Il 17 aprile del 1976 gli organizzatori del Festival di Cannes ricevono una lettera piuttosto insolita. A inviarla è il regista di uno dei film in concorso, che con tono garbato declina l’invito alla kermesse e tiene a far sapere, senza alcun sussiego, che non se la sente di accompagnare la sua pellicola durante i giorni della competizione. La lettera produsse allora un fragoroso scalpore, al punto che sarebbe diventata negli anni a seguire un autentico classico dell’aneddotica di Cannes. Una fama di tal genere non si spiega certo per il gesto in sé e nemmeno per il contenuto della lettera, quanto per colui che ne è l’autore: quell’Éric Rohmer il cui successo era all’epoca in crescita esponenziale e che quell’anno è in concorso con La Marchesa von… (1976). Nonostante lo sgarbo inequivocabile della defezione di cui la lettera era simbolo, il film riuscirà comunque a ottenere il premio speciale della giuria.

A ricordare l’aneddoto è stato qualche anno fa lo scrittore e giornalista Jean Collet, amico di Rohmer sin dai primi anni di collaborazione congiunta ai Cahiers (Collet 2010). Secondo Collet la lettera agli organizzatori di Cannes ’76 permette d’avvicinarsi al cinema di Rohmer, e più generalmente alla sua opera: al vagabondare quasi rivendicato fra generi narrativi e temi disparati; alla volontà indefessa di far sparire la presenza oculare del regista e di far emergere, attraverso le immagini, il mondo nella sua varia e bizzarra quadratura di forme poco coerenti. Una spia — dice Collet — della faccia nascosta dell’opera rohmeriana, di cui il cinema è naturalmente il fulcro principale. La lettera ha un registro ironico e Rohmer è a tratti civettuolo nel farsi beffe del Festival e degli organizzatori.

Se devo al pubblico un’opera che è fatta per essergli destinata, se ammetto volentieri che, per il prestigio e il bene della Cultura, la presentazione di tale opera sia circondata da una pompa magna, nondimeno pretendo di rimanere gelosamente il padrone della mia persona privata. Avrei pagato in maniera eccessivamente cara il successo ottenuto da poco se questo dovesse accadere al prezzo della libertà che tanti anni di lotta nell’ombra mi hanno reso più cara di ogni altra cosa. Non ho più l’età per guarire da una timidezza davanti le folle che vi concedo di buon grado di chiamare malaticcia. Se tutti i miei colleghi mostrassero la medesima ripugnanza mia a riprodursi in pubblico, comprendo bene che potrebbe imbarazzare organizzatori e giornalisti. Ma, quasi del tutto certo di essere un caso isolato, spero che il mio capriccio, lungi dall’alterare la serenità del Festival, costituirà la “leggera dissonanza” capace di rinforzare l’armonia dell’insieme (Rohmer in Collet 2010, p. 227).

A leggere fra le righe, troviamo in questo dettaglio biografico alcune delle grandi forze profonde che animano la poetica di Rohmer: «padrone della propria vita»; «lotta nell’ombra» per la libertà; il «capriccio» errabondo che “suona” ironicamente come una «leggera dissonanza». L’uso di termini del linguaggio musicale non è casuale in Rohmer: in effetti, solo una leggera dissonanza ha la capacità di rivelarci quell’ “armonia dell’insieme”, che a me sembra uno dei nodi di fondo del suo pensiero cinematografico. Pensiamo alla stupenda figura pre-punk di Pascale Ogier in Le notti della luna piena (1984), quarto film della serie Commedie e proverbi (1981-1987), che incarna magistralmente lo scacco di questa tensione fra dissonanza e armonia. Le corse notturne di Louise, la frequentazione della Parigi branché e dei bar aperti all’alba; la doppia vita e il duplice camouflage di Louise per sfuggire alla vita di coppia, alla vita di banlieue, e all’assillo di essere amata: questi elementi ne fanno un perfetto esempio di questo gioco votato allo scacco eppure rivendicato. Più volte Louise ripete “Je veux être libre”: vivere Parigi e attraversare la vita, finendo poi per scomparire nel paesaggio della Marne, diventando lei stessa punto minuscolo dell’arredo urbano. È questa tensione che esemplifica magistralmente il proverbio d’invenzione rohmeriana che guida il film: «Qui a deux femmes perd son âme, qui a deux maisons perd sa raison».

Questo genere di tensioni narrative, antropologiche ed estetiche ha rappresentato per Rohmer un obiettivo che non saprei qualificare se non in termini di metafisica dello sguardo, della fede e del segreto. Del resto, la lettera prima citata era una confessione, in cui l’io-Rohmer riassume il suo obiettivo cinematografico più profondo: la scomparsa del proprio punto di vista per lasciare che le “forme” prendano corpo “quasi” sole, che corrano in un campo d’indecidibilità e decisione, che disegnino traiettorie mai del tutto compiute, fra lo stillicidio quotidiano e noioso e l’esposizione al capriccio della vita desiderante e alle sue bizze. Per questo i personaggi rohmeriani sono così ansiosi (e paradossalmente capaci) di inventare vita e rendere miracoloso l’apparire stesso. Il filosofo americano Stanley Cavell lo ha detto molto bene: «La più grande preoccupazione di Rohmer è la possibilità e la necessità che noi prendiamo coscienza del carattere miracoloso del quotidiano» (Cavell 2011, p. 506). Ma Rohmer stesso si era preso la briga di spiegare quest’idea, in un libro dedicato al concetto di profondità in musica:

Nel metodo che avevo elaborato durante la mia riflessione sulle grandi opere d’arte cinematografiche, quel che m’interessava innanzitutto era mostrare ciò che chiamavo l’invenzione delle forme (…) preferisco la parola “forma” a quella di “struttura” perché la mia riflessione non si appoggia su basi linguistiche, ma s’iscrive piuttosto nella tradizione di una filosofia delle Idee e delle Essenze. Non metto mai il giudizio estetico fra parentesi come fanno, almeno in un primo tempo, i semiologi. Io cerco di piazzare da subito lo spettatore davanti la bellezza pura delle forme nella loro unicità essenziale, conservando del termine forme tutto ciò che deve alla sua etimologia: forme = bellezza (Rohmer 1996, pp. 15-16).

Eppure, questo miracolo delle forme che appaiono e prendono vita, presuppone come controcanto necessario un culto profondo del segreto e del silenzio. O piuttosto: la convinzione che la parola, essenziale per riprodurre mimeticamente un’epoca, un contesto, un mondo, sia in realtà un luogo scivoloso e pericolosissimo per i personaggi che la adoperano, uno strumento che può in ogni momento ritorcersi contro chi la usa. Uno strumento di cui non sono padroni nonostante la loro lotta nell’ombra per la libertà. È in questa struttura paradossale, in questo ritornello, che risiede la metafisica da spionaggio ordinario di Rohmer. I personaggi rohmeriani diventano tutti gran camminatori, perché costretti dalle loro stesse parole (e azioni) a invertire di continuo le decisioni, le loro storie. È impossibile chiedere alla coscienza d’essere davvero vigilante, come François in La moglie dell’aviatore (1981), sbeffeggiato in modo serio dalla giovane Anne, che lo rimprovera di essere nient’altro che uno “sbirro geloso”.

I personaggi di Rohmer si ritrovano allora dentro un percorso incompiuto, libero eppure paradossale, estremamente accidentato, dove conta solo il passaggio da un luogo a un altro, da una verità all’altra, da un sentimento all’altro. Come se acquistassero informazioni e non potessero sapere che farne. Per questo non pochi personaggi di Rohmer incarnano una figura che di questo tipo di percorso è forse l’archetipo, vale a dire la spia. Ma una spia della domenica, domestica, intima: la “filature” ossessiva di François; il corpo intravisto dalla finestra di una casa attorno a cui ruotano tutti i personaggi (Pauline alla spiaggia 1982); o ancora gli andirivieni notturni dentro Parigi e quelli diurni fra la metropoli e la periferia con due coperture e due identità vissute (e subite) da Louise (Le notti della luna piena 1984); o, infine, i doppi giochi di Incontri a Parigi (1995). Si potrebbe dire che lo spionaggio è una delle attività più diffuse fra i personaggi di Rohmer: osservano, spiano, decifrano, imbrogliano, camuffano, mistificano, stilano rapporti sugli amici, organizzano strategie per tenere a sé o far sparire gli altri…

Sembrerebbe di aver trovato un micro-sistema interpretativo in cui imbrigliare Rohmer, se non fosse che nel 2004 il regista francese decide di girare un film in cui è proprio la vita ordinaria di una vera spia che viene osservata. Ciò che colpisce di Triple Agent — Agente speciale è che Rohmer fa insistere il suo personaggio principale in riflessioni sulla parola: “Nel mio mestiere — dirà Voronin — è difficile distinguere ciò che è dell’ordine del segreto e ciò che non lo è”. La parola al centro di un mistero: non più la marcia di personaggi ordinari che incarnano una metafisica dello spionaggio, ma una spia che nel suo ordinario s’interroga sulla natura metafisica della parola che imbroglia le carte e i destini, e non fa altro che «diffondere il segreto, e renderlo incomprensibile» (Neyrat 2004). Rohmer ha detto molte volte che per Triple Agent — Agente speciale si era ispirato ai Karamazov. Tuttavia, seguo il suggerimento di Cyril Neyrat, che invita a rileggere il film come una riscrittura di questo passo dei Demoni di Dostoevskij:

Avevo pensato da principio di tacere; ma per tacere ci vuole un grande talento, e quindi non mi si confà molto, e in secondo luogo tacere è sempre molto pericoloso; così ho definitivamente deciso che la cosa migliore era parlare, ma proprio come un inetto, cioè molto, molto, molto, e precipitarmi sempre a dimostrare qualcosa, e alla fine imbrogliarmi sempre nelle mie dimostrazioni, in modo che l’ascoltatore se ne vada senza una conclusione, scuotendo le mani o, meglio, sputando (Dostoevskij 1995, p. 267).

Sono parole che Pëtr Stepànovic Verchovenskij pronuncia di fronte a un beffardo e malefico Nicolai Stavrogin. Da questo punto di vista — e qui sta una delle ragioni dell’attualità di Rohmer —, il cinema rohmeriano ruota attorno a questo talento del tacere e del parlare, che necessita di un’arte dello spionaggio da un lato, e di una libertà (e una fede) nel silenzio che attraversa i corpi e li rende mobili, vivi, perfettamente incompiuti. Parlanti del loro incoerente desiderio.

Riferimenti bibliografici
S. Cavell, Philosophie des salles obscures, Flammarion, Parigi 2011.
J. Collet, Eric Rohmer, La face cachée de l’oeuvre, “Études”, 2010/9.
F. Dostoevskij, I demoni, BUR, Milano 1995.
C. Neyrat, Corps, étrangers, “Vertigo”, 2004/1, 12.
E. Rohmer, Lettre aux organisateurs du Festival de Cannes 1976, in Jean Collet, Eric Rohmer, La face cachée de l’oeuvre, “Études”, 2010/9.
Id., De Mozart en Beethoven, essai sur la notion de profondeur en musique, Actes-Sud, Parigi 1996. 

Eric Rohmer, Tulle 1920-Parigi 2010. 

*L’immagine di anteprima dell’articolo è  un fotogramma del film Incontri a Parigi (Rohmer 1995).

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