Nonostante la ristretta filmografia, il cinema di Carlos Vermut presenta una mole di temi, riflessioni, simboli e significati estremamente connessi tra loro: un discorso, o meglio, una moltitudine di discorsi che sembrano comparire fin dalla nascita del cinema del regista spagnolo, tracciando una serie di percorsi di diversa natura che nel proseguire delle quattro opere si intrecceranno e allontaneranno a più riprese, evolvendosi ma rimanendo sempre coerenti. Questa diramazione di fils rouges, che sembra prendere vita già dal suo lungometraggio di esordio Diamond Flash (2011), viene esibita con uno stile di regia che appare da subito riconoscibile: le inquadrature di Vermut si presentano sempre attraverso un estremo rigore, andando a definire così uno sguardo fatto di movimenti lenti (della camera e degli attori nello spazio) e silenzi prolungati che contribuiscono a determinare un approccio raccolto alla narrazione. Tanto che, osservando alcune scene, non si può fare a meno di pensare che abbia davvero colto l’essenza della celebre frase di Bresson – «Le cinéma sonore a inventé le silence» – che concepisce il silenzio in quanto strumento vòlto ad esprimere un senso ulteriore e, nella maggior parte dei casi, visibilmente irrappresentabile.

Proprio dal lavoro sul silenzio vengono messi in luce alcuni concetti che Carlos pone al vertice del suo cinema: il rapporto che intercorre tra la realtà fenomenica e la finzione generata dal mezzo tecnologico, e il loro inevitabile rapporto con la rappresentazione dell’invisibile. I mondi creati da Vermut appaiono come dei luoghi in cui la capacità del dato tecnologico trova una propria coerenza diegetica, non solo nel dare vita ad immagini altrimenti relegate alla fantasia, ma anche nel far sì che esse irrompano nella realtà filmica stravolgendone e determinandone gli eventi. A dare avvio e a chiudere la vicenda di Magical Girl (2014) c’è, infatti, una presenza-assenza di un bigliettino (nella scena iniziale) e di un cellulare (in quella finale), dove, in entrambi i casi, dopo uno stacco di montaggio, l’oggetto scompare dalla mano del personaggio: “Non posso dartelo, perché non ce l’ho”. Un passaggio di testimone, che parte da Barbára e arriva a Damián, della capacità di saper controllare le possibilità manipolatorie di quella magia del cinema che ha origine dai tempi di Méliès: una dichiarazione d’intenti, quella mossa da Vermut, di un cinema in cui è esso stesso, o chi ne muove i fili, a stabilire le regole del mondo.

Risulta del tutto naturale, allora, che il suo ultimo film inizi proprio in un non-luogo, in uno spazio digitale nero dominato dal silenzio, in cui una serie di forme compaiono pian piano dando fattezza ad una creatura mostruosa che Julián, il protagonista, sta disegnando per un videogioco: Mantícora (2022), presentato al quarantesimo Torino Film Festival, fin dalla prima scena si pone al tempo stesso come punto di arrivo e sintesi del discorso sulla dicotomia realtà-finzione. Il pubblico non è più soltanto spettatore dei risultati del potere tecnologico sul mondo empirico, ma, attraverso il software di disegno, Vermut sembra darci la possibilità di avere finalmente accesso a quel mondo digitale, fucina di immagini astratte che attraverso lo schermo ottengono una loro materialità.

È una dimensione, quella digitale, che collide con quella fenomenica, andando a creare tra le due una catena di cause-effetti: eventi reali come l’incendio nella casa del vicino danno origine ad immagini di finzione come quella del modello 3D del bambino, che a loro volta generano ripercussioni reali come l’ostracismo sociale nei confronti di Julián. Tra i vari registi che in maniera significativa hanno trattato il tema dell’invisibile nel cinema contemporaneo è impossibile non pensare a Bruno Dumont, il cui lavoro tende a collocare l’invisibile su un piano che Schrader definirebbe “trascendente” (L’humanité, Hadewijch, Hors Satan), rintracciando nel controcampo il suo luogo deputato. In senso diametralmente opposto, Carlos Vermut sembra però distaccarsi dall’approccio del regista francese, riportando il concetto su una dimensione più terrena, concreta: nella contemporaneità, l’invisibile viene minato nella sua funzione strutturale, perché tutto diventa potenzialmente rappresentabile e rappresentato.

L’invisibile, in qualche modo, smette di esistere nella sua funzione più pura e il discorso scivola verso un tema che si presta come sua evoluzione: l’idea del mostrabile. Lo spazio ripreso e concepito da Vermut, anche quando così non appare, è sempre uno spazio pieno, dove l’invisibile non è più qualcosa di non filmabile, ma piuttosto di non mostrabile. Ecco allora che nella scena in cui la camera è fissa sul volto di Julián con indosso il virtual reality intento a masturbarsi, essa ruota andando ad inquadrare la direzione dello sguardo del ragazzo e ciò su cui si sofferma è inevitabilmente uno spazio materialmente vuoto, ma in cui dimora l’immagine digitale: una stanza, però, che non è occupata dall’invisibile – in quanto il protagonista non soltanto può vedere, ma sembra quasi anche riuscire a toccare – quanto piuttosto da un tabù, etico e sociale, qualcosa che il cinema è impossibilitato a mostrare allo spettatore (lasciato non fuoricampo, ma fuori sguardo).

Il non mostrabile, come “invisibilità compromessa”, continuerà ad aleggiare per tutto il film, anche quando ad un certo punto il controcampo del protagonista verrà concretamente occupato da Diana, giovane ragazza dalle fattezze infantili e dai tratti simili a quelli del bambino della casa accanto, doppio adulto di quel suo sogno erotico proibito. Il tema del doppio è un altro grande pilastro del cinema di Vermut (nome d’arte di López del Rey): se nei primi due film il lavoro sui doppi rimane relegato ad una dimensione personale-individuale, attraverso l’espediente della doppia vita – reale o immaginaria – è con Quién te cantará (2018) che Vermut passa ad una dimensione generale-collettiva, in un vero e proprio gioco a rilancio in cui ogni persona rappresenta una moltitudine di doppi per altrettanti personaggi.

Il punto di equilibrio è però raggiunto ancora una volta da Mantícora: non più un’invasione incontrollata di doppelgänger, ma un mondo in cui le persone sembrano tendere ad una ricerca continua di simulacri. I doppi di Vermut, infatti, prendono le distanze dai loro archetipi: se da Il sosia di Dostoevskij a L’uomo duplicato di Saramago appaiono come delle figure che irrompono nella vita dei protagonisti destabilizzandola, in Mantícora si strutturano come simulacri necessari per poter far fronte ai propri tormenti e trovare così un posto all’interno della società. Il personaggio di Julián si presenta come una versione moderna della Mirra alfieriana, a cui l’amore proibito per il padre è sostituita l’attrazione sessuale per un bambino, e per cui lo spettatore non dovrà aspettare le ultime battute per scoprire il segreto dietro quel tormento.

Prima della drastica soluzione finale – non una spada che trafigge il petto, ma un salto dal balcone – Julián, consapevole della dicotomia desiderio-azione, individua come pharmakon per la propria parafilia l’emulazione dell’oggetto del desiderio: prima astratta con il modello digitale, poi concreta con Diana, una lolita dalle fattezze androgine. La società dipinta da Vermut sembra essere intrisa di ipocrisia: Diana difende a spada tratta il gusto per l’omicidio all’interno dei videogiochi (“Non fai male a nessuno”), ma non esita ad esprimere tutto il suo disprezzo per Julián quando a far parte della finzione c’è un argomento controverso come quello della pedofilia (“Non ho fatto male a nessuno”). Una società che, invece di intraprendere la strada della riformazione, preferisce ghettizzare e demonizzare in nome di posizioni contraddittorie, spingendo Julián verso la trasformazione in quel mostro dipinto dalla comunità ed evocato nel titolo.

Tuttavia Vermut nel finale propone un’alternativa: in una realtà mossa e regolata da doppi, il destino di Julián – sopravvissuto, ma ridotto a vegetale – sembra non poter essere altro che sopperire alla logica della sostituzione, trasformandosi in un ennesimo simulacro, doppio del defunto padre malato di Diana, trovando così il proprio posto nel mondo. Perché in un universo di doppi, “Morire non è così semplice”.

Mantícora. Regia: Carlos Vermut; sceneggiatura: Carlos Vermut; fotografia: Alana Mejía González; montaggio: Emma Tusell; interpreti: Nacho Sánchez, Zoe Stein, Álvaro Sanz Rodríguez, Aitziber Garmendia; produzione: Aquí y Allí Films Bteam Prods; distribuzione: BTeam Pictures; origine: Spagna, Estonia; durata: 115′; anno: 2022.

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