Occorre strappare ogni volta ai dispositivi – a ogni dispositivo –
la possibilità di uso che essi hanno catturato.
La profanazione dell’improfanabile
è il compito politico della generazione che viene.
Giorgio Agamben

Nel 1970 Jean-Luc Godard rilascia un’intervista a Marcel Martin per la rivista “Cinéma”. Parlando a nome dei suoi compagni del gruppo “Dziga Vertov”, Godard chiarisce il compito politico del collettivo di registi francesi nato dopo l’esperienza del maggio parigino: tentare di destituire le logiche di produzione della società capitalistica a partire da una riflessione sulla produzione cinematografica. A differenza del cinema militante dell’epoca che, secondo Godard, “si definisce come un tentativo di diffondere i film in maniera alternativa”, per il gruppo “Dziga Vertov” fare cinema politicamente significa partire dalla produzione di un film per poi regolarne la distribuzione. Cinquant’anni dopo l’intervista realizzata da Martin, Godard ci induce, ancora una volta, a riflettere intorno alla possibilità di produrre e distribuire un film dentro (e fuori) le logiche capitalistiche. La riflessione nasce in seno alla distribuzione dell’ultimo film di Godard, Le livre d’image, premiato dalla giuria del Festival di Cannes 2018 con la Special Palme d’Or.

In un’intervista rilasciata ai critici dei “Cahiers du Cinéma”, Nicole Brenez, collaboratrice di Godard, chiarisceil motivo per cui non è possibile proiettare Le livre d’image al cinema: le sale cinematografiche non sono sufficientemente equipaggiate per restituire i diversi strati di suono che compongono l’immagine sonora del film. Alla questione del suono si accompagna la necessità della resa dinamica del colore, fondamentale nel lavoro pittorico-artigianale che Godard compie in Le livre d’image (ricordiamo che il primo titolo scelto da Godard per il suo ultimo lungometraggio è Tentative de bleu). Brenez evidenzia, dunque, come le questioni tecniche legate al film siano strettamente collegate alle sue esecuzioni — “come un brano musicale” — nei diversi luoghi in cui il film viene ospitato. I luoghi svizzeri e francesi — perlopiù teatri — che ospitano e hanno ospitato Le livre d’image, inventano nuovi modi di disporre dello spazio, di montare e rimontare supporti e formati, permettendo una nuova esposizione-espansione del film. “Andiamo verso un’amplificazione — dice Brenez — quindi il montaggio si estende ed esplode nella realtà”.

Le Studio d’Orphée, l’atelier di Godard trasferito, in modo permanente dal 4 dicembre 2019, da Rolle alla Fondazione Prada di Milano, è l’unico luogo in Italia in cui è possibile guardare Le livre d’image e nove cortometraggi realizzati dal regista dopo il 1988. Due locali compongono l’atelier di Godard: una sorta di foyer (che riprende la dimensione teatrale dell’esposizione europea del film), dove i visitatori-spettatori possono muoversi liberamente osservando da vicino gli oggetti-feticcio dell’ormai consacrato Papa del cinema, e la stanza adiacente che ospita il materiale tecnico, i libri, i dipinti, i premi, i pennelli e le altre cianfrusaglie di Godard.

I visitatori-spettatori che varcano la soglia dello studio di Orfeo trovano qualcosa di singolare di fronte ai propri occhi: dei paletti di delimitazione in legno non permettono di muoversi liberamente all’interno dello spazio. Poche sedute (destinate agli altrettanti pochi visitatori che giornalmente possono visitare l’atelier e assistere alle proiezioni dei “prodotti” cinematografici di Godard) costringono i visitatori a divenire solamente degli spettatori inchiodati al proprio posto. Le passeggiate di uno spettatore-flâneur vengono così interrotte: l’ospite (hospes) scopre di essere un nemico (hostis), uno straniero che deve rimanere estraneo tanto alla produzione del film quanto alla sacralizzazione degli oggetti di Godard. Il sacro studio di Orfeo-Godard diviene, dunque, un luogo di culto dove l’esposizione del film, dei cortometraggi, e degli strumenti da lavoro del regista assumono un inedito valore cultuale, annullando la distinzione benjaminiana tra il valore cultuale e il valore espositivo di un’opera.

La delimitazione e la composizione dello spazio dell’atelier di Godard ci invita, però, a non arrenderci di fronte alla brama sacralizzante e museificante del luogo che ospita i lavori del regista. Per riflettere sulle immagini di Le livre d’image, infatti, è necessario partire da una presa d’atto (e di “posizione”) del modo in cui fruiamo del film nello spazio che è stato costruito secondo il volere di Godard. Il regista, però, sembra sorridere e invitarci a sorridere di fronte all’operazione sacralizzante e restrittiva dell’istituzione che lo ospita.

Chi si accomoda sulle sedute dello studio di Orfeo guarda la proiezione del film e dei cortometraggi dalla parte di Godard: infatti ancor prima di vedere i monitor che riproducono le immagini, lo spettatore ha di fronte a sé il tavolo da lavoro del regista. Nella scomoda postazione che siamo obbligati a occupare, Godard ci invita a riflettere su come la distribuzione di un film sia strettamente legata alla sua produzione.

Raccogliendo i segni disseminati da Godard e dai suoi collaboratori, nel tentativo di indagare la singolare delimitazione dello spazio dell’atelier, scopriamo che Fabrice Aragno, in un’intervista rilasciata a Joachim Lepastier per i “Cahiers du Cinéma”, rivela come l’idea che sottende il penultimo lungometraggio di Godard, Adieu au langage (2014), sia alla base anche della distribuzione (che rende infinita la post-produzione) di Le livre d’image: permettere allo spettatore di trasformarsi in un montatore. Lo spettatore, infatti, è chi, secondo il Godard dello Scènario du film Passion (1982), vuole vedere e ricevere (rece-voir) l’immagine; dunque la creazione di un nuovo modo di accoglienza del film da parte delle istituzioni che lo ospitano è il lasciapassare fondamentale per la ricreazione dello stesso film da parte dello spettatore.

Per questo Godard, come riferisce ancora Aragno, decide di trasferire il suo atelier a Milano: per “permettere alla gente di guardare il film così come lo guarda lui”. Nel momento in cui la distribuzione del film di Godard incontra la sua produzione, Aragno evidenzia come questa nuova pratica cinematografica si situi all’opposto della parola americana shooting, dove la cattura dell’immagine, e la sua conseguente proiezione, uccidono lo spettatore. La distribuzione-produzione di Le livre d’image, invece, permette allo spettatore di fare cinema, ricevendo e ricreando la luce che proviene dal film e proiettando quella stessa luce nella realtà.

Nelle nuove connessioni che crea tra parole e immagini, tra immagini e cose e tra parole e cose, Godard profana anche l’utilizzo quotidiano della TV: se nello Scénario du film Passion affermava che coloro che parlano in televisione non guardano mai l’immagine perchè le danno sempre le spalle, nello spazio (delimitato) del suo atelier, Godard costringe gli spettatori a prendere il suo posto, a diventare l’Orfeo che decide di non voltare mai le spalle all’immagine.

Di fronte all’immagine, lo spettatore di Le livre d’image può iniziare il suo montaggio che si estende nella realtà: è lo spettatore , infatti, a creare (infinitamente) il senso del film, decidendo quali rapporti sussistono tra la fotografia di Franz Kafka, appoggiata alla parete sinistra della stanza, e il quarto capitolo di Le livre d’image intitolato “Lo spirito delle leggi”; tra il disegno di una ballerina che esegue un’arabesque, appeso accanto al monitor più grande, e la dinamicità vorticosa dei colori del film; tra gli innumerevoli strati di tappeti che ricoprono il pavimento della stanza e gli strati di voci, musiche e rumori che compongono l’immagine sonora di Le livre d’image; tra le scure pennellate sul soffitto della stanza e l’immagine di un’esplosione che apre il film.

Nello studio di Orfeo, dunque, lo spettatore prende il posto di Godard. Nello scambio infinito messo in atto dalla produzione cinematografica godardiana, però, è importante chiarire che lo scambio – il cambiamento di posizione per prendere posizione – non ha nulla a che vedere con la produzione tardo-capitalistica. Lo scambio a cui ci conduce l’operazione godardiana è, piuttosto, la convergenza dell’io-regista e dell’io-spettatore verso un nuovo soggetto (collettivo), che – come il “soggetto-nietzschiano” di Gilles Deleuze e Félix Guattari in L’anti-Edipo – si crea dal passaggio di ognuno attraverso i diversi nomi della storia che formano la costellazione dei nomi dello studio di Orfeo (tra i quali Hannah Arendt, Franz Kafka, Michelangelo Antonioni, Roxy – il cane di Adieu au langage): “Tutti i nomi della storia, sono io…

Passando attraverso tutti “i nomi della storia”, lo spettatore diviene un “autore come produttore” che, per dirlo con Walter Benjamin, si trova a riflettere intorno a una questione: qual è la posizione di un’opera nei rapporti di produzione di un’epoca? La riflessione intorno alla questione conduce non solo a un cambiamento della funzione-autore, ma anche a una decisiva trasformazione degli spettatori in collaboratori dell’autore, se non in veri e propri autori. Così facendo, Le livre d’image, l’ultimo — a detta del regista — film di Godard, inaugura una nuova pratica tanto cinematografica quanto critica. La piccola scatola con dentro una lampadina, posizionata alla destra della scrivania, che ricorda la scatola luminosa del Godard alias Professor Pluggy che in King Lear (1987) “inventava il cinema”, ci indica la strada da percorrere per rivoltare il mondo ricreando il cinema.

Riferimenti bibliografici
AA. VV. Événement. Le livre d’image de Jean-Luc Godard, in “Cahiers du cinéma”, n. 759 (ottobre 2019),
W. Benjamin, L’autore come produttore, in Id. Opere complete.Scritti (1934-1937), Einaudi, Torino 2004.
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2014.
N. Bourriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Postmedia Books, Milano 2004.
G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 2002.
J-L Godard, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, minimum fax, Roma 2018.
C. Resta, L’estraneo. Ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento, Il melangolo, Genova 2008.

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