Sono note le venefiche pagine che Testori scrisse contro Visconti, dopo la loro rottura avvenuta nel 1972, pensate come appendice all’Ambleto. Appena prima del litigio risale invece Luchino, che è di tutt’altro segno: nonostante gli screzi già intercorsi intorno all’allestimento della Monaca di Monza nel 1967, è un omaggio al regista con cui Testori aveva intrecciato rapporti sin dal 1958. Dove non poterono gli attriti professionali poterono quelli personali: la rottura si consumò notoriamente per una parte negata al giovane Alain Toubias in Ludwig (1973).
Chiuso tra un avvio e un epilogo di levigata prosa letteraria, questo breve ma denso ritratto di Visconti (talora evocato in terza persona, talora interpellato in prima) non difetta certo di ambizione (si propone di «affrontare veramente nel profondo il suo mondo poetico»). Se fosse stato pubblicato nel 1972, avrebbe rappresentato una novità nella letteratura sul regista. Non che vi manchino sviste e luoghi comuni già assestati (come nelle meditazioni sul tema della famiglia, sul rapporto con la madre, sulla dolente solitudine dall’artista, con tanto di retrogusti psicoanalitici). Nuova sarebbe stata però la forma della commistione tra pubblico e privato, tutto fuorché accademica ma altresì opposta nelle intenzioni sia alle sgraziate insinuazioni della stampa di destra, sia ai vagiti ancora ingenui di quella omosessuale (le uniche che osassero attraversare quei territori minati). Testori colloca così tra gli elementi fondanti del «mondo poetico» di Visconti il «rischio e, diciamolo pure, la provocazione», con un’inclinazione agli «stati morbosi» che lo scrittore trova persino insufficientemente dissodati.
Le intuizioni di Testori sul mondo di Visconti mi paiono il calco perfetto di quanto Visconti aveva intuito sul mondo di Testori: avendo molto insistito sulla necessità di recuperare il ruolo dello scrittore nel percorso viscontiano a cavallo di Rocco e i suoi fratelli (1960), ritrovo in Luchino la sostanza di un rispecchiamento rimosso con imbarazzo da critica e studiosi, ma di una profondità eguagliata solo, in precedenza, dalla frequentazione di Tennessee Williams, interrotta non a caso, dopo un decennio, proprio con la scoperta del Ponte della Ghisolfa (1958). Chi altri mai aveva pensato di affrontare pubblicamente Rocco passando per i vespasiani dei parchi milanesi, con di più la pretesa di riscattarne i «cristianissimi amori»? O di evocare l’effetto delle «occhiate di Tadzio» sulla (propria) «sottostante carne», con di più la pretesa di generalizzare tale risposta fisiologica a tutti gli spettatori «uomini»? Così a cielo aperto, anziché in diari privati o scambi epistolari circoscritti a un milieu ben definito.
Gli incroci sono talora imprevisti (l’horror vacui delle sontuose dimore del regista paragonato all’eccesso di nudi sulle spiagge), talora sconcertanti al punto da richiedere non solo mediazioni sublimanti ma addirittura il previo consenso di Visconti. È il caso delle pagine sull’erotismo sotteso all’amore per gli animali (persino nella potente visione di Visconti che getta pezzi di carne ai suoi cani), filtrato attraverso Géricault, e non è un caso che proprio intorno a questo motivo ruoteranno le righe più offensive dell’Ambleto. Ancora più arrischiata, fra le troppe leggende che hanno dato forma al mito viscontiano, appare l’evocazione dei rapporti con gli attori («il pollaio e il gregge della giovinezza»), né manca il marchio eternamente frainteso del decadentismo, che Testori riabilita a modo proprio.
Più le pagine entrano nell’intimo dell’esistenza di Visconti, più Testori si mette in gioco in prima persona, saldando un legame tra sé e l’oggetto del suo discorso, e tra la rispettive opere, che è anche un modo per riscattare ciò che di essenziale aveva apportato al mondo del regista sin da Rocco, senza che nessuno glielo avesse riconosciuto (complice lui stesso della rimozione). Pregevole restituzione nella bibliografia testoriana, Luchino conserva dunque un indubbio valore documentale, se non sempre sull’intero percorso di Visconti, certamente sui quindici anni della vicinanza tra i due protagonisti di queste pagine.
Ma il Luchino dato alle stampe da Feltrinelli non si esaurisce nel testo dello scrittore dei Segreti di Milano. È un oggetto più complesso il cui fascino deriva anche dall’ingresso in scena, a fianco di Visconti e di Testori, di uno storico dell’arte di gran vaglia, Giovanni Agosti, cui i panni del curatore vanno stretti, e di non poche taglie. Coatuore a tutti gli effetti, Agosti non si limita a presentare le pagine di Testori sciogliendone i nodi, ma le «incista» (rubo qui a Testori) con quattro saggi di una densità crescente. Luchino e il Gianni ricostruisce il contesto in cui si inserisce lo scritto di Testori, intorno allo strappo già ricordato. Trasversalmente, un lungo saggio iconografico attraversa l’intero volume, sgranando 97 immagini con le quali tutti i testi sono chiamati costantemente a dialogare (Luchino incluso). Il terzo saggio è composto da un’infiorescenza di note quanto mai rigogliose che spuntano dal corpo testoriano ma sovente seguono strade autonome, le più diverse, talvolta additate da titoli al modo di Longhi. Infine, una non meno rapsodica Fantasia su temi viscontiani raccoglie idee, intuizioni, perplessità, suggestioni accumulate negli anni da Agosti intorno a Visconti, molte delle quali hanno a che fare con il suo campo di studi (qui, inevitabilmente, alcuni degli stimoli più originali).
Complessivamente, è un Visconti affrontato con serietà e rigore, ma è anche un Visconti personale (più di quanto non faccia sospettare l’ampia messe di riferimenti bibliografici, accumulati con signorile puntualità), assimilato tramite esperienze, letture, incontri, che sono propri del percorso di Agosti e cui lo studioso non manca talora di fare esplicito riferimento. Impossibile sottrarsi alla suggestione di mettere in dialogo questo lavoro con il Corridoio rosso (2022), l’installazione che Agosti ha curato con Jacopo Stoppa alla Triennale di Milano contestualmente all’uscita del libro per Feltrinelli (rosso) e accompagnato da un volumetto, ben più agile, in cui ricordi, invenzioni, oggetti del Corridoio e altri che nel Corridoio non ci sono formano una personale Wunderkammer. In essa trova posto anche Gruppo di famiglia in un interno, 1974 (AA. VV. 2022, pp. 11 e 47), tanto che Agosti (pur nel pieno della sua maturità di studioso) vuole riconoscersi nelle pose del protagonista del penultimo film di Visconti (ma allora forte sarebbe la tentazione di metterlo in comunicazione anche con il Mario Praz cui sono dedicate alcune pagine della Fantasia). Di tali pose fanno parte anche certe aforistiche annotazioni di metodo che non mancano di suscitare qualche perplessità, laddove la liquidazione delle «mode storiografiche» (opportuna, laddove colpisca certi facili eccessi) passa attraverso un rilancio (invece problematico) delle «testimonianze» contro gli «archivi», pur comprensibile in un lavoro di impianto saldamente autorialistico in cui contano essenzialmente percorsi di vita e le reti di rapporti personali.
Su quel corridoio di una casa borghese primo-novecentesca (in cui libri in studiato disordine, oggetti d’arte e chincaglierie evocano con uguale dignità memorie private), cinque porte aprono ad accoppiamenti più o meno giudiziosi, mentre una rimane chiusa, «la porta dell’infinito» (AA. VV. 2022, p. 126). Dietro quel punto focale possiamo immaginare il luogo dove Luchino ha (ri)preso vita. Come al visitatore del Corridoio, così al lettore di questo volume spetta il compito di riannodare stimoli e provocazioni, di aprire e chiudere le porte del lungo corridoio viscontiano che sono gli apparati di Luchino. E se il viaggio cui invitano intreccia aspetti personali e la vertigine dell’infinito, o quantomeno del non concluso, è anche perché questa è la natura della ricerca («non ho certo chiuso i conti con Luchino Visconti», avverte Agosti).
Riferimenti bibliografici
AA. VV., Il corridoio rosso. 39 racconti, SPBH, Londra 2022.
Giovanni Testori, Luchino, a cura di Giovanni Agosti, La Feltrinelli, Milano 2022.