale per mostrare la violenza dell’esclusione e l’ossessione dell’identità, la morte che abita la vita e, dalla fine degli anni sessanta, l’apocalisse che abita la quotidianità, e la storia e la realtà come simulacri

Se il matrimonio costituisce, per larga parte della commedia italiana, un oggetto d’osservazione privilegiato, già nei film della prima metà degli anni sessanta – in particolare L’ape regina (1963) e La donna scimmia (1964) – lo sguardo grottesco di Ferreri sembra rivolgersi «alla spirale agghiacciante dei rapporti di esclusione colti all’interno della coppia» (Grande 2016, p. 49), invalidando persino la «dialettica tra soggetto e ruolo sociale» che, nella commedia, appariva nonostante tutto possibile (De Gaetano 2016, p. 11). L’operazione ferreriana rivela la dimensione cannibalica iscritta nel “contratto” della vita associata e, più radicalmente, nel rapporto che lega l’Io e l’Altro attraverso un unico movimento possibile: quello dell’esclusione e, al limite, della reciproca eliminazione

Così, in La donna scimmia, Ferreri moltiplica le soglie in cui il binomio esclusione/integrazione lavora determinando, di volta in volta, ciò che è umano e ciò che è inumano, ciò che è normale e ciò che è anormale. Attraverso «la costruzione di un mondo escluso dentro l’altro, di un’anormalità più sconcertante dell’altra» (Grande 2016, p. 43), Antonio e Maria, la donna coperta di peli che Antonio conduce via dal convento in cui è nascosta per esibirne e forgiarne l’animalità, appaiono come personaggi aberranti che, sospesa ogni possibilità di mutamento della realtà, passano per una rete di degradazioni di cui proprio il matrimonio – in una sequenza che Grande definisce un «esempio di regia» – non è che l’approdo. Nell’alternarsi dei primi piani tra il volto della donna che canta – dimostrando il proprio assoggettamento compiuto e la propria paradossale antopogenesi – e quelli dell’uomo soddisfatto della propria impresa commerciale, il film prova cinematograficamente la possibilità «di annullare completamente l’umanità, la dignità, l’autonomia di un altro uomo» (ivi, p. 45), fino a dilatare la possibilità dello sfruttamento persino dopo la morte, nell’esposizione dei corpi della donna e del figlio alla curiosità degli spettatori. Il film intero si presenta dunque come una sorta di movimento sul posto, che finisce laddove comincia senza tuttavia risolversi in un semplice moto circolare. 

Se dalla voragine spalancata dalle opere della prima metà degli anni sessanta emerge una «statica irrisione nei confronti dell’irrilevanza del tutto, dell’esistenza e degli illusori valori inventati dagli uomini» (Grande 2016, p. 41), regolati da un’implacabile logica d’esclusione che non consente «aperture costruttive», in film come L’uomo dei cinque palloni (1965) e L’Harem (1967), Maurizio Grande coglie un mutamento – tematico e stilistico – nell’opera del regista milanese che anticipa in parte la produzione cinematografica successiva. Il rapporto tra esclusione e adattamento comincia a definirsi attraverso il rapporto che lega «perversione e ossessione autodistruttiva» (ivi, p. 219), che mette in crisi, insieme, il punto di tenuta della società e del soggetto.

La contro-alienazione del protagonista de L’uomo dei cinque palloni – isolato in una ricerca iperbolica dell’esatto punto di gonfiaggio dei palloncini che fa collassare persino l’unità soggettiva della persona – e il distanziamento da sé di Margherita, protagonista de L’Harem – che culmina nel sacrificio rituale come impossibilità del superamento del cannibalismo della coppia – appaiono inscindibili dal processo di s-montaggio, che ne L’uomo dei cinque palloni comincia a decostruire intelligibilità della story e tessuto narrativo tradizionale (ivi, p. 68), così come dalla progressiva rarefazione della realtà che caratterizza le inquadrature de L’Harem. L’architettura cinematografica, che procede «attaccando scena a scena» e intensificando l’habitat nervoso fotografato (ivi, p. 192) dall’inquadratura, svincola i comportamenti del protagonista da ogni relazione causa-effetto (L’uomo dei cinque palloni), consegnandone i gesti alla ripetizione allucinata che iscrive persino nell’autoesclusione del soggetto la ripetitività della società industriale. I piani lunghi, i campi vuoti, gli spazi dilatati de L’Harem, introducono nel film un fitto tessuto di assenze (ivi, p. 91) che, nelle opere successive, coagulandosi e catalizzando lo spazio filmico, diverranno vero e proprio soggetto – politico – del cinema ferreriano.

Tra gli anni sessanta e gli anni settanta, nell’epoca in cui la società appare tesa tra spinte di contestazione e lotte di liberazione, il cinema di Ferreri – smaterializzando le condizioni di realtà per addensamento o per svuotamento e trasferendole nell’universo statico dell’immagine, iscrive in sé i «fantasmi di distruzione della società» (ivi, p. 202) e la morte stessa, per mostrare il mondo come «durata seriale di un tempo anonimo» (Grande 1995, p. 57). Il cinema – oltre il quale, come dichiara il regista «non c’è nulla» – mostra il doppio volto della liberazione del desiderio nella società industriale, che «ha fatto della produzione desiderante la parodia del desiderio» (ibidem). 

La prospettiva delineata da Maurizio Grande permette così di cogliere la radicalità dello sguardo del regista sulla realtà, a partire da un film esemplare: Dillinger è morto (1969). Nella relazione tra personaggio e set, tra il protagonista – l’ingegnere Glauco – e lo spazio domestico – castello/prigione in cui, a partire dalla preparazione della cena e dal ritrovamento di una vecchia pistola, si consuma l’assassinio della moglie –, la scena diviene luogo di intrappolamento del reale, in cui il soggetto, avviluppato nello spazio costruito cinematograficamente, è consegnato al «lento disintegrarsi del senso dell’esistere nell’accumulo dei tempi inerti» (Grande 2016, p. 207). Nella peculiare scrittura di Ferreri – che Grande definisce «scrittura celibe» perché sottratta all’accoppiamento narrativo del montaggio – gli elementi ordinati nel quadro si presentano come puri fatti sensibili ottico-sonori, che, in un tempo che si dà come «durata fisica di esposizione allo schermo di una situazione-racconto» (ivi, p. 231), mostrano un io differito e bloccato negli oggetti che lo circondano, che introducono nell’immagine un addensamento di energia libidinale di produzione e la registrazione della condizione del soggetto iscritto nella produzione del consumo (Grande 1995, p. 35). L’«esecuzione della serata» del protagonista risulta così inscindibile dal gesto di scrittura del regista, che sospende il proprio gesto stilistico (Grande 2016, p. 251) per consegnare l’immagine alla temporalità che in essa si deposita e agli spettri che la abitano. 

Se l’intera cinematografia di Ferreri può essere pensata come messa in immagine «delle condizioni di adattamento alla morte» del soggetto contemporaneo (ivi, p. 238), il primato del piano-sequenza sul montaggio (ossia, come suggerito da Pasolini, su ciò che dà compimento al film e alla storia) e l’uccisione finale della donna nel film, sottraggono la morte stessa a qualunque carattere simbolico o funzione risolutiva, mostrando l’intera opera – e la vita stessa – come un lento passare-nella-morte (ivi, p. 194) di cui l’omicidio non è compimento drammatico ma ulteriore insignificante espressione. 

Anche la fuga del protagonista che, nel finale, sembra condurre l’uomo ad una nuova vita, verso l’esotica Tahiti, si presenta come pura illusione, che – come diverrà evidente nel fallimentare tentativo di abbandonare la civiltà in La cagna (1972) – dismette ogni utopia, introducendo già nell’immagine la dimensione apocalittica (e post-apocalittica) dei film successivi. Il rosso artificiale del sole (prodotto con un’esibita tecnica di viraggio) che occupa l’orizzonte sembra infatti già illuminare gli spazi della post-storia, configurarsi come l’altro volto della luce glaciale che ne Il seme dell’uomo (1969) o in Ciao Maschio (1978) illumina un’umanità residuale dispersa tra rovine e feticci.

Se ne La grande abbuffata (1973) la scelta di darsi la morte per eccesso di consumo (alimentare ed erotico) dei quattro protagonisti sembra, letteralmente, far esplodere quel punto di tenuta che costituiva l’ossessione del protagonista de L’uomo dei cinque palloni, tanto da condurre ad una vera e propria deflagrazione del corpo, involucro umano della funzionalità organica (ivi, p. 223), già ne Il seme dell’uomo – e ancor più in Non toccare la donna bianca (1974), Ciao Maschio, I love you (1986) – l’introiezione del processo di reificazione – nel passaggio dall’oggetto intermediario che registra uno stock di desiderio-produzione al soggetto desiderante che consuma se stesso fino alla morte – fa dell’immagine il luogo statico in cui pulsione di vita e pulsione di morte, cose e simulacri si confondono e rimangono esposti, come pietrificati, sulle spiagge desolate della storia.

a) I campi lunghi che ne Il seme dell’uomo mostrano la spiaggia di fronte la casa, in cui Cino e Dora riparano in seguito ad una catastrofe già avvenuta, annunciata da immagini d’archivio; b) la luce fossilizzante della periferia in cui si muovono i protagonisti di Ciao Maschio, che sembrano aver introiettato la catastrofe delle loro vite anonime, mostrano, insieme, la quotidianità di una catastrofe che non ha nulla a che fare con l’evento decisivo; e c) la decomposizione dell’intero che fa apparire la civiltà post-industriale come deserto derivato, svuotato dal pieno della sua forma originaria e popolato da «oggetti incompleti, residui e vestigia, tracce di un passato recente e impronte del tempo storico» (Grande 1997, p. 91) che insistono nel disfacimento della civiltà. 

Il cannibalismo della coppia, che aveva caratterizzato il cinema degli anni sessanta, il carattere feticistico degli oggetti, il movimento a vuoto del soggetto, si ri-semantizzano in questi spazi post-storici e liminari, laddove, sulle rovine del mondo, la Civiltà e la Storia stesse divengono feticcio nella forma distorta e abnorme del Monumento alla volontà di potenza dell’uomo, alla traccia da esso impressa sul mondo che è già, ab origine, traccia di distruzione; allo stesso modo, il grottesco si fa «nauseabonda deformazione di ogni discorso e di ogni immagine storica, politica, sociale, cinematografica» (ivi, p. 95).

Il tentativo di Cino (Il seme dell’uomo) di salvare la cultura in rovina musealizzandone i feticci – un frigorifero, una forma di formaggio, un dirigibile della Pepsi Cola – non risulta scindibile da quello di salvare la specie “seminando” (gesto originario della riproduzione e della civiltà), ossia fecondando Dora. I monumenti si presentano come idoli rovesciati «di una memoria ricostitutiva e conservativa» (Grande 2016, p. 255) che, ostinandosi a ri-nominare le rovine, perpetua la fagocitazione della realtà nei suoi simulacri, la catastrofe dell’umano (nel duplice senso del genitivo). Se, come nota Grande, sia i feticci che gli idoli appartengono, come due volti della stessa medaglia, all’ordine dei simulacri, se il feticcio non è che un idolo rovesciato e l’idolo un feticcio innalzato su un piedistallo, questi simulacri del desiderio e della morte introducono nell’immagine un’interrogazione sugli idoli della storia e dell’antropogenesi, sui feticci della memoria e sui destini dell’uomo.

La Memoria Storica – che rifiuta di riconoscere il fallimento delle gesta umane – e l’Immaginario – «riserva di mitologie […] avanscoperta nella ritirata della Natura e della Storia» (ibidem) si mostrano nel «presente iconico» dei piani-sequenza, nel rapporto che lega il Museo postumo istituito da Cino alla carcassa della balena che, arenata sulla spiaggia, è insieme soglia immaginale tra vivente e fossile e feticcio della fantasia letteraria (di Moby Dick, della balena di Pinocchio). La familiarità perturbante che lega in un’unica, permanente catastrofe storia e antropogenesi si fa evidente in Ciao Maschio: il Museo della Roma antica diretto da Flaxman e presso cui Lafayette – uno degli insignificanti protagonisti del film – è impiegato; la grande statua di carta pesta di King Kong, abbandonata e rinvenuta nel deserto metropolitano, insieme feticcio dell’immaginario cinematografico e maschera di un’impossibile e fuori-misura pre-istoria dell’animale umano, sembrano trovare nel pitecantropo che Flaxman nasconde nel museo il loro punto d’arresto. Il fantasma dell’origine dell’uomo rivela infatti l’uomo stesso come «fantasma dell’evoluzione bloccata», paradosso della natura e della storia che «non ha saputo dettare le giuste leggi dell’evoluzione biologica e il cammino della storia» (ivi, p. 175) e si è dunque consegnato alla rovina, divenendo rovina lui stesso.

Abbandonati a una dissoluzione che ha la forma della stasi, della liquefazione in un informe – pensiamo all’incendio che al termine di Ciao Maschio distrugge e amalgama gli oggetti musealizzati da Flaxman –, l’umano e la storia sono condotti alla loro fine come al loro principio: in Non toccare la donna bianca, Storia e Immaginario (incarnato dall’immaginario cinematografico del Western) possono allora essere esibiti come favola rovesciata del genocidio; la presenza spettrale dell’oggetto-feticcio può farsi, in I love you, sostituzione dell’umano (nel portachiavi che canalizza l’amore del protagonista conducendolo, ancora una volta, all’autodistruzione); in Chiedo Asilo (1979) la sostituzione del linguaggio con i materiali visivi e sonori che riconducono vita e cinema alla loro forma elementare, liquefacendo le stesse tematiche ferreriane, può mostrare un’umanità che ha rinunciato definitivamente ai significati e alla storia. 

La straordinaria operazione critica condotta da Maurizio Grande permette dunque di cogliere i tratti di quella domanda di politica in cui abbiamo individuato, sulle sue orme, uno dei caratteri del cinema ferreriano. Analizzando la filmografia del regista milanese a partire dalla sintassi del visibile che essa produce, il lavoro di Maurizio Grande permette di riconoscere nell’immagine «congelata nel suo modo di produzione» (ivi, p. 246), nella temperatura cinematografica delle inquadrature, nel racconto al presente dei piani-sequenza, quella tensione tra trasferimento, sostituzione e stasi, tra adattamento, reclusione e disintegrazione (ivi, p. 239), tra civiltà e catastrofe che marca la singolarità dell’opera del regista milanese, e che consegna una domanda ineludibile sulla contemporaneità.

Grazie al lavoro critico di Grande, la caratura politica dell’opera di Ferreri può dunque darsi come tentativo di mostrare, nel cinema, le nuove derive della reificazione – nel momento in cui le cose stesse, assorbite in un’accumulazione di immagini, divengono simulacri –, e come rifiuto di abbandonarsi pacificatori sogni di reicantamento ideologico del mondo. Se la macchina celibe, da Duchamp a Lyotard, è commutatore di energia in grado di invertire la composizione delle forze producendovi un’istanza dissimilante, la macchina celibe della scrittura cinematografica di Ferreri introduce nella realtà un dissimile che esibisce l’impossibilità di un’inversione liberatrice.

Nell’analisi condotta dal critico, proprio nel gesto che, generando un’immagine, nega – nella sua perfetta non referenzialità, nella sua inutilità ideologica – persino ogni utopia negativa sta la politicità implicita del cinema di Ferreri, ciò «che è nel film ma non si vede sullo schermo» (ivi, p. 201). Se la deriva sembra ormai inesorabilmente avviata, se «l’immagine si è fermata in un occhio che ha smesso di lanciare segnali» (ivi, p. 257) e la macchina celibe gira infine a vuoto, è il cinema che, dentro, fuori e contro il tempo, dentro, fuori e contro il cinema, continua, «nel suo stato di appagata inerzia» a restituire, nonostante tutto, le immagini allo schermo, alla realtà (ivi, p. 203).

Riferimenti bibliografici
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W. Benjamin, Il concetto di critica d’arte nel romanticismo tedesco, a cura di N. P. Cangini, Mimesis, Milano 2017.
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M. Grande, Deserti/Rovine. I film apocalittici di Marco Ferreri, in E. Girlanda, C. Tagliabue, a cura di, Apocalisse e cinema, Centro Studi cinematografici, Roma 1997.
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M. Ponzi, C. Rispoli, a cura di, Intervista con Marco Ferreri, in “Filmcritica” XVI, 162, 1965.

Maurizio Grande, Marco Ferreri, a cura di Alessandro Canadè, introduzione di Roberto De Gaetano, Bulzoni, Roma 2016.

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