Un libro notevole ed originale questo L’umanità in tempi bui di Hannah Arendt. E per diverse ragioni. La prima delle quali risiede nel farsi intercedere dal nome proprio di alcuni grandi autori, quasi tutti tedeschi (da Lessing a Luxemburg, da Jaspers a Broch, da Benjamin a Brecht e via dicendo), per dire alcune cose sul presente e la possibilità di comprenderlo.

Se la Arendt ha un ruolo decisivo oggi è perché, attraversando la co-implicazione di Terra e Mondo (“nascondimento” ed “illuminazione”), su cui Heidegger, suo primo grande maestro nonché amante, aveva costruito per buona parte l’originalità del suo pensiero, ha optato decisamente per il mondo, non solo facendosi mediare dalla grande tradizione della filosofia antica, ma anche da ciò che l’esilio americano le aveva insegnato: cioè la centralità di una presenza plurale degli uomini nel mondo e l’affermazione di una loro radicale libertà distante anni luce dal totalitarismo che aveva segnato l’Europa del Novecento

Nel libro questo emerge nel capitolo più intenso, perché animato da sentimenti contraddittori, quello dedicato a Brecht. Da un lato il riconoscimento di un grande poeta, dall’altro la presa di distanze dall’ultima conversione, quella stalinista del Secondo dopoguerra. Se è vero che «raramente i poeti sono stati buoni cittadini» (Arendt 2023, p. 235), è anche vero che il «solo autentico castigo che un poeta possa subire […] è la perdita improvvisa  di ciò che per tutta la storia dell’umanità, è apparso come un dono divino» (ivi, p. 239). E nel caso di Brecht questo avvenne “piuttosto tardi”, quando la sua vitalità iniziò a spegnersi nel passaggio a Berlino Est con la fondazione del Berliner Ensemble. La verità della poesia è inconciliabile con l’adesione muta ad una ideologia e ad una prassi totalitaria. Un poeta può fuggire dal mondo – è in qualche modo il suo destino (come lo è stato per Brecht nel suo esilio) –, ma non può precipitare silente in quel mondo quando questo è posto sotto il giogo del totalitarismo, senza far pagare un prezzo alto alla sua stessa poesia.

In quel mondo invece non precipitò Benjamin, al quale è dedicato nel libro uno dei capitoli più poetici. Benjamin che morì nella sua fuga, della sua fuga. O anche, paradossalmente, della sua impossibilità di fuga: aveva lasciato a Parigi buona parte della sua amata biblioteca (che non avrebbe mai più recuperato). Benjamin, che pur non essendo poeta (come Brecht, di cui era amico), «sapeva pensare poeticamente» (ivi, p. 178). Benjamin che ha saputo reinventare in forma moderna il rapporto con il tempo e la tradizione, privata del suo concatenamento causale, attraverso la “citazione”. Benjamin che ha saputo immaginare in forma nuova il rapporto moderno con lo spazio urbano inventando la figura del “flâneur”. Benjamin che ha saputo restituire il rapporto con la singolarità sottratta al “tipico” con la figura del “collezionista”: «Il collezionista distrugge il contesto in cui il suo oggetto è stato, un tempo, solo parte di un tutto vivente e più grande, e poiché per lui importa  solo l’unicità dell’autentico, dovrà purificare l’oggetto scelto da tutto ciò che lo rende tipico» (ivi, p. 223).

Benjamin, soprattutto, che ha saputo reinventare la critica letteraria, com’era sua ambizione: 

Lo scopo che mi ero proposto […] è quello di essere considerato come il primo critico letterario della letteratura tedesca. La difficoltà risiede nel fatto che, da più di cinquant’anni, la critica letteraria in Germania non viene più considerata come un genere serio. Farsi una posizione nella critica, significa […] ricrearla come genere (Benjamin cit. in ivi, p. 199).

Reinventare la critica significa distinguerla dal commento. Qui la Arendt riprende una lunga citazione di Benjamin tratta dal saggio su Le affinità elettive, in cui viene usata una metafora per spiegare la portata veritativa della critica. Se consideriamo «l’opera in sviluppo nella storia come un rogo, il commentatore gli sta davanti come il chimico, il critico come l’alchimista. Se per il primo legno e cenere sono i soli oggetti della sua analisi, per l’altro solo la fiamma custodisce un segreto: quello della vita» (ivi, p. 179).

Benjamin l’alchimista, il critico che custodisce la fiamma della vita generata dall’opera, e che per questo raggiunge il mondo con più forza, per via indiretta (da dove la portata euristica della metafora, su cui insiste la stessa Arendt nel suo ultimo ed incompiuto La vita della mente, 2009a).

In gioco è sempre il mondo e la posizione che il critico, il filosofo, il poeta prendono nei confronti di esso. Da un lato si ritraggono, ne prendono le distanze, sospendono il “senso comune”, dall’altro non possono che tornare ad esso, spendersi per esso. E proprio quando tale mondo è segnato dai “tempi bui” (Brecht), proprio quando il mondo sembra sparire, dissolversi, proprio in quel momento emerge il «candore del cielo e della terra, degli esseri umani e animali, della vita stessa» (Arendt 2023, p. 254) che chi “pensa poeticamente” deve saper cogliere.

Spendersi per il mondo significa farlo essere. Che vuol dire, per Lessing, a cui la Arendt dedica il bel saggio di apertura del libro, riportare il mondo sotto il discorso: «Il mondo non è umano perché fatto da essere umani e non diventa umano solo perché la voce umana vi risuona: il mondo diventa umano solo nel momento in cui diventa oggetto di discorso» (ivi, p. 47).

E più ancora, questo discorso sarà tanto più umano quanto sarà segnato dall’amicizia (l’etimologia stessa di filosofia ce lo dice), ben più che dalla fraternité della Rivoluzione francese: «Lessing considerava l’amicizia – tanto selettiva quanto la compassione è egualitaria – il fenomeno centrale in cui, sola, può attestarsi l’umanità vera» (ivi, p. 35). Ma l’amico include il rivale, colui che fa sì che il mondo si fa scena partecipata da due o più “pretendenti”. È la fondazione greca della filosofia, a cui la Arendt costantemente rimanda. La «rivalità degli uomini liberi» (Deleuze,  Guattari, p. XII) è quella che non solo dà consistenza al mondo, ma gli restituisce ampiezza e orizzonte, dati dalla presenza viva degli “altri”.

Il discorso per cui il mondo prende consistenza, ma manifesta anche pluralità e creazione del nuovo, sarà il discorso critico: 

La critica, nell’accezione di Lessing, significa prendere partito per il mondo e per la sua salvezza, comprendere e giudicare ogni cosa nei termini della sua posizione nel mondo, in qualsiasi momento. Una mentalità di questo tipo non potrà mai dar luogo ad una concezione del mondo definitiva che, una volta adottata, sia immune da esperienze ulteriori in quanto vincolata strettamente a questa prospettiva (Arendt 2023, p. 30).

La prospettiva critica è dunque quella che riconosce il mondo come plurale e non definitivo. Ed è quanto di più prezioso abbiamo per non sottometterci ai totalitarismi, anche quelli dell’opinione pubblica, per rivendicare quella libertà che, dai Greci ai Padri fondatori degli Stati Uniti (gli artefici della Rivoluzione americana), la Arendt ha continuato ad affermare (Arendt 2009b).

L’opera d’arte ha un rapporto privilegiato con la verità «non definitiva» che il discorso critico istituisce, perché «sa precipitare negli abissi delle antinomie umane», contrariamente alla filosofia che spesso «rimane sull’orlo del precipizio». Sono parole di Hermann Broch, che la Arendt cita nel capitolo a lui dedicato (2023, p. 153), riconoscendo che letteratura e poesia sono esenti dal rischio di rendere troppo compatto il mondo. 

E sono anche esenti dal rischio maggiore oggi, quello che nella costruzione di uno spazio pubblico, nell’ideazione di un mondo come effetto dei discorsi, sia reciso il legame con la Terra, e tutto diventi troppo trasparente, apparentemente prossimo ma infinitamente distante e inafferrabile. Il rischio oggi è che i “tempi bui” del totalitarismo (sequestro del mondo) diventino i tempi troppo luminosi ed accecanti dove tutto è mondo, e dunque nulla lo è. Cioè i tempi del sociale senza mondo alcuno, quelli che già prefigurava Heidegger con la frase – che torna più volte in L’umanità in tempi bui – «la luce di ciò che è pubblico oscura tutto».

Contro tale pericolo il libro della Arendt è un antidoto straordinario, perché mostra nel corpo vivo del pensiero e della vita di alcune grandi figure del Novecento, cioè attraverso una pluralità manifesta, come fuga dal mondo e rientro nel mondo definiscono un movimento pendolare ineludibile, quello dove la prossimità si fa distanza, e quest’ultima prossimità. Questo movimento è in definitiva quello dell’amore, verso il mondo e verso l’altro, come scriveva Heidegger alla stessa Arendt in una lettera del 1925: «La vicinanza è in questo caso essere alla massima distanza dall’altro – una distanza che non porta a confondere nulla – ma pone il “Tu” nel trasparente – ma inafferrabile – puro e semplice essere-qui di una rivelazione» (Arendt, Heidegger 2007, pp. 4-5). 

Riferimenti bibliografici
H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna 2009a.
Id., Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino 2009b.
H. Arendt, M. Heidegger, Lettere 1925-1975, Einaudi, Torino 2007.
R. De Gaetano, Critica del visuale, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2022.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2002.

Hannah Arendt, L’umanità in tempi bui, Mimesis, Milano-Udine 2023.

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