Qualcuno, tempo fa, ha coniato efficacemente l’espressione “Lubitsch’s touch” per definire lo stile inconfondibile che contraddistingue tutti i film del più grande regista di commedie che la storia del cinema ricordi. Un tocco che consiste nella grazia e nella leggerezza dietro cui, in molti casi, si cela una raffinata e pungente denuncia sociale. Sebbene, evidentemente, non con delle commedie abbiamo a che fare quando pensiamo al cinema di Ken Loach, è forse lo stesso tipo di “tocco” a fare, per esempio, di The Old Oak un film di una semplicità formale disarmante e allo stesso tempo di una forza persuasiva (pedagogica, nell’accezione più alta del termine) senza eguali.
È a tale immediatezza che il racconto, di questo e degli altri film di Loach, affida la propria politicità: non solo al tipo di storia che sceglie come oggetto – le vite sventurate di poveri, diseredati, ultimi in un senso non soltanto economico – ma al modo in cui questa stessa storia si struttura, in una narrazione che non cede mai a facili tentazioni intellettualistiche, in modo da non perdere di vista il proprio scopo, che è – starei per dire – politico in senso gramsciano, da un punto di vista contenutistico e formale insieme. Questa finalità è costantemente presente nell’intero lavoro di Loach, sebbene il mondo di cui si parla si sia trasformato così tanto negli anni da diventare addirittura un altro.
Forse non esistono più gli operai di Riff Raff (1991) e Piovono pietre (1993), forse l’economia mondiale è mutata e alla sovranità dell’industria si è sostituita un’economia informale e fluida, forse il Regno Unito non è più il centro del più grande impero coloniale, ma continuano a esistere ingiustizie e diseguaglianze sociali, come esistono ancora le periferie (che sono ormai periferie globali), in cui vivono gli ultimi di tutto il mondo. Chissà poi se Loach crede veramente che per gli ultimi il mondo sia cambiato e la globalizzazione non sia invece, soltanto, una accelerazione e radicalizzazione del sistema in cui chi non ha niente è consegnato a una tensione permanente. È di loro, ma soprattutto a loro, che il cinema di Loach parla ostinatamente da decenni, e per questa ragione quello che compie è letteralmente un gesto di resistenza, perché racconta di chi – contro tutto e tutti – pervicacemente, nonostante tutto, continua a esistere, desiderare, lottare. E ogni gesto di resistenza è fatto di poche mosse, calibrate e decise, proprio come gli elementi su cui Loach costruisce i suoi film.
L’essenzialità che mi pare definisca da sempre il tocco di Loach, si radicalizza in quest’ultimo lavoro, forse perché qui a parlare non sono più soltanto i poveri d’Inghilterra, ma anche quelli che provengono da un altrove (nello specifico, gli altri sono, in questo caso, migranti siriani). E allora, ancora di più che in passato, è necessario trovare un linguaggio che tutti siano in grado di comprendere. Mi pare sia questo il progetto che sta dietro a The Old Oak, perseguendo Loach lo stesso l’obiettivo che ogni buona politica dovrebbe prefiggersi: parlare in modo semplice, diretto e persuasivo, anche quando a essere veicolati sono contenuti difficili da essere metabolizzati, non diversamente da come fanno, per esempio, le parabole evangeliche. In questo senso, credo si possa definire universalista il progetto di Loach che, proprio come accadde nel caso di San Paolo, passa attraverso la fondazione di una nuova antropologia, di cui The Old Oak racconta la nascita.
Yara, la giovane fotografa, protagonista del film, parla bene inglese, lo ha imparato nel tempo che lei, la madre e i suoi fratelli hanno trascorso in un campo profughi, in attesa di raggiungere l’Inghilterra. Lo ha imparato per necessità, e ora riesce a comunicare con gli abitanti del quartiere in cui il comune ha trovato alloggio per il gruppo di profughi siriani, di cui Yara e la sua famiglia fanno parte. Con TJ Ballantyne, proprietario di un vecchio pub della zona, soprattutto, la ragazza stringe un rapporto intenso: trova forse in lui il padre che, fuggendo, ha lasciato in Siria. Lo stesso fa lui, che alla ragazza parla come farebbe con suo figlio, con il quale, invece, non ha più rapporti da anni. Parlando, i due possono conoscersi e imparare a comprendersi. Non sono in grado di fare lo stesso gli altri del gruppo che non parlano ancora l’inglese.
L’idea di una mensa in cui mangiare tutti insieme nasce proprio dall’esigenza di trovare un modo per apprezzare le reciproche diffidenze. Il cibo condiviso è il primo veicolo per la costruzione di un nuovo spazio di convivenza. Allo stesso scopo, sono usate le fotografie che Yara scatta per le strade del suo nuovo quartiere e che ritraggono gli uomini, le donne e i bambini – inglesi e siriani – che lo abitano. Sui muri del locale di TJ, sono esposte le fotografie che raccontano la vita del quartiere molti anni prima: il lavoro, le miniere, le lotte e gli scioperi che seguirono alla loro chiusura: una storia di cui TJ è già un semplice erede. È un mondo che non esiste più quello che vecchie fotografie raccontano: al suo posto c’è ora una realtà diversa che la macchina di Yara ha catturato e che tutti gli abitanti del quartiere per la prima volta riconoscono (come se mai prima si fosse palesata), quando insieme assistono a una proiezione delle fotografie che la ragazza ha scattato. Si cercano, si guardano, imparano anche in questo caso a conoscersi.
È persino ridondante dire che stiamo parlando qui, oltre che di fotografia, anche di cinema: del cinema dello stesso Loach, che è convocato in prima persona dentro il lavoro di costruzione comunitaria che racconta. Si tratta, però, evidentemente, di una comunità (è forse questa l’intuizione più politica del film di Loach) che non è più cementata sull’identità, la prossimità quasi totale, come accadeva nella società fordista, raccontata in tutti i film precedenti a questo, ma su delle differenze pure estreme. Il cibo e le immagini suscitano quello che il linguaggio verbale da solo non può fare: costruiscono le basi di un cosmo nuovo di relazioni che dobbiamo imparare a riconoscere, a cui appartengono gli uomini e le donne di ogni provenienza, così come pure – allo stesso titolo – gli animali: la cagnetta di TJ, per esempio, che ha salvato letteralmente la vita del suo padrone e che, non diversamente da altri, è vittima del sistema vessatorio di un mondo ingiusto.
A fronte della semplicità formale che abbiamo già sottolineato, la posta che il film mette in gioco su un piano filosofico-politico è di grande rilievo, perché ciò di cui ne va qui è addirittura la proposta di un nuovo pensiero dell’umano: risultato di uno spostamento, di un decentramento, piuttosto che di un vero superamento/ribaltamento dei modelli antropologici, a cui persino il cinema di Loach ci ha abituato. In questo senso, mi pare di poter dire che Loach si conferma, forse più radicalmente che altrove, un vero materialista dialettico. Non si tratta, per dirla molto sinteticamente, di pensare l’uomo nuovo in contrapposizione al passato, al contrario.
In effetti, sul finire del film in cui la nuova comunità, di cui The Old Oak mette in scena il suo venire al mondo, si consolida. È il momento in cui Yara riceve la notizia della morte del padre in Siria. Silenziosamente, uno dopo l’altro, gli abitanti del quartiere, compresi quelli che avevano mostrato ostilità per i nuovi arrivati, raggiungono la casa della famiglia in lutto: portano un fiore, abbracciano Yara, sua madre e i suoi fratelli. Una folla composta si ritrova in un improvvisato rito funebre, in cui – dettaglio non indifferente – manca il corpo del defunto. La mente dello spettatore va al sepolcro vuoto di Cristo, attorno a cui simbolicamente si è ritrovata la schiera dei suoi seguaci, dopo la sua morte. L’accostamento è azzardato, lo so, ma il film di Loach ci consente di farlo.
Quello a cui assistiamo è, infatti, il funerale di un nuovo, povero Cristo, una volta palestinese, oggi siriano e musulmano, con ogni probabilità. È lui il capro espiatorio al cui sacrificio fa seguito la possibilità di reimmaginare l’umano (rinato sotto nuove spoglie) e inventare una comunità che si ritrova in festa, nel rito laico che chiude il film. Ciò che – in The Old Oack – resta dell’uomo Cristo è infatti solo l’uomo, senza altre qualità se non quella di essere come ogni altro, compresi noi. Si compie così il gesto più materialista di un regista politico come Loach, in grado, nonostante l’orrore che ci circonda, di resistere, maneggiando tracce di uno spartito già noto e, al tempo stesso, immaginando l’apertura a un futuro migliore del presente avvilente in cui siamo immersi.
The Old Oak. Regia: Ken Loach; sceneggiatura: Paul Laverty; montaggio: Jonathan Morris; musiche: George Fenton; interpreti: Dave Turner, Ebla Mari, Debbie Honeywood, Reuben Bainbridge, Rob Kirtley, Andy Dawson, Chris Gotts, Lloyd Mullings, Joe Armstrong; produzione: Rebecca O’Brien; distribuzione: Lucky Red; origine: Regno Unito; durata: 113′; anno: 2023.