Gli zingari sono sempre stati un problema.
Ma siccome Lubo era uno zingaro,
a lui interessavano poco i problemi degli altri.
Aveva i suoi, di problemi. E gli davano fastidio.

Il seminatore, Mario Cavatore

Lubo Moser (Franz Rogowski) è un giovane Jenisch, popolo nomade che vive in Svizzera. Artista di strada, Lubo si sposta di città in città insieme alla moglie, Mirana, e i suoi tre bambini. Sebbene mantengano uno stile di vita diverso e separato dai gagè, gli Jenisch devono sottostare alle regole del governo svizzero: non solo devono pagare le tasse, ma gli uomini sono costretti a prestare servizio militare. Chiamato alle armi per difendere la nazione da una guerra che comincia a premere al confine, Lubo viene così allontanato dalla famiglia. Ma mentre l’uomo è alle prese con l’ordine e la disciplina imposti dalla vita militare, i gendarmi portano via i suoi figli e, nel tentativo di salvarli, Mirana muore. Disperato, Lubo decide di rintracciare i suoi bambini: uccide il mercante Bruno Reiter che aveva chiesto il suo aiuto per far entrare in Svizzera merce dall’Austria, e dopo avergli rubato l’identità Lubo comincia la sua vendetta contro i gagè. Una vendetta che è soprattutto destino, o così, almeno, sembra suggerirgli la mamma di Mirana durante la lettura delle carte: salvare il suo popolo dallo sterminio cercando nelle donne che lo ameranno (“sessanta sono le regine, ottanta le altre spose”) la defunta moglie, diventando così “seminatore di vita”. 

Inizia così Lubo, del regista Giorgio Diritti. Liberamente ispirato al romanzo Il seminatore di Mario Cavatore, il film, tuttavia, se ne distacca subito: se, infatti, il romanzo di Cavatore racconta la storia di Lubo attraverso le differenti versioni date dai vari personaggi (non solo Lubo ma anche Hans, Hugo, Motti), Diritti abbandona una narrazione corale per affidare unicamente a Lubo il compito di ricostruire i fatti legati alla Kinder der Landstrasse (Bambini di Strada). Nella prima parte del film seguiamo infatti Lubo/Bruno mentre si mescola tra i gagè per cercare la verità: seduce Klara, la giovane moglie di un banchiere di Zurigo, ma è soprattutto Elsa a introdurlo alla Kinder der Landstrasse, l’opera “caritatevole” sostenuta dalla Pro Juventute che strappa i bambini alle famiglie di nomadi con l’obiettivo di ri-educarli.  Sarà infatti lei a svelare – involontariamente ma con convinzione – che per costruire una Svizzera sana e forte è necessario recidere il male dalla radice. Ovvero: togliere i bambini alle famiglie di Jenisch e sterilizzare le madri. La Kinder der Landstrasse – che ha davvero operato in Svizzera dal 1926 al 1972 – aveva, di fatto, un solo obiettivo: «chiunque voglia combattere efficacemente il nomadismo deve mirare a far saltare la comunità dei girovaghi e porre fine, per quanto ciò possa apparire duro alla comunità familiare. Non esistono altre soluzioni». Stacco. 

È il 1951, la guerra è finita, siamo a Bellinzona. Vediamo Lubo, che continua a vestire i panni di Bruno, ormai sempre più integrato tra i gagè: alberghi lussuosi, vita agiata, l’uomo sembra essersi dimenticato dei suoi figli. Incontra Margherita (Valentina Bellè), una giovane cameriera e se ne innamora: la donna porta in grembo il figlio di Lubo/Bruno, e i due progettano una vita insieme. Ma il passato, quando non è sepolto, torna nel presente per scompaginare il futuro. Così, quel cadavere lasciato senza testa ritorna a infestare la vita – quasi – felice dell’uomo. Ed è proprio in questo momento che “i problemi degli altri” diventano – soprattutto – problemi di Lubo; è in questo momento che la Storia, fino a quel momento lasciata quasi completamente al margine dell’inquadratura, collassa sulla vita personale di Lubo, ne diventa il controcampo. Bruno Reiter era, infatti, un ebreo scappato in Svizzera con gioielli e soldi che gli erano stati affidati da molte famiglie ebree prima dell’arrivo dei nazisti. E così Lubo, rimasto invischiato nel gioco implacabile degli eventi e diventato collettore di colpe, viene scoperto e condannato.

Se volessimo riassumere ulteriormente i 181 minuti di Lubo, potremmo dire che quello di Diritti è un film sulla violenza dei confini: geografici, certo, ma anche temporali – il prima e dopo il rapimento dei bambini da parte dei gendarmi, ma anche il prima e dopo la Seconda guerra mondiale. E, ancora, il confine tra un presunto noi che si contrappone a chi è “altro”, ma soprattutto lo spazio poroso che divide quello che viene considerato normale da ciò che non lo è. Così come già in Volevo Nascondermi (2020), dunque, il regista sembra voler continuare a indagare la mostruosità di un potere che lavora sui corpi addomesticandoli, rinchiudendoli – in manicomio, ospedale, collegio, prigione, caserma – e facendo scomparire qualsiasi esistenza non assimilabile all’interno di una conformità da realizzare. In questo senso, proprio come Ligabue, Lubo è colui che prova a resistere alla macchina del potere.

E tuttavia, proprio questa dimensione politica rimane confinata a poche battute alla fine del film. Se, infatti, nel libro di Cavatore, le vicende di Lubo diventano il pretesto per smascherare – in modo spesso brutale – il funzionamento della Kinder der Landstrasse, ovvero quella  di un’opera umanitaria al servizio di un potere disciplinare – nel senso focaultiano del termine – che mira a produrre individui funzionali al mantenimento dell’ordine sociale, nel film di Diritti la riflessione sull’iniquità della legge e della giustizia viene diluita nel corso della prima parte del film per poi essere affidata a uno scambio di battute tra Lubo – ormai in carcere – e il commissario Motti. Ed è proprio qui, nello spazio del carcere, lontano dai paesaggi da cartolina di Bellinzona e Verbania, dagli alberghi di lusso di Zurigo, che Lubo può compiere l’unico atto veramente sovversivo: dire la verità e poi, imbracciando la sua fisarmonica, continuare a suonare. Ed è nella danza finale dei carcerati che il film finalmente ricomincia a respirare. E così anche Lubo. 

Lubo. Regia: Giorgio Diritti; sceneggiatura: Giorgio Diritti, Fredo Valla; fotografia: Benjamin Maier; montaggio: Paolo Cottignola con Giorgio Diritti; interpreti: Franz Rogowski, Christophe Sermet, Valentina Bellè, Noemi Besedes, Cecilia Steiner, Joel Basman; produzione: Indiana Production, Aranciafilm, Rai Cinema, hugofilm features, Proxima Milano; distribuzione: True Colours Glorious Films Srl; origine: Italia, Svizzera; durata: 181′; anno: 2023.

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