La parola all’immagine.
Aby Warburg

Il titolo di questo straordinario esperimento filmico, Loving Vincent, ricalca il finale di una lettera: una delle tante che Vincent Van Gogh spedisce al fratello Theo, fino ad arrivare a quella che, dopo la scomparsa del pittore, rimane nelle mani di Armand Roulin, il “detective” del film incaricato di consegnare “la lettera di un morto ad un altro morto”. Al titolo manca solo la virgola, quella che anticipa la firma di chi scrive e sa che presto o tardi le proprie parole arriveranno a destinazione. Il progetto della regista polacca Dorota Kobiela – al suo sesto film d’animazione ma nostalgica del suo passato da pittrice e studiosa d’arte –, del produttore britannico Hugh Welchman e dell’enorme e variegata squadra con cui per quattro anni hanno lavorato all’invenzione di una nuova tecnica attraverso cui combinare pittura e cinema e per due anni l’hanno pazientemente realizzata, suscita un gran numero di riflessioni teoriche e di curiosità tecniche. Ma ai miei occhi qualcosa in particolare è emerso potentemente: il desiderio di incarnare in quest’opera atipica l’urgenza di migrare, di muovere il mondo, muovere la materia, muovere noi stessi attraverso di essi.

Quando pensiamo ad un movimento migratorio, possiamo farlo collocandolo in una dimensione spaziale o in una temporale. Loving Vincent narra in prima istanza di un viaggio, quello che Armand (Douglas Booth) compie nel nord della Francia, mandato inizialmente contro la sua stessa volontà da suo padre Joseph (Chris O’Dowd) per ricostruire quanto davvero è accaduto quel 27 luglio del 1890, quando l’amico Vincent (Robert Gulaczyk) ha deciso di togliersi la vita. Joseph dà al figlio una lettera da consegnare, è amico del pittore perché è il suo postino: l’intimità tra i due è data dalla condivisione di parole che viaggiano nello spazio e nel tempo, con la fiducia che siano affidate in buone mani da parte di uno, e la fascinazione nello scortare per un tratto la voce di Van Gogh verso gli altri (suo fratello, ma potenzialmente il resto del mondo) da parte dell’altro.

La figura del postino è quella di un raccoglitore di storie da cui tutto inizia, poiché chi ha voglia di continuare a raccontare è chi maneggia tutti i giorni il movimento dei racconti. La dinamica, il mettersi in moto, lo spostamento, sono i temi ricorrenti del film: dal treno blu che attraversa le campagne provenzali, alle imbarcazioni che il barcaiolo di Auvers vede partire tutti i giorni avendo la fortuna di – se pur sempre fermo a riva – “poter catturare da lì parecchia vita”, dall’uomo in giacca gialla e cappello nero che passa le giornate porta a porta per raccogliere quante più informazioni possibili sul folle Vincent, alle voci che si rincorrono confermandosi o contraddicendosi tessendo una ricostruzione dei fatti sempre mutevole. Ogni personaggio dipinge la sua tela: come afferma Marguerite Gachet (Saoirse Ronan), la fanciulla forse amata da Van Gogh durante la sua permanenza al nord, “io posso raccontarle la mia verità”. La storia delle ultime settimane di Vincent è una storia che rimane in viaggio, disposta a salire costantemente su nuovi vagoni.

Ma passando ad un altro livello, quello formale, un movimento migratorio ancor più forte, che schizza di colori sgargianti il cammino di Armand, è quello della pittura stessa dell’artista olandese: se Loving Vincent nasce per mettere in movimento la pittura di Van Gogh, è soprattutto perché le sue tele, che irrompono in tutta la pellicola come diamanti incastonati in un flusso perpetuo, creano già di per sé attraverso pennellate concentriche e spessori cromatici una dinamica trascinante. Un mondo “succulento e pieno di colore” fatto di vento che non smette mai di soffiare tra le fronde, candele e lampioni le cui gocce di luce gli orbitano intorno come satelliti nello spazio, pioggia che si frammenta in schegge di cristallo e vino che si addensa scuro nei bicchieri. Cento artisti da tutto il mondo hanno letteralmente pitturato il film una volta girato con gli attori in carne ed ossa (per un totale di 65.000 frames su 1000 tele, ora organizzate in una mostra al Noordbrabants Museum): il primo frame veniva dipinto su un’intera tela, per poi sovrapporgli tutti i frames dello shot in questione e arrivare così a vedere olio su tela solo l’ultimo. Ma tutto questo solo dopo essersi “appropriati” manualmente dello stile di Vincent, ricopiando minuziosamente moltissimi dei suoi quadri più famosi e usando questi ultimi come originale da cui trarre il cosiddetto keyframe, preziosissimo momento di passaggio grafico tra l’opera d’arte autentica e la fotografia reale, stazione ibrida di un’immagine che migra dal tempo della pittura a quello cinetico della macchina da presa.

Ecco che arriviamo così al terzo livello di analisi: quello in cui a migrare, oltre alle pennellate e ai personaggi della storia che le animano di palpitazioni reali, sono le immagini stesse. “La parola all’immagine” è il celebre motto warburghiano che rievoca la ben nota teoria secondo la quale l’immagine, alla quale siamo chiamati a “lasciare la parola”, è la sola entità capace di condensare in sé la memoria degli eventi “riattivandola” e “scaricandola” attraverso la sua vitalità. Le immagini di cui parla Warburg, quelle del suo Atlante ad esempio, sono immagini che viaggiano, mutano, trasmigrano; correnti energetiche che hanno il dono di costruire associazioni con un tempo che non è più, ma che si desidera anacronisticamente far rinascere. L’immagine, più di qualsiasi altro canale espressivo, funge da strumento di ri-associazione, ri-applicazione, engramma che accoglie nelle sue viscere una traccia e che combatte la coerenza della storia in nome della sopravvivenza di una temporalità altra. Non si può raccontare la storia di Van Gogh senza i suoi dipinti, o, come direbbe lo stesso Vincent citato all’inizio del film, “non possiamo parlare se non attraverso le nostre opere”.

Ri-immaginare i quadri del pittore in una nuova materia, quella della pellicola filmica, significa compiere e far compiere allo spettatore un costante movimento immaginifico, avanti e indietro, dalla sorgente alla foce del fiume (e viceversa). Vuol dire far migrare l’immagine-quadro attraverso i frames, oltre i confini della sua cornice: estenderla in un’azione donandole la quarta dimensione del tempo, anticipandone e prolungandone i gesti e gli sguardi a partire da quel centro-chiave in bilico tra pittura e realtà a cui accennavamo poc’anzi; combattere la verticalità di alcune tele i cui paesaggi richiedono cinematograficamente un ulteriore respiro orizzontale; approssimare la macchina da presa alla profondità delle tele virtuali, riempiendo i “vuoti”, cambiando prospettiva – come nella passeggiata nel viale alberato di Armand ubriaco sottobraccio a suo padre – o muovendo la cinepresa dall’alto verso il basso su una superficie che si scopre così progressivamente – come nel caso della Terrazza del caffè la sera in cui si parte dagli astri per arrivare ai sanpietrini del vicolo illuminato di Arles. È bello ricordare che un esperimento simile lo fece Alain Resnais nel 1948 con il suo documentario dedicato a Van Gogh, muovendo la macchia da presa sulle tele (in questo caso statiche e in bianco e nero) così da creare – ed è a questo proposito efficacissima la descrizione che fa di questo lavoro Gilles Deleuze in Immagine-Tempo – un “viaggio” nel continuum delle pennellate dell’artista, aprendo uno spazio in cui si dischiudono “falde di tempo” grazie a quella che Ejzenštejn chiamerebbe una “passeggiata dell’occhio”.

Loving Vincent è un film fluido che, attraverso questi tre livelli migra nello spazio-tempo, accompagnato dalla musica originale di Clint Mansell altrettanto malleabile e continua, disposta ad essere impastata, mossa, con le immagini. È una pellicola che non lesina alcun moto, anzi si abbandona a tutti: compresi quelli ricorrenti – e che la regista sceglie di rappresentare in bianco e nero con un diverso stile ispirato alle foto d’epoca, perché si tratta delle scene che “Van Gogh ha scelto di non dipingere” – dei flashback, scaturiti dai diversi racconti delle figure che si alternano sulla scena e che rielaborano con limpidezza o con maggior fatica l’accaduto. E forse il ricordo più nitido, disambiguato da una dimensione di ombre e sogni e non a caso l’unico a colori, è il taglio dell’orecchio di Vincent e il suo avvoltolarsi sofferente nelle coperte insanguinate. Ma il pittore non riemerge dalla pellicola come un martire, tutto il contrario: il suo è un viaggio incompleto che mai si completerà, come le zampette del pollo che fa disegnare ad un bambino sulle sue ginocchia nella locanda e che rimangono a metà sul foglio. Il suo essere una “non-entità” racchiude proprio la sua brillante capacità di rincorsa dell’essere qualcuno, il suo essere perennemente in cammino e in cerca di qualcosa che “un giorno si capirà”. Ma se “da vecchi verso le stelle ci si va a piedi”, allora il percorso è lungo e sorprendente, vissuto unicamente perché non ancora portato a termine.

Il dottor Gachet (Jerome Flynn), dopotutto alter ego di un Vincent da lui sempre vissuto come nemesi e ambita meta di un pellegrinaggio arduo e doloroso, in una delle scene finali dà al nostro protagonista – e per suo tramite a noi spettatori – una lettera in cambio di una lettera. Augurandoci buon viaggio.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino 2017.
A. Warburg, Mnemosyne: l’Atlante delle immagini, a cura di M. Warnke, Aragno, Torino 2002.

Share