Trent’anni fa si spegneva a Roma un signore conosciuto anche con nomi diversi ma dichiarato all’anagrafe come Luciano Salce. Per una intera generazione di spettatori televisivi era il nome associato al volto di un affabile gentiluomo dotato di un caustico senso dell’umorismo. Per i millennials, il suo è un nome perso nella notte delle storie del cinema, riconducibile al massimo ai primi due immarcescibili capitoli della saga di Fantozzi. In realtà, Luciano Salce è stato una figura incredibilmente eclettica, la cui parabola attraversa in modo esemplare tutta l’evoluzione del sistema dei media e dello spettacolo del Novecento.
La sua vita inizia come un romanzo di appendice di Carolina Invernizio (la madre che muore praticamente di parto e il padre che lo manda in collegio dai gesuiti fino alla maggiore età), inclina verso suggestioni goethiane (la folgorazione del teatro e l’abbandono degli studi giuridici) e si trova quindi a fronteggiare la più atroce delle esperienze (la deportazione in un campo di concentramento dopo l’armistizio, dove resterà per ben due anni, fino al termine del conflitto). A 23 anni, Luciano Salce si affaccia alla vita adulta avendo già vissuto più sofferenze e stravolgimenti di quanto la maggior parte degli esseri umani ne affronti nel corso di una vita intera. Cultura raffinata, intelligenza fuori dal comune, una infinita voglia di leggerezza e divertimento pronta a lasciare il posto all’amarezza, al cinismo e alla disillusione di chi sa benissimo che la vita è anche e soprattutto principio di realtà, dunque sofferenza.
Nei quindici anni che vanno dalla seconda metà degli anni quaranta agli anni sessanta entra in contatto con tutto il mondo dello spettacolo italiano e tutte le esperienze mediali e spettacolari che si possano immaginare. Scrive, recita, dirige, sia testi altrui sia testi propri, lavora in Italia e all’estero, specialmente in Francia e in Brasile (ma persino nell’Est Europa), alternando teatro drammatico e teatro leggero, lirica e teatro di varietà. È compagno e amico di una infinità di figure destinate a segnare un’epoca, da Vittorio Gassman (che gli soffierà la seconda moglie, provocando una ferita difficile da rimarginare) a Luigi Squarzina, da Franca Valeri a Paolo Panelli, da Luchino Visconti a Monica Vitti, da Giorgio Strehler ad Adolfo Celi, Ruggero Maccari, Ettore Scola e moltissimi altri. Fra le altre cose, lavora per la radio, sia come attore sia come autore e, da subito (dal 1954), per la televisione, dove arriva dopo aver diretto un paio di commedie in Brasile.
Salce è brillante, ironico, caustico e amarissimo. Il cinema continua a intrigarlo e la prima regia italiana, del 1960, riguarda un sofisticato vaudeville di Hannequin, Le pillole di Ercole, nel quale già si ritrova un cast di primissimo livello (Vittorio De Sica, Nino Manfredi, un giovanissimo Oreste Lionello e molti altri), ma sono i due film successivi ad imporlo come una delle figure maggiormente capaci di interpretare lo spirito distruttivo della nascente commedia all’italiana, vale a dire Il Federale (1961) e La voglia matta (1962). Di tutti i personaggi mostruosi che vengono elaborati dalla generazione di Salce (per esempio, dallo stesso Rodolfo Sonego che scrive Il carro armato dell’8 settembre…), forse il vigilante autistico, fedele al verbo mussoliniano anche dopo la fine di tutto, magistralmente reso da Ugo Tognazzi, è il più spaventoso e realistico, proprio perché è il più stupido. E la sua stupidità è fatta risaltare ancor di più dal confronto con la saggezza profonda e commovente dell’anziano professore antifascista che legge L’infinito di Leopardi e prova disperatamente a far scaturire una scintilla nella mente ottusa del suo compagno e carceriere. Ovviamente, gran parte del merito va a Castellano e Pipolo, autori della sceneggiatura, a Tognazzi, a Ennio Morricone che inizia qui il suo lavoro cinematografico, ma Salce qualcosa di suo sicuramente l’ha messo, non fosse altro nella scelta del soggetto e nell’assemblaggio di tanti talenti a lui affini.
Quanto a La voglia matta, giustamente Mariapia Comand, nel suo libro sulla commedia all’italiana, dovendo scegliere fra la quantità smisurata di titoli disponibili, lo ha inserito nella cinquina dei più rappresentativi, per la straziante pervicacia con cui, ancora una volta, Tognazzi si lascia spogliare della propria dignità per inseguire un desiderio implacabile, che non è semplicemente per il corpo sensuale della giovanissima Catherine Spaak, quanto per l’idea di appartenere a una nuova e diversa generazione, di poter scegliere il tempo storico della propria vita e poter essere giovane in un tempo di opulenza, piacere, serenità, rottura delle inibizioni eccetera eccetera.
Da qui in poi, il percorso cinematografico di Salce – che nel frattempo prosegue sia sul versante teatrale sia su quello televisivo – si dispiegherà fra il polo della massima visibilità e quello della massima invisibilità. Salce, infatti, firma successi commerciali ragguardevoli: il Guido Tersilli (1969) che si classificherà terzo nel box office della stagione ’69-70, il Fantozzi (1975) che sarà il campione della stagione ’74-75 e ben due titoli da top ten nel 1976 (Il secondo tragico Fantozzi e L’anatra all’arancia). Se ne può dedurre che Salce ha rappresentato la strategia dell’intrattenimento cinematografico negli anni dell’impegno e del cinema d’autore? Neanche per idea. Già nel 1967 aveva portato al cinema la propria versione teatrale di un testo caustico e complesso come Ti ho sposato per allegria di Natalia Ginzburg.
Ma è tra il 1968 e il 1969 che Salce porta sullo schermo due sceneggiature di Ennio De Concini che, da un certo punto di vista, rappresentano altrettanti rarissimi esempi di cinema autenticamente di rottura. Nel senso che la loro lettura delle dinamiche in atto sullo scenario politico esistente sono talmente realistiche e perturbanti per tutti gli attori in campo da essere perentoriamente attaccate e rifiutate, praticamente cancellate, secondo un principio di censura implicita che non ha corrispettivi nel nostro paese. Parliamo di La pecora nera (1968) dove si racconta di due gemelli diversi, una quarantina di anni prima di Roberto Andò, uno dei quali è un onorevole irreprensibile che vuole moralizzare la vita pubblica italiana e l’altro un imprenditore cinico e privo di scrupoli.
Non ci vuole molto a capire chi dei due avrà successo, come non ci vuole molto a capire perché Colpo di Stato (1969) sia diventato un film fantasma. Eliminato subito dalla distribuzione, cancellato da ogni programmazione televisiva, mai distribuito in video, questa parabola formidabile racconta di una tornata elettorale in cui a vincere è inopinatamente il Partito Comunista e questo determina una serie di sconvolgimenti tali da indurre gli stessi vertici del PCI a dichiarare nulle le elezioni e a pretendere di tornare al ruolo molto più consono di opposizione moderata. Con netto anticipo sulle politiche dell’eurocomunismo e del compromesso storico, ma anche rispetto agli apologhi su politica e potere che Elio Petri elaborerà negli anni a seguire, Salce sembra avere un’idea tutt’altro che rassicurante della situazione politica italiana e del consociativismo soggiacente. Un’idea che è al fondo della comicità amarissima di Fantozzi (spostato dallo scenario esistenziale dei racconti di Villaggio alla istituzione totale della megaditta) e anche di un piccolo gioiello di satira politica che risponde al titolo Il sindacalista (1972), altro film fastidiosissimo per tutti sulla piega preoccupante che la gloriosa istituzione plasmata da Giuseppe Di Vittorio andava assumendo nell’epoca del “posto fisso”.
Alla fine, il vero testamento artistico di Luciano Salce è un capolavoro che finge di essere l’ennesima commediaccia demenziale che Lino Banfi sfornava in quegli stessi anni. Parliamo di Vieni avanti cretino (1982), una tenerissima carrellata sulla storia dell’avanspettacolo dal dopoguerra in poi. Con una strizzata d’occhio al grande varietà americano, nel film c’è tutto, una forma teatrale che stava finendo e si è dovuta reinventare sullo schermo, oscillando fra vette assolute di intelligenza sintetica e cadute nella più banale trivialità, Totò, Fellini, Lattuada, Monicelli, Alberto Sordi, il teatro dialettale ma anche Buster Keaton che flirta con Beckett, il Chaplin di Luci della Ribalta e Jacques Tati, in uno spietato ritratto/autoritratto di quel carattere bizzarro che contraddistingue gli italiani e in una riflessione, sempre semiseria, di quanto possa essere assurda, tremenda e irresistibile la vita. Alla fine, Luciano Salce ha soprattutto cercato di usare la sua intelligenza per rendere più leggero il dramma che l’esistenza gli aveva posto davanti fin dalla nascita. Quale migliore definizione del termine “commedia”?
Riferimenti bibliografici
M. Comand, Commedia all’italiana, Il Castoro, Milano 2010.