“Genere” significa codici, norme, regole che creano fidelizzazione, preparano aspettative e permettono produzioni in economia, ma significa anche stretto rapporto tra standardizzazione e differenziazione. Questo rende i generi strutture mutevoli, salde soltanto nel breve periodo, oggetti che dialogano con il tessuto sociale circostante subendo profonde trasformazioni, dal concetto di verosimiglianza alla percezione di pubblico e industria. Film come Ombre rosse (1939) e 2001: Odissea nello spazio (1968) riuscirono ad affrancare il western e la fantascienza dall’essere “intrattenimento di basso livello”, segnandone una rivalutazione della dignità, del prestigio.
In un momento in cui i confini tra alto e basso sono ormai venuti meno, in cui il sistema dei generi sembra aver lasciato il passo alla brandizzazione dell’autore, alla riconoscibilità istantanea, nuova creatrice di fidelizzazione, l’horror statunitense parrebbe aver conseguito il suo riscatto dai pregiudizi sedimentati nell’immaginario collettivo. Una “rinascita” per convenzione attribuita a Robert Eggers (The Witch, 2015), Jordan Peele (Scappa – Get Out, 2017) e Ari Aster (Hereditary – Le radici del male, 2018), i cui esordi avrebbero aperto la strada in pochi anni a un modo differente di pensare e approcciarsi al genere.
Inizia a circolare il termine elevated horror, a cui si affiancano il prestige horror promosso da Kristin Thompson e l’art-horror di Adrian Gmelch. Definizioni che sembrano alludere all’inferiorità del genere tout court – gli aggettivi usati sottintendono una trivialità da cui si differenziano –, ma che assumono senso se considerata l’esistenza di un effettivo pregiudizio storico, dettato da un sistema gerarchico. È un genere che ha rivendicato e conquistato dignità agli occhi della percezione collettiva, ottenendo una riabilitazione sistematica del proprio valore.
Si affermano nomi che hanno la capacità di fidelizzare lo spettatore, lavorando con l’horror quale strumento per definire e costruire la propria identità autoriale, attingendo a una forte estetica e concentrandosi sugli aspetti considerati più “nobili”, marginalizzando quelli più “volgari”. Mentre case di produzione come l’A24 e la Blumhouse recuperano strategie produttive classiche come l’house look, rafforzando l’idea che l’elevato e il prestigioso, quindi l’artistico (?), siano da individuare nelle qualità estetiche di un’opera.
L’ultimo film di Osgood “Oz” Perkins si presenta come l’opera più netta, radicale, nell’esplicitare l’importanza per l’estetica, per la ricerca dell’atteggiamento elevato, pur non trascurando la dimensione della paura. Longlegs estremizza gli aspetti tipici del prestige horror, esasperando un modello formale e una riconoscibilità visiva costruita e affinata dal regista nel corso delle opere precedenti. Rielaborando quanto visto in February – L’innocenza del male (2015) – con un meccanismo di ripetizione e variazione che sovrappone le caratteristiche dei generi con quelle dell’autorialità – Perkins realizza un film su un mistero che coinvolge presente e passato, con un’indagine che riguarda tanto la caccia al serial killer quanto la verità su un ricordo rimosso. Un piccolo puzzle in cui i diversi pezzi, alcuni in 2.39:1 altri in 1.33:1, si incastrano convergendo verso un finale che completa il disegno: un triangolo sul calendario.
Tensione e paura sono costruite concentrandosi su ciò che è mostrato e sul come appare, piuttosto che sulla vicenda. L’indagine dell’agente Lee Harker e il conseguente tema del doppio, rilevabile su diversi livelli – fra cui il lavoro sulla figura di Nicolas Cage: maschera, burattino, attore, meme –, diventano contorno e pretesto per la creazione di immagini potenti, su cui Perkins sembra riporre una fiducia più radicale rispetto agli altri nomi. In riferimento ad Aster ed Eggers, Gmelch scrive:
Per loro, le immagini sono la cosa più importante. Anche il suono, la musica e la drammaturgia sono indispensabili, ma senza i “quadri” creati non valgono nulla. I film vivono grazie alle loro potenti immagini. Questo fa di Aster ed Eggers dei registi principalmente visivi, per i quali il linguaggio visivo è più importante della storia – e in questo senso anche, in una certa misura, astratti, cioè distaccati dal livello particolare o rappresentativo (Gmelch 2023, p. 137).
Raramente in Longlegs l’orrore è affidato a un’idea di sequenza, di consequenzialità del montaggio, o a cliché come i jumpscare; ma piuttosto alle immagini singole, indipendenti, che racchiudono in sé tutti gli elementi necessari per esprimere terrore. Ne sono esempio le piccole trasformazioni che conferiscono dinamicità ai quadretti, pur non sovvertendone la natura (pseudo)statica. Dettagli, nascosti o evidenti, che lentamente scompaiono o mutano sullo schermo: una sagoma oscura alle spalle di una persona, simile al demonio rappresentato nel primo film del regista, o gli occhi vitrei di un volto demoniaco che si cela dietro un velo nero.
Non siamo di fronte a posizionamenti della camera che ricercano la comunicazione di un senso. La forma risponde alle esigenze e al modo di rapportarsi alle immagini della società visuale contemporanea. A spiccare sono le potenzialità transmediali di certe sue immagini, l’essere concepite e realizzate per poter vivere slegate dal loro contesto. Una donna che si incide l’addome con un coltello da cucina in favore di camera, una bambola che mantiene lo sguardo fisso sull’obiettivo. Sono tutte immagini costruite per essere salvabili, estrapolabili e pronte per trovare spazio (e nuova vita) sui social e nel mondo digitale. Svincolate dal loro significato originario, comunicando in modo autonomo grazie all’essere innanzitutto “immagini”, ancor prima che “fotogrammi”.
Perkins slega la forma da un linguaggio tradizionalmente considerato cinematografico, volgendo lo sguardo su ciò che viene definito aestetich: la celebrazione dell’immagine, della propria bellezza, simmetria, riconoscibilità, ma che, evoluzione del look, non rifiuta del tutto un senso, ricercandone uno non convenzionale altrove, in altri spazi fuori dal testo. Si potrebbe criticare di semplice superficialità, ricerca di una bellezza fine a se stessa. E forse è così. Eppure, piaccia o meno, come si fa a non rimane affascinati da un’opera così in linea con le logiche e le esigenze della nostra società. Che, sfruttando la direzione presa dal genere, riesce a ragionare sul valore contemporaneo delle immagini cinematografiche attraverso la rivendicazione di una superficialità linguistica.
Riferimenti bibliografici
A. Gmelch, Art-Horror. The Films of Ari Aster and Robert Eggers, Independently published, 2023.
K. Thompson, How did “prestige horror” come about?, in “David Bordwell’s website on cinema”, maggio 2022.
Longlegs. Regia: Oz Perkins; sceneggiatura: Oz Perkins; fotografia: Andres Arochi; montaggio: Graham Fortin, Greg Ng; interpreti: Maika Monroe, Nicolas Cage, Blair Underwood, Alicia Witt, Michelle Choi-Lee, Dakota Daulby, Lauren Acala, Kiernan Shipka; produzione: C2 Motion Picture Group, Saturn Films, Oddfellows Entertainment, Traffic., Range Media Partners, Waypoint Entertainment; distribuzione: Be Water Film, Medusa Film; origine: Stati Uniti, Canada; durata: 101’; anno: 2024.