Nel gennaio del 2023 è uscito L’ultima innocenza di Emiliano Morreale, prima prova romanzesca di un critico e studioso di cinema. Il libro coinvolge direttamente la sua esperienza e la sua attività nel campo di quella che un tempo si definiva, con un complesso di inferiorità, la “Settima arte” e che ora appare ridotta a un medium tra gli altri della nostra quotidianità. L’autobiografia fornisce la cornice e il motore di sei racconti dedicati ad anomali personaggi cinematografici e imprime alla narrazione il ritmo, teso e avvolgente, di una ricerca avventurosa tra le pieghe e le piaghe della storia del cinema. L’io narrante si ritrova a vagare in una sorta di mitica “selva oscura” e di infernale paradiso perduto, come ci appare, mediante i suoi occhi, il grande schermo, vissuto o rievocato, del Novecento.
Morreale ci immerge in un viaggio fra le rovine, materiali e simboliche, di un cinema e di un secolo che attraversano eventi cruciali della nostra storia sociale e culturale. Al centro dei suoi sei racconti ci sono quasi sempre personaggi infimi e, allo stesso tempo, sublimi, che abitano le periferie del sogno cinematografico, che innescano una lotta accesa e alla fine inutile e perdente con le proprie identità. La duplicazione o la scissione della personalità attraversa psicoanaliticamente tutte le storie, intrecciando continuamente l’illusione esistenziale e quella cinematografica, le rocambole della finzione e quelle della realtà.
Il primo racconto che potremmo leggere, al pari degli altri, come un “resoconto” o una “ricostruzione” di fatti realmente accaduti, è intitolato significativamente Terra dei sogni e rievoca la giovinezza di Morreale in terra di mafia, la frequentazione del cinema Lubitsch gestito da Ciprì e Maresco e la vicenda di Giuseppe, figlio del boss mafioso Michele Greco, che si cimenta con il cinema da produttore e poi da regista adottando lo pseudonimo di Giorgio Castellari.
La seconda narrazione di storie vere dai tratti fantastici e inverosimili, scoperta per caso quando Morreale dirige la Cineteca Nazionale, ha per titolo soltanto W. (come M di Fritz Lang) e riguarda le peripezie in Italia e Spagna di Michał Waszyński, un regista ebreo e omosessuale che giunge nel nostro paese al seguito delle truppe del generale inglese Anderson, filmando la battaglia di Montecassino. Si finge un nobile polacco eterosessuale, entra nell’ambiente dell’aristocrazia romana, dirige alcuni film, collabora con Orson Welles, diventa una sorta di tramite della Hollywood sul Tevere per finire poi insieme al produttore Bronston, parente di Lev Trockij, nella terra di Franco e morirvi.
La terza storia comincia con una citazione da Proust sul melodramma e ha per titolo, certo non casualmente, Come le foglie al vento. Riguarda infatti la vicenda incrociata di Klaus, figlio di Douglas Sirk, e di Thomas, figlio di Veit Harlan, autore del famigerato film nazista Süss l’ebreo. Questa volta il movente autobiografico è il corso sul melodramma che Morreale tiene all’Università di Teramo. Come in La terra dei sogni viene in primo piano il rapporto tra genitori e figli, la necessità del distacco e della rivolta e insieme il trauma insuperabile legato alla figura paterna.
Alla tragica fine di Thomas, il figlio perduto di Sirk, si intreccia la folle inchiesta di Thomas sui crimini nazisti, la sua militanza nella sinistra extraparlamentare, la sua breve carriera di regista e narratore che termina la propria vita con un libro incompiuto sul padre. Il racconto, pieno di coincidenze casuali e di segni del destino, come un consapevole meta-melodramma, è articolato in due tempi alla maniera di un testo cinematografico e presenta una struttura circolare mostrandoci all’inizio e alla fine Klaus e Thomas, bambini innocenti su cui pesa la morsa della famiglia e della storia.
Il quarto racconto, intitolato Tutto sarà perdonato, comincia e termina con i funerali di Alberto Grifi, a cui è presente l’io narrante. Morreale si cimenta con la storia del film Anna (1975) qualche anno dopo, quando è direttore della Cineteca Nazionale, avvalendosi del contributo essenziale della sua collaboratrice Annamaria Licciardello, che meglio di ogni altra conosce le vicende artistiche e umane di Grifi. La narrazione si fa sempre più toccante e il rapporto tra cinema e vita balza in primo piano, senza alcuna sbavatura retorica, anzi con uno sguardo spietato che mette in gioco la distanza tra lo schermo e la realtà, l’impenetrabilità e l’imprendibilità dell’esistenza attraverso i metodi del pedinamento zavattiniano evocato da Grifi, la crudeltà della videocamera che perseguita per i propri fini la vittima prescelta.
La «scomoda» Anna diventa la presenza di un’assenza, mettendo in luce la stessa natura del cinema. E non a caso il racconto delle sue enigmatiche vicissitudini e della sua scomparsa è l’unico accompagnato da una foto, che ci pone davanti l’“esserci stata” di Anna. Intorno a lei, nel frattempo, le coincidenze della cronaca dei tempi disegnano altri destini tragici, come quello dell’elettricista Vincenzo Mazza, colui che si era preso inutilmente cura di Anna, ucciso a Campo de’ Fiori dal fratello di Gian Maria Volontè, Claudio, che si suiciderà poco dopo in carcere.
La quinta parte dal titolo E se tu non vieni rimanda a un film erotico del 1977 di Arnold Frank e, contemporaneamente, al senso di impotenza e di distruzione legato all’ossessività della performance erotica e della sua spettacolarizzazione. Il movente del racconto è il viaggio per presentare Racconti di cinema, un’antologia di testi di scrittori e artisti sulla settima arte che Emiliano Morreale ha curato con Mariapaola Pierini nel 2014 per Einaudi. Dopo una folle corsa in auto, come in un thriller, l’io narrante incontra, nella biblioteca in cui si svolge la presentazione, Franco Grattarola, che ha scritto nel 2014, insieme ad Andrea Napoli, il libro Luce rossa, recensito da Morreale sul “Sole 24 Ore”.
L’entrata nell’appartamento di Grattarola spalanca la porta a una teoria di strani e psicotici personaggi del genere porno, che sembrano arrivare da altri pianeti, e coinvolge la memoria del narratore riguardo ai titoli e ai manifesti visti da ragazzo negli anni ottanta e alla sua prima entrata in una sala a luci rosse, con vagine alte due metri, spaesanti come i primi piani dei volti alle origini del cinema. Ma alla fine quella stagione pornografica viene guardata quasi con nostalgia, come emblema di un’epoca del cinema e della vita ormai scomparsa, in cui vigeva ancora il rito collettivo della sala. Nell’era dei computer e della continua spettacolarizzazione del sé sulla rete, la pornografia è diventata, come commenta Morreale, uno stile di vita quotidiana che ha perso le sue fantasmagoriche illusioni e le sue catarsi.
Il titolo dell’ultimo racconto, La donna perduta, è apertamente un altro rimando al melodramma che unisce la vita e il cinema e, insieme, alle investigazioni dello scrittore che incontra vuoti e mancanze. Elaborata nei tempi di isolamento per il Covid, l’idea arriva da un post su Facebook e riguarda Dorothy Gibson, attrice sopravvissuta alla tragedia del Titanic che durante la guerra si trova in Italia e finisce nel carcere di San Vittore da cui fugge insieme a Indro Montanelli, coinvolta in un traffico di spie. Il racconto è inframezzato dalle incursioni in casa del narratore di uno strano e inquietante amico sceneggiatore, che ha trascorsi nel porno. Contemporaneamente la storia di Dorothy Gibson diventa un’ossessione che penetra nei sogni dell’autore malato di labirintite, portandolo a interrogarsi sulla sua vita privata e a svolgere un’amara riflessione sui maschi della sua generazione definiti «Swann da precariato intellettuale, Werther in andropausa».
Ma più desolato ancora è il finale in cui lo scrittore, dopo aver progettato un viaggio alla Library of Congress di Washington per recuperare gli unici otto minuti rimasti del film The Lucky Holdup dove compare Dorothy Gibson, viene a sapere che le immagini del film sono sul Web e scopre che l’attrice le attraversa per pochi secondi. Si trova così di fronte all’ennesima perdita, all’ennesima scomparsa, su cui si fonda la continua riattivazione dell’immaginazione, del mistero, dell’enigma, del corpo defunto e macerato della storia. Dopo aver coinvolto, più che nei precedenti schizzi di vite anomale e perdute, un uso continuo di termini tratti dal linguaggio cinematografico, il film-racconto di Dorothy si chiude con un ritorno da automa alla realtà del narratore, che scambia messaggi sul cellulare con una donna e termina la conversazione invocando “più luce”, come Goethe sul letto di morte.
Del resto la morte e le tombe sono stati i fili conduttori di tutti i racconti. Morreale ha cercato i sepolcri, le urne dei deboli, più che quelle dei “forti”, e si è aggirato tra le carte e i documenti quasi come un prestigiatore capace di animare corpi spettrali e sostanze liquefatte, allo stesso modo delle pellicole che ancora ne restituiscono le tracce. Ha interpretato, talvolta in maniera consapevolmente parodica, il ruolo dell’investigatore, che fa i sopralluoghi, spolvera gli archivi, semina e raccoglie indizi, visitando i retroscena e i sotterranei del cinema e dei suoi diversi generi, alla ricerca di un senso delle vite e dei film che rimane inevitabilmente sospeso tra apparizioni e disparizioni, ombre esistenziali e luci da camposanto.
La sua scrittura è segnata da uno stile che intreccia continuamente descrizione e trasfigurazione, parole che sembrano calarsi in una stasi contemplativa o correre come quelle di un insolito reporter verso l’esito finale di uno strano e coinvolgente torneo di vite allo sbando. In questa visita ai recessi del cinema e della storia, il lettore si ritrova preso in un ritmo che passa continuamente dall’indagatore all’indagine, coinvolto non soltanto nel decifrare i segni delle storie narrate ma anche delle vicende del narratore, che allude, senza pienamente svelare, a persone o cose che ha incontrato nel suo cammino. Da qui scaturisce in chi lo conosce, seppure non profondamente, una serie di riconoscimenti ma anche di interrogativi che rimangono senza risposte certe.
A questa specie di suspense capovolta, della vita oltre che del racconto, rimanda anche il titolo L’ultima innocenza, tratto da Rimbaud e illustrato da un’immagine materna di Jane Wyman che stringe al seno la testa di Rock Hudson in La magnifica ossessione di Douglas Sirk. Il melodramma torna a siglare quelli che possiamo definire i titoli di testa del libro, in un cortocircuito esemplare tra l’“innocenza” dei personaggi, dell’io narrante e di una stagione, ormai lontana, del cinema, della storia e della vita. La Nota dell’autore posta a conclusione del volume completa i titoli di testa e riprende la falsariga dei cosiddetti titoli di coda, offrendo l’elenco delle fonti e il solito proclama sulla verità e la finzione del film-racconto. Manca soltanto, come avveniva un tempo nel cinema, la parola FINE, stampata a caratteri cubitali sull’ultima immagine di innocenza perduta: il narratore che “messaggia” con il suo cellulare.
L’ultima innocenza, Emiliano Morreale, Sellerio, Palermo 2023.