«Volevo filmare la vita di Lussu come un film d’avventure, in cui però tutto fosse vero», ha scritto Fabio Segatori nelle note di regia per il film. Vero lo sottolineo io. Come si fa a rendere “vera” una storia che mette in scena la vita d’un uomo già scomparso, Emilio Lussu, morto nel 1975? Come rendere veri i suoi amici? Sua moglie Joyce (Galatea Ranzi)? I suoi nemici? Gli squadristi? Il cinema resuscita i morti? Rossellini ne era convinto, e anche Segatori, sulla sua scia. Rossellini e Tsui Hark: il lavoro paziente e l’avventura.
“Lussu comincia nel 1900, con uno schiaffo a Emilio ragazzino da parte di suo padre, nella foschia d’un bianco e nero in cui i personaggi quasi non si distinguono. Poi arriva il colore: due ragazzini, ai giorni nostri (o quasi), si inseguono puntandosi addosso delle pistole-giocattolo. Emilio (Renato Carpentieri), che rappresenta Lussu ormai anziano (“ma non sono ancora morto!” dirà alla fine), dolcemente li rimprovera: con le armi non si scherza, uccidere non è mai un gioco.
I bambini si siedono, per ascoltare il vecchio rivoluzionario, presto raggiunti da un ragazzo e una ragazza. Emilio comincia a raccontare, ma come? Qui ha inizio la cifra del film. Appaiono riprese documentarie in bianco e nero di combattimenti durante la Prima guerra mondiale e, interpolati, primi piani a colori di Lussu (Giacomo Fadda), giovane tenente alla guida d’un reggimento della Brigata Sassari, composta di contadini e pastori sardi. Interventista? Sì, ma per ragioni democratiche, non nazionalistiche. La guerra, per le masse sfruttate, può essere l’occasione di emanciparsi, di prendere coscienza dei propri diritti. Alla fine della guerra, rivendicare la redistribuzione delle terre, contro gli agrari. Il punto filmico è questo, comunque: il procedimento digitale permette l’inserimento degli attori ripresi in studio nelle sequenze documentarie in bianco e nero.
L’attore filmato in studio, oggi, si inserisce dunque, quasi come non-attore, nella verità dello ieri (il materiale fornito dagli archivi di tutto il mondo), ne diviene indistinguibile, per quanto distinto. Emilio torna a casa, carico di medaglie al valore: la madre, sempre vestita di nero, quasi non osa abbracciarlo; al padre strappa un sorriso appena accennato, che vale più di un’aperta approvazione.
Emilio racconta, filmato a colori, ma il racconto si traduce subito nel bianco e nero. I fascisti assediano la sua casa, urlano, minacciano, agitano bastoni, ma anche loro sono ombre. Armato di pistola, Emilio ne uccide uno. Uccide un’ombra, ma anche il morire di un’ombra è tragico. Le ombre stesse, le altre, ammutoliscono, quasi stupite dal mistero improvviso della morte. Uccidere, sia pure per legittima difesa, può essere necessario, ma è sempre terribile – uccidere, magari senza neppure vedere chi si uccide. Uccidere a distanza – ma, di fronte alla morte, non c’è distanza che tenga.
Emilio è inviato al confino, a Lipari, isola bellissima, che il fascismo aveva ridotto a prigione a cielo aperto. In carcere, aveva contratto la tubercolosi, è più morto che vivo, ma non si rassegna all’inazione. È tra i fondatori del movimento Giustizia e Libertà, che confluirà nel Partito d’Azione, in alleanza con socialisti e comunisti. Malgrado la salute malandata, si unisce ai progetti di fuga, tramite un motoscafo di proprietà d’un antifascista. Per varie ragioni, parecchi tentativi falliscono, ma alla fine la fuga riesce. Il motoscafo li porterà a Tunisi, e di lì Emilio riesce a raggiungere Parigi, dove organizza le cellule disperse degli azionisti (il cui capo è Ferruccio Parri) e denuncia all’opinione pubblica francese le condizioni di assoluto arbitrio in cui ormai, sotto il regime fascista, si vive in Italia.
Grazie al sostegno finanziario dei fratelli Rosselli (poi trucidati dalle squadracce d’una formazione locale d’estrema destra), Emilio riesce ad andare in Svizzera, e a farsi operare in sanatorio contro la tubercolosi. Dopo “Marcia su Roma e dintorni”, qui scrive “Un anno sull’Altopiano”, in cui rievoca le inutili stragi e l’inumana disciplina cui erano sottoposti i battaglioni della Brigata Sassari. Dal libro, sia detto per inciso, fu tratto nel 1970 il film Uomini contro, diretto da Francesco Rosi.
Quella di Lussu è però una vita segnata fino alla fine dalla lotta. Prima in Spagna, durante la guerra civile. Poi la Francia è invasa dai nazisti, le truppe tedesche sfilano lungo gli Champs-Elisées. “Io avevo una pistola – dice Emilio ai ragazzi che ascoltano – ma dall’altra parte c’erano i carri armati”. Ancora in fuga, verso Marsiglia, tra migliaia di profughi, alla ricerca d’un difficile imbarco. Spagna. Portogallo. Il cibo, la fame. Addirittura New York. Infine, a Ventimiglia, il ricongiungimento con Joyce, che ha fatto anche lei la resistenza, e non ha mai smesso di aspettarlo e cercarlo. Nel frattempo sua madre è morta ed Emilio non ha potuto mantenere la promessa di rivederla. La vediamo solo noi spettatori, con l’eterno vestito nero, sul letto di morte.
Col primo governo Parri, gli viene offerto il posto di ministro della Difesa, ma le forze liberaleggianti prevalgono su quelle socialiste, deve contentarsi d’un ministero minore, senza portafoglio. Joyce, nel frattempo, ha fondato l’Unione Donne Italiane. Ora, di nuovo a colori, distribuisce a tutti bicchieri di limonata fresca. Emilio congeda i suoi interlocutori, li saluta dalla porta, e il saluto, appena accennato, ha il sapore di un addio.
Oggi. Due ragazzini (sono quelli dell’inizio?) giocano con le pistole-giocattolo. Se le puntano addosso ridendo. Potrebbe voler dire che sarebbero pronti a usarle da grandi, in caso di bisogno, contro i nuovi fascismi in agguato. Potrebbe, si – oppure potrebbe voler dire qualcosa di molto più inquietante. Ad ogni modo il film di Segatori è un’arma, un’arma contro tutte le armi. Disgraziata la terra che ha bisogno di eroi.
Lussu. Regia: Fabio Segatori; produzione: Baby films; interpreti: Renato Carpentieri, Galatea Ranzi, Giacomo Fadda, Carolina Signore; origine: Italia; durata: 52′; anno: 2021.