Deleuze, Pasolini, Foucault, Olmi, Warburg, Bertolucci. Il divenire animale e il carattere politico della schizofrenia; l’innocenza degli ultimi che affiora prima di ogni innocenza e colpa; il creaturale che segna ogni esistenza nel dolore, ma, allo stesso tempo, la singolarizza e differenzia da ogni altra; le istituzioni totali in cui chi non lavora è forzatamente disciplinato in uno spazio chiuso mediante l’esercizio di norme che escludono la potenza del mondo; i paesaggi e le relazioni umane della Bassa penetrate dalle irradiazioni di L’albero degli zoccoli e Novecento. Si potrebbe continuare ancora ma forse queste costellazioni di nomi e tensioni sono sufficienti per localizzare il perimetro in cui l’ultimo film di Giorgio Diritti, Volevo nascondermi, proietta la figura angelica, e per questa ragione forse inquietante, del pittore Antonio Ligabue (1899-1965).
Vita disgraziata quella di Ligabue: segnata da abbandoni, malattie, vagabondaggi, internamenti a ripetizione, esperienze scolastiche disastrose e relazioni familiari equivoche e brutali. Nasce in Svizzera; a un anno è adottato, a quattordici perde la madre naturale e i fratelli deceduti in un incidente. Ventenne, espulso dalla Svizzera, approda in Italia, nel paese d’origine del padre, Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia.
Nel film di Diritti il passato sono lampi, brandelli di memoria, che evocano, attraverso le immagini, ricordi terribili, un’infanzia violenta a cui Ligabue resiste popolando la propria testa di un altro universo, abitato da fantasmi, diavoli, suoni spaventosi. Se questa formazione, o meglio deformazione, pare assorbire le ragioni di un’esistenza, fornendo una motivazione forse sin troppo lineare al dolore di vivere e alla necessità di sopravvivere grazie all’arte, in realtà, l’arrivo in Italia di Ligabue lascia emergere anche un’altra chiave di lettura in grado di ingarbugliare il quadro.
Catapultato nell’Italia fascista e contadina, Ligabue abbandona l’umano e penetra nel mondo animale, nascondendosi nei boschi, dove pure ragazzacci lo tormentano. Eppure qui, come sarebbe piaciuto a Pasolini, la sua stranezza è accolta, i suoi “attacchi” accuditi, innanzitutto perché lo sguardo dei bambini, incantati dall’animalità di Ligabue (diventa oca, cavallo, cane, gatto), rassicura quello degli adulti. Come se solo l’infante, chi letteralmente non sa o non può parlare, potesse recepire la non-lingua di Ligabue, composta di suoni rauchi, nervature sonore inudibili, emissioni cavernicole.
È in Italia, durante un internamento in un ospedale psichiatrico, che si fa strada la traccia più preziosa del film e quindi il senso del delirio di Ligabue: un medico lo ammonisce di non essere un soggetto utile e produttivo per la causa del fascismo. Questa battuta potrebbe lasciare slittare il film in un’altra dimensione, che però Diritti non ha l’animo di perseguire sino in fondo, che chiamerei semplicemente politica. Insomma, la schizofrenia di Ligabue potrebbe non ridursi esclusivamente a ragioni familiari, ai disastri dell’infanzia, e rintracciare un movente più avvolgente, ampio, differente, persino sociale.
Al cospetto della civiltà fascista, la pittura diventa il gesto di un forma di vita irriducibile all’opera del potere; gesto che certo non s’interessa della storia, ma forse si muove contro di essa, per andare oltre i suoi limiti. La pittura di Ligabue rappresenterebbe un atto di resistenza che fa, come direbbe Deleuze, della sua vita, una vita impegnata a disertare una macchina di potere che non soltanto esclude, reclude, fa scomparire qualsiasi esistenza “anormale”, ma probabilmente soffoca qualsiasi differenza che prima ancora che a livello cosciente si ribella spontaneamente a ogni forma di addomesticamento.
Disegnare permette a Ligabue di evadere da una condizione letteralmente allucinante e di lacerare la soglia tra uomo e animale, facendo di un uomo ciò che esso propriamente e innanzitutto è: un animale. Soglia di separazione che Ligabue fa saltare provocando una forma di materialismo radicale. Dipingendo gli animali alla Henri Rousseau, o il suo celebre auto-ritratto alla Van Gogh, l’ambizione di Ligabue è di strappare qualsiasi distanza tra sé e l’oggetto che ritrae sulla tela, in modo da oltrepassare la logica di ogni raffigurazione verticale. Per questo motivo deve diventare l’animale che dipinge, prima ancora che la tela recepisca la materia. Per questa ragione la tela è assaltata in un corpo a corpo vorticoso, sino al punto in cui, alla Kafka, come Gregor Samsa, non è come uno scarafaggio ma è uno scarafaggio.
Prima d’iniziare a dipingere e scolpire, Ligabue esegue versi animali, ripropone i movimenti delle oche, dei gatti, segue con lo sguardo e alla sua altezza, le movenze di uno scarafaggio. Non c’è più scarto alcuno tra la vita e l’opera e per questo motivo, come Diritti non manca di notare, Ligabue non può tollerare alcuna critica nei confronti dei suoi lavori, che prontamente è disposto a distruggere, perché il livello d’identificazione è tale con la sua opera (che per questo motivo non è più soltanto un’opera), che l’insulto diventa intollerabile e si può cancellare soltanto lasciando scomparire l’opera.
In Ligabue la tela diventa ciò che essa materialmente è: un oggetto; un oggetto maledetto che ostruisce ma allo stesso tempo permette, se maneggiata come si deve, di lasciare uscire ciò che essa occulta: l’animale-Ligabue. Un oggetto, la tela, che Ligabue provoca, strattona per lasciare affiorare ciò che essa contiene. Il legame fisico con la terra, tattile e visivo con la materia, permette a Ligabue di non dimenticare il cavalletto, i colori, le larghezze, le altezze, la superficie, la luce reale che proviene dall’esterno.
Tutto è materia concreta in Ligabue, pure lo spirito: quando per la prima volta fa la conoscenza con i colori a olio, letteralmente li assapora, mangia, mastica, perché con la materia per Ligabue non c’è alcuna distinzione. Ma anche anni dopo, in occasione della sua prima esposizione romana, innanzitutto pretende che gli siano forniti dei colori di qualità, perché non dimentica che ogni gesto è consegnato alla consistenza della materia. D’altronde, quando s’intestardisce a prendere moglie, progetto che naturalmente non può che fallire (ricordando gli assurdi programmi matrimoniali portati avanti da Nietzsche), il suo sogno è legarsi a una donna gentile e grassa, Cesarina, che immagina di servire con una sontuosa sequenza di piatti. Insomma, l’amore per Ligabue, per una donna, un animale, la terra, la pittura, non è un’astrazione, ma si materializza sempre all’interno di legami concreti che promettono di sfamare una fame di vita inesauribile.
La creazione di universi animali e fantastici è innanzitutto in Ligabue una prova terribile e permanente di resistenza alla morte (l’atto di creazione come un movimento di resistenza alla morte è una celebre tesi di Deleuze). Questo tratto è palese quando Ligabue, negli ultimi anni d’internamento, al risveglio da un sogno di morte (quando la sua sagoma ricorda insistentemente quella di un altro grande demente internato per oltre dieci anni: Nietzsche), grida, “voglio vivere, sopravvivere”. Ma già tempo prima lega l’essere-artista alla possibilità di sconfiggere l’oblio del tempo, come forma di resistenza alla morte, perché quando un artista muore, non muore veramente del tutto.
Diritti affida l’occasione di catturare queste miriadi di tensioni visive, cinema e pittura insieme, animalità e anormalità, sofferenza inaudita e potenza del desiderio, alla carica estrema e mostruosa di Elio Germano. Non c’è dubbio infatti che la posizione più radicale di Volevo nascondermi si gioca intorno al corpo, alla postura, alla voce di Elio Germano, che giunge a un punto d’immedesimazione tale che ci fa pensare che come Ligabue per dipingere un animale deve diventare quell’animale, parlare e muoversi come lui, allo stesso tempo Germano imita Ligabue sino a siglare una plateale indistinzione tra il pittore e l’attore.
Ma forse, proprio in una vicenda come quella di Ligabue, questa coincidenza esteriore, questa straordinaria trascrizione mimetica, nasconde un effetto di rassicurazione, per sovrabbondanza di recitazione, sino al punto di rischiare di diventare un’operazione eccessiva perché alla fine si è costretti a dire, “ma quanto è bravo Elio Germano!”. È indubbiamente vero, ma forse è proprio questo il problema: l’intenzione sovrana di Diritti-Germano, che dovrebbe rimuovere, con l’estremo realismo della rappresentazione, il mero racconto di una vita, rischia invece di spezzare la verità della finzione e svelare la mera prova d’attore.
Nell’economia di un’esperienza come quella di Ligabue, segnata da un fortissimo materialismo, da un compenetrazione fenomenale con la natura, che ne sfibra qualsiasi indulgenza idilliaca, il film di Diritti eccede forse in qualche forma di lirismo, che costringe il film in alcuni casi a trattenersi in una dimensione simbolica ingenua (penso in particolare alla parentesi romana, ma non soltanto, che si consuma esclusivamente attraverso episodi emblematici un po’ scontati: la grande arte delle statue, camminare a piedi nudi in città, lo sguardo lanciato verso uno straccione su Ponte Sant’Angelo).
Volevo nascondermi, di fronte a una figura “anormale” come quella di Ligabue, dove la pittura sgorga dalle viscere delle terra, pittura che governa e non è governata da chi la fa, dove la sofferenza psichica è un potente, ingestibile delirio estetico e politico, si rivela leggermente trattenuto, realizzato in una maniera in fondo eccessivamente “normale” e quindi incapace di seguire le infinite vie di fuga che pure sa invocare e persino provocare. Chissà, probabilmente poteva osare di più.
Volevo nascondermi. Regia: Giorgio Diritti; sceneggiatura: Giorgio Diritti, Tania Pedroni; fotografia: Matteo Cocco; montaggio: Paolo Cottignola, Giorgio Diritti; interpreti: Elio Germano, Oliver Ewy, Leonardo Carrozzi, Pietro Traldi, Orietta Notari; musiche: Marco Biscarini, Daniele Furlati; produzione: Palomar, Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia; durata: 120′.