Il terrore, la paura e le alterazioni psicologiche nascono dalla presentazione di un corpo violato. Sembra essere questo l’assunto dominante delle ultime incursioni nell’horror da parte di Takashi Miike: come se per il geniale cineasta giapponese, la perdita del controllo dell’individuo sul suo stesso corpo (sempre più inteso come un mero involucro in balia delle azioni/perversioni altrui) fosse l’elemento scatenante dell’orrore; la matrice da cui si rifrangono tutte le idiosincrasie e i conflitti dei personaggi, oltre alle logiche (tematiche, linguistiche, narrative) alla base del racconto orrorifico. Se in Occhio per Occhio (2022) la fisicità del protagonista veniva letteralmente trafugata dai trafficanti di organi a causa delle proprietà bio-tecnologiche di cui era composto il suo immortale organismo, in Lumberjack the Monster la violazione corporea degli individui perde improvvisamente di materia, e diventa ancora più sottile ed inconscia: proprio perché avviene all’insaputa di chi, brutalmente, la subisce.
In piena continuità con le tematiche delineate da Occhio per Occhio (la prima, e per adesso unica, serie coreana di Miike), anche in Lumberjack the Monster (distribuito da Netflix) la narrazione si ramifica a partire dai linguaggi della detection, anche se oggetto, come vedremo, di una radicale inversione scopica rispetto agli standard miikiani. Laddove in MPD Psycho (2000) o in Detective Story (2007) era la caccia al serial killer a traghettare lo sguardo degli agenti (e degli spettatori) nei meandri delle pulsioni più grezze dell’animo (in)umano, in Lumberjack The Monster il punto di vista è assunto dalla “vittima” delle persecuzioni sanguinarie dell’assassino seriale, la cui bussola morale, però, è stata già ampiamente compromessa, ancor prima che la micro-comunità a cui appartiene il protagonista venisse tempestata dal nefasto sentore della morte. Le azioni in cui si profonde quotidianamente l’avvocato Akira Ninomiya (Kazuya Kamenashi) infatti, denotano l’assenza di qualsiasi umanità e ordine di pensiero equilibrato: l’uomo non è di certo restio ad uccidere coloro che si oppongono ai suoi obiettivi, né tanto meno a manipolare le persone a lui più care pur di assolvere i suoi interessi egotistici. Ma la perdizione a cui è andato incontro non è naturale: è il frutto di un’operazione cerebrale subita da infante, e durante la quale gli era stato inserito (a sua insaputa) nel cervello un chip neurale, da intendere (metaforicamente) quale la matrice delle sue crisi psicotiche.
Ciò che Miike ci sta qui dicendo con Lumberjack the Monster, estendendo il discorso già affrontato in Occhio per Occhio, è la necessità, del cineasta, di individuare l’origine “odierna” dell’orrore nell’impossibilità dell’individuo di proteggere sé stesso, specialmente davanti a pericoli (gli agenti patogeni? I virus informatici?) sempre più impercettibili allo sguardo. Quasi come se, ai suoi occhi, le paure della terza decade del ventunesimo secolo siano da rintracciare nell’invisibilità stessa su cui si fonda il sentimento pauroso. E che dà vita ai mostri (fisici e psichici) della nostra quotidianità e di quella dei personaggi/omologhi che hanno subito inconsciamente lo stesso trattamento del protagonista: tutti uniti sotto il segno di un orizzonte psicopatologico deviante, destinato ad assumere delle forme concrete in uno spazio perverso (come quello immaginato da Miike) in cui non esistono confini tra il dentro e il fuori, tra gli incubi che risiedono negli angoli più profondi dell’animo, e le storture di una realtà che si nutre delle fratture psicologiche di coloro che vi si muovono all’interno, per poter continuare ad ospitare, nel suo grembo, le radici stesse del male.
Ecco allora che ogni elemento visibile in Lumberjack the Monster è da intendere come la proiezione, e il riflesso, tanto delle psicosi della contemporaneità, quanto dei modi di interpretare l’orrore (e i suoi linguaggi) nel cinema odierno. I numerosi “mostri” che popolano le immagini del film, dal serial killer mascherato in cerca di cervelli da trafugare, agli psicopatici privi di etica e morale proprio perché già “violati” da bambini nelle loro intimità, diventano sì lo strumento con cui eviscerare la tensione dai codici classici del racconto orrorifico: ma soprattutto sono gli espedienti attraverso cui arrivare ad una traduzione, in termini puramente filmici/iconici, delle paure tipiche dell’era moderna. Al punto che ogni singola figura diviene qui il simbolo e il manifesto delle crisi delle vittime, la cui sorgente del terrore è, appunto, da trovare nell’incapacità degli esseri umani di respingere macchinazioni/perversioni sempre più invisibili ed ignote e che possono assumere una forma intelligibile solamente nell’istante in cui vengono raccontate attraverso le grammatiche iconiche dell’arte rappresentativa per eccellenza: vale a dire il cinema.
Il vero problema di Lumberjack the Monster, semmai, lo troviamo nell’adesione (fin troppo smaccata) ai codici più consueti del racconto orrorifico nipponico degli ultimi anni, soprattutto di quello di matrice mainstream. Mentre, ad esempio, un’opera ad esso affine nello spirito e nei linguaggi come Chime di Kiyoshi Kurosawa (2024) tende a far transitare il ragionamento sulle logiche del J-Horror attraverso le grammatiche e i mondi allegorici della poetica del (suo) regista, Miike, al contrario, sceglie (stranamente?) una via più tradizionale e classica per raccontare le psicosi della contemporaneità, tale da porsi in netta discontinuità con le iperboli stilistiche della sua filmografia. Tanto che se Lumberjack the Monster fosse stato più radicale nei suoi discorsi, se avesse attaccato i sensi dello spettatore con la solita, dissacrante ferocia che ha contraddistinto le narrazioni del filmmaker sin dai tempi delle prime produzioni in video (il cosiddetto V-Cinema) ecco che anche le notevoli riflessioni che attraversano il film avrebbero acquisito maggiore incisività. A conferma di quanto la poetica di Miike, soprattutto nelle sue declinazioni horror – si pensi a Gozu (2004) o ad As the Gods Will (2014) – necessiti sempre di ritornare agli universi gargantueschi della sua ineguagliabile immaginazione, per creare un’esperienza unica nel suo incontenibile, e perverso spirito sinestetico.
Lumberjack the Monster. Regia: Takashi Miike; sceneggiatura: Hiroyoshi Koiwai; fotografia: Nobuyasu Kita; montaggio: Naoichirô Sagara; interpreti: Kazuya Kamenashi, Nanao, Riho Yoshioka, Keisuke Horibe, Shidô Nakamura, Shôta Sometani; produzione: Oriental Light and Magic (OLM), Warner Bros. Pictures Japan; distribuzione: Warner Bros. Pictures Japan, Netflix; origine: Giappone; durata: 119’; anno: 2023.