Il volume di Felice Cimatti L’occhio selvaggio. Sul lasciarsi vedere, può essere inserito nella riflessione post Covid-19 sulle trasformazioni della cultura visuale e mediale. L’accelerazione tecnologica dovuta alla pandemia ha inaugurato (o ha semplicemente mostrato) una nuova fase del rapporto tra gli esseri umani e le immagini, rendendo sempre più urgente tutta una serie di domande sullo statuto antropologico delle immagini, nonché dello schermo e dell’azione dello schermare, costantemente in bilico tra esposizione e protezione (cfr. Casetti, Carbone-Lingua 2024, Casetti 2023, Keidl e altri 2020, Mariani e Zucconi 2021). Analogamente a quanto accaduto con l’11 settembre, la pandemia nel suo carattere di evento mediale – prolungato, rallentato, e dagli effetti di lunga durata – rappresenta uno spartiacque, una crisi attraverso cui riorganizzare e ricomprendere le nostre vite sempre tecnologicamente ibridate. 

Il volume di Cimatti non affronta direttamente tali questioni, perché si ferma un passo prima, in una dimensione del pensiero che, facendo un torto all’autore stesso, potremmo definire trascendentale – cioè che può essere tradotta in una domanda simile: a quali condizioni vediamo e cosa significa vedere? Sebbene sia questa la domanda di partenza, la risposta consisterà nel completo rovesciamento della domanda stessa e nel tentativo di superare una dimensione antropocentrica (e metafisica) che, però – e qui sta il paradosso con cui si confronta Cimatti – è coessenziale al concetto stesso di visione. 

Il volume, dunque, si confronta con problemi filosofici che vanno ben oltre la contingenza storica e nello specifico post-pandemica. Eppure con essa hanno un legame decisivo. Innanzitutto salta all’occhio (sarà il pregiudizio di chi legge?) che la quasi totalità dei saggi è stata scritta dopo la pandemia e che quelli più direttamente collegati alla crisi di Covid-19 vengono collocati alla fine del volume, quasi come a gettare la maschera (altro dispositivo della visione e della non visione) rispetto all’evento che ha occasionato tale riflessione. Insomma dopo che per almeno due anni siamo stati inseguiti e poi chiusi in casa da qualcosa che non potevamo vedere, e che eppure aveva un alto tasso di visibilità – nella forma di ricostruzione digitale del virus, infografiche sull’andamento del contagio, servizi televisivi sulle bare che lasciano Bergamo o spot pubblicitari con le città deserte durante il lockdown – appare necessario ritornare ad una domanda più originaria circa lo statuto stesso della visione

Partiamo allora da quello sguardo antropocentrico che Cimatti vuole mettere in questione. Scrive l’autore:

Il vedere, nella nostra tradizione, è il gesto sovrano attraverso cui il corpo del soggetto percettivo prende possesso del mondo; infatti, nella vista l’umano “abbraccia” con lo sguardo il campo del visibile che si offre a lui in tutta la sua estensione. Così lo spettacolo del mondo è l’oggetto che corrisponde al soggetto che lo contempla. Da notare che la posizione del soggetto dello sguardo è esterna rispetto a ciò che sta osservando, come se occupasse da una posizione privilegiata [...] Chi vede è nel mondo, ma come se, in fondo, non ne facesse parte in senso proprio. C’è il mondo, e c’è chi lo vede, il soggetto (2024, p. 23).

La visione nella tradizione del pensiero occidentale è un’azione appropriante da parte del soggetto rispetto al mondo, che in tale appropriazione si chiama fuori dal mondo stesso. Il primo paradosso dunque è che non è possibile stare dentro al mondo e vederlo, bisogna chiamarsi fuori e quindi smettere di farne parte. A partire da questa idea potremmo dedurre che quella accusa di de-realizzazione che continuamente viene mossa alle pratiche dell’immagine nell’epoca della rete e del digitale è in fondo un pericolo che è già sempre insito nel dispositivo stesso della visione e che trova nell’iperproduzione e iper-condivisione dell’immagine massimo dispiegamento e potenziamento. La visione è un’azione appropriante che ci mette però fuori dal mondo e che quindi ce ne distacca

Come fare a tornare a vedere il mondo, si chiede Cimatti? Questo tornare qui ha sì una valenza storica – rispetto alla contingenza in cui viviamo, per cui il mondo trasformato in immagine sembra paradossalmente farsi sempre più invisibile – ma soprattutto una valenza che potremmo definire ontogenetica. Se è vero che la visione è sempre un’azione appropriante e quindi in una certa misura estraniante rispetto al mondo, ciò che la rende tale è il linguaggio. È il fatto di essere animali dotati di linguaggio che «impedisce al nostro sguardo di vedere quel che c’è da vedere. Ce lo impedisce il fatto che noi esseri del linguaggio e della parola assegniamo sempre e contemporaneamente un nome a quel che vediamo» (ivi, p. 33). Non esiste dunque una percezione puramente senso-motoria, perché la percezione è già sempre mediata dall’azione del linguaggio sul mondo. Fatta eccezione della primissima infanzia, sostiene Cimatti via Garroni, quando cioè il cucciolo di essere umano ancora non ha sviluppato il linguaggio. Tornare a vedere, allora, significa in un certo senso provare a ricreare le condizioni originarie del nostro processo di individuazione, in cui cioè il linguaggio non ha ancora colonizzato il visibile

Anche in questo caso, la riflessione di Cimatti ci offre molti spunti sul nostro presente mediale. Innanzitutto perché coglie nella tecnologia l’elemento di “mediazione” e quindi di distanziamento tra noi e il mondo – ma questa tecnologia è il linguaggio, ovvero uno strumento che oggi Homo sapiens ha talmente interiorizzato da apparirci naturale. Con un volo di qualche millennio, come a quello dell’osso di 2001 Odissea nello spazio, dal linguaggio possiamo arrivare a ChatGPT: il mondo restituito dagli algoritmi o dall’intelligenza artificiale, anche nella sua dimensione visuale, è un modo essenzialmente linguistico, completamente ritagliato da categorie ed etichette che abbiamo creato e che nella pur ricchezza e accuratezza del calcolo non possono che risultare estremamente limitanti, rispetto al mondo stesso. Se è vero come dice Cimatti che noi vediamo quello che già conosciamo, allora la bolla di filtri in cui noi viviamo non è altro, di nuovo, che l’ultimo stadio tecnologico di una relazione con il mondo che contraddistingue la nostra specie. Le conseguenze sono enormi, non da ultimo dal punto di vista etico: se nel ritaglio di mondo che opera il mio linguaggio, e che il linguaggio ricrea nel raddoppiamento digitale del mondo, l’altro da me è solo bianco, maschio, etero, cristiano, ecc., tutto ciò che non ricade in queste categorie deve essere espulso. 

Riproponiamo allora la domanda di Cimatti: come fare a tornare a vedere il mondo? O forse dovremmo chiederci come fare a vedere il mondo ogni volta – o almeno ogni tanto – come se fosse la prima volta, in senso letterale? Da Wenders a Ghirri, da Shiras a Arghinà , Cimatti trova nella fotografia – che lui stesso pratica e con cui accompagna i diversi capitoli del libro – nel cinema e nell’arte delle occasioni per quello che definisce uno sguardo selvaggio, inumano, uno sguardo che rinuncia al ruolo di spettatore (e quindi padrone) assoluto del mondo e prima ancora di essere soggetto della visione ne diventa oggetto. Scrive Cimatti:  

Tuttavia l’altro c’è, c’è sempre stato. Basta aprire gli occhi (ossia, esporsi allo sguardo altrui), e il mondo esplode di luce, ossia esplode di altri punti di vista. Ma forse, per accorgersi di questo sguardo inumano, basta chiuderli, gli occhi. Diventiamo allora una qualunque cosa vista. Il soggetto assoluto non c’è più. L’antropocene finisce quando ci si permette di offrirsi allo sguardo delle cose. Il mondo ci guarda da tutti i punti di vista, dal cielo come da una toppa d’asfalto (ivi, p. 11). 

Forse il senso di profondo disorientamento del periodo pandemico risiede anche in questa esperienza, nell’essere diventati oggetto di visione, ovvero di appropriazione, di qualcosa (il virus) che noi non vedevamo, come se avessimo brancolato ad occhi chiusi per molto tempo e il mondo improvvisamente si fosse trasformato in qualcosa di non più appropriabile, nonostante le contromisure adottate (i dati, le immagini, la trasformazione del mondo domestico nell’unico mondo possibile). La pandemia ci ha fatto fare in fondo questa esperienza dell’occhio selvaggio, mostrandocene il carattere incontrollabile, sfuggente, arrischiato. Alla fotografia e all’arte spetta un compito che forse potremmo definire immunizzante, condurci al limite dell’umano, senza farci però sprofondare in esso, permettendoci di tornare nel mondo e di riuscire a vederlo, di nuovo e per la prima volta

Riferimenti bibliografici
M. Carbone, G. Lingua, Antropologia degli schermi. Mostrare e nascondere, esporre e proteggere, Luiss University Press, Roma 2024.
F. Casetti, Schermare le paure. I media tra proiezione e protezione, Bompiani, Milano 2023.
P. D. Keidl, L. Melamed, V. Hediger, A. Somaini, a cura di, Pandemic Media: Preliminary Notes Toward an Inventory, Meson Press, Lüneburg 2020.
M.A. Mariani, F. Zucconi, “Il pensiero del virus. La filosofia alla prova del Covid-19.” ALLEGORIA 33.83 (2021): 184-196.

Felice Cimatti, L’occhio selvaggio. Sul lasciarsi vedere, Quodlibet, Macerata 2024.

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