Molti considerano il pensiero di Jacques Rancière tra i più originali e articolati del panorama filosofico contemporaneo, eppure la sua fortuna in Italia è lungi dal potersi considerare affermata. A dieci anni di distanza dall’uscita è stato finalmente tradotto (a cura di Diletta Mansella, per la casa editrice DeriveApprodi) Lo spettatore emancipato, uno dei suoi testi recenti più appassionanti. È superfluo precisare che il tempo trascorso nulla toglie alla rilevanza teorica di questo come degli altri suoi libri, forse anche a causa del fatto che Rancière rifugge dall’elaborazione di teorie onnicomprensive e privilegia sempre l’analisi di scene che prendono spunto dal pensiero filosofico, dalla storia e dalle produzioni artistiche più significative del passato e del presente, provando a interrogarne il senso in modo sempre personale e poco ortodosso. È anche questa sua posizione difficilmente incasellabile a determinarne con tutta probabilità una considerazione poco attenta: che tipo di filosofo è Rancière, e a chi parla? Agli storici, ai filosofi, ai letterati, ai cinefili, ai poeti? E come bisogna considerare, più nello specifico, il libro di cui intendiamo trattare qui?

Lo spettatore emancipato è un assai peculiare elogio della finzione, o meglio un invito a cogliere il potere e la logica della razionalità finzionale. Chi lo legge non tarderà a scoprire ad esempio che per Rancière la finzione non è il contraltare del documentario: essa «non consiste nel raccontare storie, ma nello stabilire nuovi rapporti fra le parole e le forme visibili, tra il discorso e la scrittura, tra un qui e un altrove, tra un c’era una volta e un adesso» (Rancière 2018, p. 122). Il cinema e la letteratura hanno evidentemente un grosso peso nella definizione di questo punto di vista, che Rancière ha espresso per la prima volta in maniera sistematica in un breve testo intitolato La partizione del sensibile; ma più in generale ogni opera d’arte secondo Rancière lavora per ridefinire i confini e gli spazi di visibilità del mondo e trasforma così l’esperienza e il senso stesso della parola “comune”, permettendo «una rivoluzione attraverso la quale coloro i quali non sono niente diventano tutto» (Rancière 2017, p. 17). Analizzare le forme della finzione, attraversare le configurazioni che può assumere il lavoro delle immagini come lo ha definito in un libro recente la studiosa cilena Andrea Soto Calderón — significa allora legare in maniera stretta arte e politica in quanto pratiche che costruiscono un mondo sensibile condiviso che utilizza parole, immagini e racconti che determinano le modalità con le quali percepiamo le cose. Per farla breve: arte e politica sono questione di estetica.

I cinque interventi che compongono Lo spettatore emancipato appartengono — come è frequente nella sua produzione — a occasioni e contesti diversi, ma ruotano tutti attorno a questi temi. A partire da un’analisi di quello che, parafrasando Diderot, viene definito il paradosso dello spettatore (tra una presunta passività “classica” e la richiesta “moderna” di una certa attività, entrambe fallaci), Rancière si misura con le disavventure del pensiero critico in un saggio che riprende alcuni temi affrontati in testi precedenti. Pretendere di contrapporre una realtà solida a un regno delle apparenze significa per molta arte critica peccare di un’ingenuità che si dà l’alibi dell’impegno; imparare a lavorare con le apparenze vuol dire invece (soprattutto in un’epoca come la nostra) evitare di ritenere che l’arte debba inevitabilmente arrendersi allo strapotere della merce e ridursi a gioco fine a sé stesso. Rancière intende così reagire al disincanto nei confronti del mondo che caratterizza una certa malinconia di sinistra e che si sviluppa parallelamente a un nuovo furore di destra.

Alla nostalgia per i bei tempi andati e contro una certa ortodossia marxista che mette in guardia il proletariato dalle illusioni della società borghese, Rancière risponde che non c’è mai una realtà vera a cui si contrappongono le apparenze, ma soltanto divisioni diverse di spazi, tempi e competenze, alcune delle quali pretendono di stabilire cosa è adatto a chi. Se non esiste una realtà vera (perché ciò che definiamo realtà è sempre una determinata configurazione del sensibile in atto) né meccanismi che rischiano di trasformare la realtà in immagine illusoria, occorre riconoscere allora che «ci sono semplicemente scene di dissenso, suscettibili di verificarsi in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento» (Rancière 2018, p. 58) che possono essere individuate come tali. Contro l’omogeneità di un modo unico di presentazione e interpretazione del sensibile che si impone come evidente di per sé, Rancière parla del dissenso come di un conflitto tra diversi regimi di sensorialità. Ed è a partire dalla presentazione di scene di dissenso, vale a dire dalla costituzione di una diversa partizione del sensibile, che possono nascere vere e proprie azioni di soggettivazione politica che disegnino una nuova topografia del possibile: promuovere la comprensione delle scene dissensuali significa affermare che il tempo della politica non è finito né confinato al passato. L’elogio della finzione è dunque sempre contemporaneamente anche un elogio della politica.

Si può parlare quindi di una politica dell’arte, che va distinta dalla politica degli artisti e che è diversa anche dalla politica propriamente detta. Pur avendo al loro cuore il dissenso, le modalità politiche dell’arte e quelle della politica tradizionale sono diverse: se la prima non si presta ad alcun calcolo predeterminabile ed è il risultato di un intreccio tra logiche diverse che elabora il mondo sensibile dell’anonimo, la politica propriamente detta agisce tramite forme di soggettivazione collettiva che identificano un “noi”. L’arte che si vuole direttamente politica, passando direttamente dalla costruzione di un mondo sensibile al tentativo di produrre un effetto tramite le sue rappresentazioni, incorre allora in non pochi paradossi che Rancière analizza nel terzo dei suoi saggi partendo dal teatro di Molière fino ad arrivare alla teoria dello straniamento nel teatro di Brecht. In questo percorso egli ricorda come l’invenzione di nuove forme di esposizione e fruizione delle opere abbia determinato storicamente una rottura estetica e la nascita di un nuovo regime di interpretazione delle arti (il cosiddetto regime estetico delle arti), ma è nel misurarsi con il concetto di intollerabilità dell’immagine nel più cinematografico dei saggi di quest’opera — che Rancière tocca probabilmente uno dei punti più significativi del libro.

Il punto di partenza è la polemica tra Georges Didi-Huberman e Gérard Wajcman sulla rappresentabilità della Shoah. Rancière analizza i termini sui quali si polarizza la discussione e decostruisce con attenzione la contrapposizione tra parola e immagine (la parola dei testimoni del film di Claude Lanzmann, Shoah, e le immagini delle quattro foto strappate all’inferno realizzate dal Sonderkommando del crematorio V di Auschwitz, al centro della mostra Mémoire des campse del successivo libro di Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto). È questa diatriba a permettere a Rancière di proporre un ragionamento articolato sul significato dei termini “rappresentazione” e “immagine”: se si vuole offrire uno sguardo nuovo «su quel che le immagini sono, su quel che esse fanno e sugli effetti che producono», bisogna considerare che «la rappresentazione non è l’atto di produrre una forma visibile, ma l’atto di produrre un equivalente, cosa che il discorso fa altrettanto che la fotografia. L’immagine non è il doppio di una cosa. Essa è un gioco complesso di rapporti tra il visibile e l’invisibile, il visibile e la parola, il detto e il non detto» (ivi, p. 112). Di qui il confronto con le opere di Alfredo Jaar e di Rithy Panh sui genocidi ruandese e cambogiano gli consente di tornare sulla questione dell’intollerabilità in modo illuminante e gravido di conseguenze metodologiche tutt’altro che secondarie:

Il problema non sta nel sapere se occorre o meno mostrare gli orrori subiti dalla vittima di questa o quella violenza. Il problema sta nella costruzione della vittima come elemento di una certa distribuzione del visibile. Un’immagine non è mai da sola. Essa è parte di un dispositivo di visibilità che regola lo statuto dei corpi rappresentati e il tipo di attenzione che essi meritano. La questione consiste nel sapere che tipo di attenzione viene provocato da questo o quel dispositivo? (ivi, p. 118).

Come trattare l’intollerabile è dunque una questione legata ai dispositivi di visibilità, ovvero, con Foucault, a un principio di disciplina, di controllo e di ordine del discorso nel quale una simile questione è inserita. È a partire da casi ed esempi molto precisi che Rancière riesce ad affrontare questioni teoriche cruciali. Nell’ultimo capitolo, intitolato “L’immagine pensosa”, l’ultima frase di Sarrasine di Balzac, riletto da Barthes in S/Z, è lo spunto a partire dal quale l’aggettivo “pensoso” diventa l’occasione per una più ampia riflessione sull’immagine fotografica che attraversa fotografi come Walker Evans, Alexander Garner, Lewis Hine e Rineke Dijkstra, tramite un détour che prende in considerazione la pittura di Murillo, le Lezioni di estetica di Hegel e Madame Bovary di Flaubert. Forse più che in altre sue opere, è evidente come dalle singole scene prese in esame emerga un discorso coerente e radicale, potenzialmente — anche se non necessariamente — applicabile a contesti diversi.

Quando parla di teatro, Rancière ha in mente anche il cinema. Dietro le pagine su Rousseau sembra di leggere il nome di Ken Loach. Quando parla di Artaud viene da pensare al più recente spettacolo di teatro sperimentale, mentre l’uso che fa del pensiero di Platone e di Aristotele non è da erudito, bensì da militante. Lo spettatore emancipato rappresenta allora una riflessione di profonda inattualità, perché inattuale è il pensiero dell’emancipazione che Rancière prova a portare avanti. Incentrare il punto di vista sullo spettatore significa svincolare l’arte sia dalla logica della trasmissione diretta sia dalla logica di chi, al contrario ma nello stesso senso, vuole disinnescarne completamente la carica politica affermando che le immagini sono tutte uguali, sono troppe e non possono modificare niente.

Non è mai la comparsa di nuovi medium a determinare la fine di un’epoca — o, al contrario, a offrire di per sé nuove possibilità. Non sono mai le caratteristiche tecniche di un mezzo a determinare (con Baudelaire) la fine dell’immaginazione creatrice o (con Benjamin) la soppressione dell’aura e la trasformazione dell’intera funzione dell’arte. Ciò che conta sono sempre i regimi di discorsività all’interno dei quali le pratiche (artistiche, filosofiche, politiche) sono inserite, le configurazioni del sensibile a cui finzioni diverse possono dare vita.

Le immagini o una narrazione non possono modificare niente se chi le recepisce è completamente anestetizzato: contrapporre alla logica del consenso una logica dell’emancipazione significa allora riconoscere che è nelle possibilità di chiunque costruire finzioni appropriandosi di saperi e pratiche che si presumono appannaggio esclusivo di alcuni e traducendole a modo proprio. L’invito di Rancière, secondo il quale «una comunità emancipata è una comunità di cantastorie e di traduttori», è quello di «congedare i fantasmi del verbo fatto carne e dello spettatore reso attivo, sapere che le parole sono soltanto parole e gli spettacoli solo spettacoli» per «capire meglio come le parole e le immagini, le storie e le performance possono cambiare qualcosa del mondo nel quale viviamo» (ivi, p. 29). Contro ogni semplificazione o riduzione a formula, il pensiero di Rancière è un invito costante a pensare il presente.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000.
R. De Gaetano, a cura di, Politica delle immagini. Su Jacques Rancière, Pellegrini, Cosenza 2011.
J. Rancière, Lo spettatore emancipato, DeriveApprodi, Roma 2018.
Id., La partizione del sensibile. Estetica e politica, DeriveApprodi, Roma 2016.
Id., Il disagio dell’estetica, a cura di Paolo Godani, ETS, Pisa 2009.
Id., Les bords de la fiction, Éditions du Seuil, Paris 2017.
Id., Le travail des images. Conversations avec Andrea Soto Calderón, Les presses du réel, Paris 2019.

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