“L’ultima diva”: così, senza troppa fantasia, i titoli di molti quotidiani hanno definito Valentina Cortese all’indomani della sua morte. L’epiteto di “Diva!” – con il punto esclamativo – è anche quello che Francesco Patierno ha scelto per il suo film omaggio presentato alla scorsa edizione della mostra di Venezia, in cui otto attrici italiane si confrontano con la figura di Cortese recitando brani della sua autobiografia, Quanti sono i domani passati (2012).

Diva lo è stata, ma forse non l’ultima e nemmeno la più luccicante: ha amato circondarsi di un’aura di creatura eccentrica e fuori dal tempo, con gli immancabili foulard colorati calati a filo degli occhi verdi, a incorniciarle il viso. Un’immagine forte, persistente, che l’ha sigillata in una dimensione eterea e inattingibile, lontana dal resto del mondo. Eppure, come si evince dalla visione di Diva!, la sua essenza andava ben al di là di questa accurata costruzione, così come la sua recitazione era un irreplicabile impasto di toni, di gesti, di vivezza di presenza che era insieme spensierata e nervosa, fragile e incisiva, ironica e tragica.

Infatti, le attrici del film di Patierno, proprio nel momento in cui le rendono omaggio, ci fanno capire come la materia di cui era fatta Valentina Cortese non fosse un generico talento, né un altrettanto generica aura di diva d’altri tempi. Le dive di oggi, esaltando Cortese, ne rimangono schiacciate, appaiono piccole e piuttosto scontate, incapaci di frequentare quella zona pericolosa tra artificio estremo e improvvisa rivelazione, tra straniamento e messa a nudo di sé. Bernard Dort, in un ritratto, l’aveva definita “la contraddizione”, cogliendone appunto i caratteri ossimorici, le peculiari polarità che contraddistinguono i grandi attori, capaci di «essere e non essere, di sapere e non sapere, di mentire e di essere sinceri». Attori ingombranti, scomodi, difficilmente plasmabili.

Valentina Cortese era ingombrante, o certamente lo è diventata da un certo momento in poi della sua carriera, che è stata lunga e molto mossa, molto più di quanto appunto lasciasse intravedere la sua icona divistica. “Intermediale”, intanto – come sottolinea il titolo di un volume collettaneo a lei dedicato, recentemente uscito per i tipi di Mimesis – che si è dipanata tra cinema, teatro, radio e televisione, in un percorso segnato da brusche svolte, improvvise accensioni, folgorazioni e rotture. Una carriera non assimilabile a nessuna stagione – fatta eccezione forse per il fondamentale sodalizio con Strehler e il Piccolo Teatro – che prende le mosse negli anni quaranta, quando giovanissima ottiene addirittura due contratti contemporaneamente, dalla Scalera e dall’ICI Film. Aveva tentato di iscriversi all’Accademia di Arte Drammatica ma era arrivata a corsi iniziati, e così la sua formazione venne, come spesso accade, direttamente dall’esperienza.

Valentina Cortese in "Un americano in vacanza"
Un americano in vacanza (Zampa, 1945).

Del suo esordio sul set di L’orizzonte dipinto (1941) di Guido Salvini, ricorda: «Successe tutto così in fretta che andai in scena dimenticandomi persino di avere paura». Molti anni più tardi, a proposito del suo rapporto con la macchina da presa, affermò di non aver mai avuto paura di quell’occhio che la guardava dentro. Effettivamente ciò che colpisce a rivederla nei suoi primi film e poi soprattutto a partire da Un americano in vacanza (Zampa, 1945) e Roma città libera (Pagliero, 1946), quando si è lasciata alle spalle i ruoli ancora acerbi di giovane innamorata, è proprio la sicurezza, la perfetta padronanza della propria presenza. In questi film Cortese modula la sua recitazione in modo molto più sottile di quanto forse il contesto non richieda e di quanto non facessero le sue coetanee: è vivacissima e mobilissima, nel volto e soprattutto nella gestualità delle mani, che infatti diventeranno uno dei perni delle sue performance.

Piccoli gesti talvolta bizzarri, modi peculiari di toccare gli oggetti, di toccarsi il viso, di mostrare un’estrema reattività, nervosa e a tratti un po’ sopra le righe. Anche la voce, benché ancora trattenuta in un eloquio tradizionale, senza coloriture particolari, lascia intravedere quella che si apprestava a diventare un’altra peculiarità. Una voce da lei stessa definita «flautata», che però si muoveva rapidissima sulle sillabe, con ritmi sincopati, sottolineature, arzigogolando tra una specie di sussurro precipitoso e improvvisi toni gravi.

Nell’immediato dopoguerra viene associata alle attrici su cui il cinema italiano punta per la propria rinascita, dentro e fuori i confini del neorealismo. Come Valli, Miranda, Calamai, Gioi, Del Poggio, Parvo, Berti, anche Cortese compare sulle copertine dei rotocalchi; la sua immagine è però più sfuggente, perché la sua bellezza non è facilmente assimilabile a un modello, perché quella presenza mobilissima e nervosa, popolare e aristocratica, mal si adatta alle pose languide e sensuali di quelle copertine “acchiappa lettori”. Come Alida Valli, finisce per partire per Hollywood, grazie a un contratto con la Twentieth Century Fox. E questa partenza, condita di tutta la retorica dell’abbandono della patria, della nostalgia di casa, ha ampio risalto su quelle pagine: “Anche Valentina è partita” dicono i titoli, e per certi versi sembrano dirci che non tornerà, preconizzando la dimensione tangenziale agli andamenti del cinema italiano che si darà al suo ritorno.

Dell’esperienza d’oltreoceano vale la pena di ricordare I corsari della strada (Thieves Highway, 1949) di Jules Dassin, dove Cortese (che in USA diventa Cortesa), nei panni non troppo lusinghieri della prostituta italiana, offre una performance sicura e densissima, a dispetto della lingua non sua e della poca dimestichezza con la macchina hollywoodiana. Cortese sa stare nel cliché etnico che le viene assegnato ma lo riempie di una vivacità e di un’ironia – che sa farsi anche auto-ironia – che le permettono di duettare con Richard Conte tra seduzione, scaramucce, accessi di passione e piccoli gesti amorevoli. La sua Rina è un personaggio tutt’altro che scontato di prostituta dal cuore d’oro, è una minuziosa costruzione, una vera e propria partitura.

Valentina Cortese in "I corsari della strada"
I corsari della strada (Dassin, 1949).

Forse è qui che comincia a definirsi con maggiore nitidezza la materia di cui è fatta Cortese che, infatti, al suo ritorno in Italia, fatica a trovare un posto. Fatta eccezione per Le amiche (1955) di Antonioni, in cui recita con vibrante e rattenuta intensità la parte di Nene, Cortese sembra leggermente fuori sincrono rispetto al cinema del suo tempo, sempre più associata a ruoli da coprotagonista, quasi da caratterista, spesso in film non italiani. È troppo densa, troppo eccentrica, poco plasmabile, e la sua bellezza un po’ spigolosa, sofisticata e nervosa è distante dalla procacità delle maggiorate del tempo.

Nel 1965 arriva Strehler a segnare una svolta e una definitiva consacrazione della sua statura d’attrice. Il regista funge da detonatore di uno stile di performance in cui voce, gesti e corpo costruiscono una tessitura che, come scrive Federica Mazzocchi, insegue una dimensione fantastica, non quotidiana, capace però di attirare lo spettatore all’interno del personaggio, un personaggio che è sempre in bilico, in equilibrio precario. Gli anni strehleriani – e gli incontri con Brecht, Pirandello, Bertolazzi fino alla Liuba del Giardino dei ciliegi del 1974 – definiscono anche lo stile Cortese tout-court, quello che richiamavamo all’inizio, all’insegna della ridondanza e dell’eccentricità.

Come scrive ancora Mazzocchi, Cortese oscilla tra un’immagine di gusto camp e il clown triste, diventando una figura della “finzione”, del travestimento e della teatralizzazione. E questa immagine e questo stile di performance risuoneranno in molti altri registi che le offrirono occasioni ulteriori per declinarli, per giocarci – da Visconti a Chereau, da Fellini a Truffaut. E che troverà, non a caso, spazio anche nel cinema di genere. Ma Séverine, l’attrice smemorata di Effetto notte (1973) è forse, su tutte, la testimonianza più alta della sua arte.

Quella lunga sequenza, con i suoi ciak ripetuti, le battute scritte sui fogli, le porte sbagliate, le crisi di pianto, la proposta di recitare con i numeri – je fais toujours comme ça avec Federico – è, per paradosso, la scena di una grande attrice, probabilmente l’ultima davvero grande. Capace di far finta di dimenticarsi le battute pur dicendole ogni volta con una nuova luce, di affastellare registri, di impastare tragico e comico. Un’attrice che non può smettere mai di recitare proprio per mostrare la sua verità, capace di perdersi in se stessa, senza paura.

Valentina Cortese in "Effetto notte"
Effetto notte (Truffaut, 1973).

Riferimenti bibliografici
A. Baldi, Le nove vite di Valentina Cortese, ETS, Pisa 2013.
V. Cortese, Quanti sono i domani passati, a cura di E. Rotelli, Mondadori, Milano 2012.
F. Mazzocchi, Tra Brecht e il «camp».Valentina Cortese recita Harold Pinter, in Valentina Cortese. Un’attrice intermediale, a cura di C. Formenti, Mimesis, Milano 2019.

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